The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Litha 2007

Litha 2007

È un periodo di grandi sorprese. Il 31 maggio scorso finalmente ho fatto il saggio di canto. Nel camerino, umido e squallido, del teatro Oscar di Milano, mentre fuori diluviava, mi sono inginocchiato e ho pregato la dea. Non lo facevo da tempo, prima di cantare. C'è stato un periodo in cui era un'abitudine, ma col tempo si è persa. Vuoi perché si era perso anche il desiderio di cantare con le persone con cui mi esibivo... e vuoi anche perché mi sentivo sempre così sicuro quando salivo su un palco che non ne sentivo il bisogno. Giovedì però l'ho fatto. In ginocchio, a occhi chiusi, ho invocato la grandezza degli dei affinché mi ispirassero e mi dessero la forza di fare un grande spettacolo. Fuori dalla porta c'era un via vai eccitato di artisti. Per molti di loro era la prima volta su un palco, e io, nel mio piccolo, li invidiavo. La prima volta è sempre magica, ovunque e comunque sia. E come tutte le prime volte... non ce ne sarà mai una seconda. Mi sono isolato lentamente, escludendo ogni singolo rumore e ogni singolo suono, anche i cantanti che si stavano esibendo prima di me. Il mio respiro lento e regolare mi accompagnava dolcemente, come cullato sulle onde di un grande mare. Ho visualizzato la spiaggia, lo scoglio vulcanico che affiorava dalla sabbia bagnata e una figura di donna, avvolta in un vestito leggero, scosso dal vento, che invadente l'accarezzava. Lo faccio sempre. Ed è quella mia visione personale che non cedo mai a nessuno, perché è mia e basta. Quando ho sentito l'odore del mare mi sono alzato; le ginocchia mi dolevano; sono lontane le lezioni di Karate di quando avevo otto anni e mi mettevo