The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Imbolc 2017

'Con questo sistema, o Socrate - soggiunse -, ciò che è mortale partecipa dell'immortalità, sia il corpo, sia ogni altra cosa; ciò che è immortale, invece, vi partecipa in altro modo. Non ti stupire, dunque, se ogni essere tenga in onore il proprio rampollo, perché è in funzione di immortalità che questa cura e l'amore s'accompagnano ad ognuno'".

Soffia il vento sul numero cento.
Ho cercato sempre di amare ogni cosa che ho fatto. Anche quando passavano gli anni e, come spesso accade, l'amore viene meno. Un giorno da bambino, vidi un film italiano. Nei miei meravigliosi anni ottanta, dove gli eroi indossavano mantello e calzamaglia, stavano in pigiama sul ponte di un'astronave a discutere di logica con alieni dal sopracciglio sempre alzato o erano spie con auto fiammanti al servizio di Sua Maestà, un film come quello era un'anomalia. Eppure mi affascinò moltissimo. Si chiamava Grande Cinema Paradiso. Narrava la storia di un bambino che amava il cinema del suo paese così tanto che arrivò a salvare la vita dell'operatore che vi lavorava, quando durante un incendio questi rimase svenuto nella sala di proiezione. Quando divenne grande, lo stesso operatore gli disse di andarsene da quel paese e non guardarsi indietro: "Qualunque cosa farai, amala, come amavi la cabina del paradiso quando eri picciriddu".
Quella frase mi è rimasta dentro e io ho cercato di renderla anche un po' mia, di applicarla alla mia vita. Non ci sono riuscito sempre. A volte le cose non sono andate come credevo e ogni tanto penso che forse, se le avessi amate di più, sarebbero riuscite meglio. Tuttavia si fa sempre presto a parlare al passato, di quello che avresti fatto, di quello che avresti voluto dire. Ma viviamo nel presente e le cose che non abbiamo detto, le persone che non abbiamo salutato, ciò che non abbiamo fatto, divengono parte del tuo bagaglio; quel qualcosa che puoi solo portare con te e che, come diceva Danny De Vito in Big Kahuna, faranno emergere il tuo carattere. Tuttavia, ho potuto constatare sulla mia pelle che è una massima che, quando applicata, funziona. Quando applicata, certo.
Ho aperto il lato Craft del Reef nel 2003, con l'aiuto di una cara amica. Ho continuato da solo perché l'ho amato ogni giorno della mia vita, anche quando lo odiavo con tutto me stesso, anche quando mi chiedevo se c'era qualcuno che leggeva ciò che scrivevo, anche quando avrei desiderato smettere, anche quando ho rifiutato di pubblicare quelle cose su carta stampata perchè volevo che fosse Arte Libera. Anche quando ho visto i miei articoli pubblicati su pagine FB di ignobili individui che le hanno spacciate per loro e che hanno avuto anche il coraggio di arrabbiarsi quando glielo abbiamo fatto notare, o magari su forum o altri siti. Ho avuto vicine tante persone che mi hanno aiutato ad amarlo e a renderlo speciale e a volte, quando parlo con alcuni di loro, quelli che sono rimasti, mi rendo conto con stupore di sentire una certa fierezza nella loro voce quando ne parlano, come se si sentano davvero grati di lavorare per questo sito. Non avrei mai pensato di arrivare a questo.
Non è sempre stato facile, ma lo abbiamo fatto. In questi quattordici anni anni ho scritto così tante parole che, se le mettessi tutte assieme farei probabilmente un tomo alto come il Signore degli Anelli. Magari non così biblico, certo e nemmeno così tanto eroico. Ma ci sarebbe da leggere, questo è certo.
Tuttavia, in tutti questi anni sono rimasto ancorato ad una visione del web che è cambiata, che mi è mutata sotto le mani, e per quanto io cercassi di tenerla stretta, perché sono un malinconico del cazzo, questa non ha mai smesso di trasformarsi. Ed è giunto il giorno in cui mi sono reso conto che il Reef era vecchio e che, così com'è non può svolgere più la funzione che mi ero prefissato, così lontana nel tempo. Funzione che ha svolto per molti anni, senza mancare un singolo aggiornamento ad ogni sabba, che, con questo, arrivano a 100. 100 sabba. Non pensavo di poter contare così tanto nel tempo; quando cominci qualcosa non sempre ragioni su quanto questa cosa durerà nel tempo. Banana Yoshimoto, nel libro "L'Ultima Amante di Hachiko" descrive questo concetto con il "vedere la fine" di qualcosa. Io non ho mai visto la fine del Reef, e forse è anche per questo che dopo tutti questi anni continua ad esistere.
Tuttavia più il tempo passava, più sentivo spirare un vento che, forse richiamando al nome che ho scelto, continuava a soffiare. E lo sentivo chiamarmi, come capitava a Vianne Rochet. Questo vento continuava a dirmi che mi stavo aggrappando al passato e che presto sarebbe giunto il momento di cedere. Era un vento di cambiamento. Mi sono opposto, adducendo a scuse di ogni tipo per non ascoltarlo, ma alla fine ho dovuto lasciare andare. Non c'era nulla di male, dopotutto, in questo vento, semplicemente doveva fare pulizia. E io lo conoscevo bene, perché non era la prima volta che lo sentivo soffiare.
Ci sono volte, sapete - non sempre - in cui mi ritrovo di fronte alla pagina vuota di questo editoriale e non so proprio cosa scrivere. Pertanto comincio scrivendo: Editoriale, seguito dal sabba relativo e dall'anno. Poi, dopo alcuni minuti, sento che le parole arrivano. E allora apro la mente e lascio che le mani vadano dove devono, parlando di ciò che ho dentro, descrivendo ciò che mi porta tormento. Dopotutto Michel de Montaigne scrisse: "Scrivere non porta tormento, nasce dal tormento". Poi, quando rileggo quelle righe, magari dopo mesi e mesi, mi rendo conto che sono così contorte e inestricabilmente annodate che i pensieri stessi faticano a destreggiarsi nella selva di quei ricordi e mi servirebbe un machete e una buona dose di Bear Grylls per continuare su quella strada. Soprattutto su quella per cui qualche tempo dopo mi fanno domande su ciò che ho scritto, perché vogliono capire sinceramente cosa intendo dire, a chi mi riferisco quando parlo in seconda persona. E io non so rispondere e mi devo arrabattare, perché spesso quando scrivo in questo modo sto facendo boccacce davanti ad uno specchio e sto parlando con me stesso, sto scrivendo lettere agli Dèi, sto dicendo cose che hanno senso solo per me. E ce l'hanno in quel momento, mica per sempre. Quando quel momento poi passa, io vado oltre, come quando metti un film in pausa e cogli il protagonista, sex symbol di turno, con una faccia buffa. Mai più troverai quell'esatto istante, come due gocce d'acqua che cadono sincroniche; è una danza perfetta, ma dura solo un momento, poi passa. E quando passa non possiamo smettere di vivere, di respirare, di pensare, di cogliere lo sbocciare del nostro futuro, dobbiamo continuare.
Quando ero ragazzo odiavo le feste. Le evitavo sempre. Soprattutto se si doveva ballare. Io ero come Dylan Dog: non ho mai ballato. E così quando accettavo di andare alle feste, per qualche motivo, io restavo seduto a fumare e a contemplare la gente che si divertiva, fingendo di essere a mio agio in quello stato. Ma in realtà non lo ero. Allora gironzolavo, talvolta, e come una mosca mi posavo ora qui dove si beveva, ora là a chiacchierare con chi prendeva fiato. Ora, non mi è mai piaciuto ballare in quanto tale. E' sempre stato qualcosa che semplicemente non faceva per me. Ma la domanda era: perché andavo a quelle feste, in cui sapevo che si sarebbe ballato, se poi rimanevo da solo, seduto in un angolo, come quelle dame che attendono che qualcuno le inviti? Forse perché facevo qualcosa che dovevo e non perché volevo. Nel tempo, scrivere gli editoriali è diventato per me come andare ad una festa. C'erano delle volte in cui sentivo di avere qualcosa da dire. E a volte in cui mi domandavo se quando scrivevo lo facevo perché dovevo o lo facevo perché volevo. E ci sono volte in cui non avrei saputo rispondere a questa domanda; in effetti questa è una di quelle volte.
Ho sempre professato che la libertà di amare è qualcosa al di sopra di ogni altra cosa. Forse ancora di più di quella di essere se stessi, perché credo che se non ci sentiamo liberi di amare noi non possiamo essere noi stessi, quindi di fatto una cosa rischia di annullare quell'altra. E io ho amato ogni editoriale che ho scritto, anche quelli che trasudavano odio. Ma sono anni che vivo nella paura che quell'amore stia diventando per me una prigione; e dove c'è una prigione non c'è più amore. Devo lasciare che il vento soffi via. Magari a Oestara scriverò un nuovo editoriale, magari non ne scriverò mai più, ma quello che so è che voglio continuare ad amare ciò che faccio per un fine che non è legato al "doverlo fare", ma perché sento che è giusto.
Ad ogni modo posso contare sulle dita di una mano le persone che so per certo che leggono queste righe, quindi forse il senso di scriverle perché siano pubbliche è sfumato ed evaporato tanto tempo fa. Quindi, da un certo punto di vista, perché non accogliere il cambiamento? Dopotutto il bruco non teme di dover diventare farfalla. Anche se sa che poco dopo morirà, lo accetta perché mutare è parte della sua natura. Non ho dato retta a questo vento che mi chiamava e ora mi sta reclamando. Mi sta bussando alla porta con insistenza e mi sta dicendo che ciò che dovevo dire l'ho detto, e che se voglio continuare devo andare all'origine di ciò che è stato. E l'origine è l'amore. L'amore per l'Arte e per la Conoscenza. Quella con la maiuscola. Pertanto devo dare spazio a questo amore incondizionato e lasciare che trasformi questo luogo e che renda concrete le passioni, ma che non le trasformi in pietre e che non mi faccia divenire come il lupo della favola dei sette capretti, che aveva così tanti sassi cuciti nello stomaco che, affacciandosi a bere, finì per cadere nel ruscello ed affogare. Se non concedessi al tempo di trasformare me stesso, di manifestare ciò che è vero e che pertanto risplende da sempre, allora finirei affogato pure io, come quel povero lupo disgraziato (e anche un po' imbecille, diciamocelo).
Quando ho scritto il primo editoriale era Yule del 2004. Ero in attesa di conoscere mio figlio. Per un motivo che mi è nascosto, l'Editoriale di Imbolc del 2005 non esiste. Non è mai stato scritto. Non so perché, davvero. Me lo sono domandato per anni, spremendo le meningi per ricordare cosa è capitato per cui non ho scritto quel pezzo. Ma davvero non lo so. Semplicemente è il dente mancante dell'ingranaggio; ogni macchina ne ha uno. Ora, dopo dodici anni da quel momento, decido di concludere proprio con quella festività, così da rimettere le cose in ordine. E poi dopotutto ogni fine è un inizio. E questo ha il potere di essere entrambe le cose o una sola delle due. E' come un'iniziazione: il Reef cambierà, continuando ad esistere, oppure non sopravviverà al passaggio. Abbiamo ancora tante cose da dirci, ma ce le diremo in un luogo arredato in modo diverso, dove gli Editoriali, così come sono stati finora, non avranno più lo spazio che avevano prima.
Il mio amore per queste pagine e per quello che ho fatto è sempre rimasto incondizionato e indefesso in tutti questi anni, ma a volte anche se ami qualcuno tantissimo, è giusto lasciarlo andare, quando deve. Magari ne scriverò qualcuno ogni tanto, giusto per smentire quello che ho appena detto. Dopotutto sono o non sono come il Vento della Notte? E questa divinità, di cui porto il nome, era imprevedibile. Si dice che se lo incontravi ti appariva come un viandante sporco di polvere, con i calzari consumati e se lo desiderava avrebbe esaudito il tuo desiderio più grande. Oppue ti avrebbe ucciso. A sua discrezione e piacere; quel piacere che solo gli dèi possono concedersi il lusso di provare.
Io, che porto il Suo nome, non sono come lui e nel tempo, invecchiando, ho preso ad assomigliargli sempre meno, giorno dopo giorno. Ma qui, su questo sito, in questo spazio, ho conservato quel lato di completa incognita di me stesso, per tutti questi anni, come un gioiello nascosto nel profondo del cuore. Sapevo che era là. L'ho sempre saputo. E quel gioiello mi ha cambiato, lentamente. Per cui, onore a te, Yoàli Ehécatl, che mi hai concesso la tua imprevedibilità, insieme con il tuo nome, che porto con orgoglio da quasi vent'anni. E onore a chi leggerà queste righe, capirà cosa voglio dire e non si rammaricherà troppo, ma accetterà il cambiamento per quello che è. E cercate di non farmi cambiare idea, per favore, che se no poi ci casco. Lo sapete che io sono un malinconico del cazzo.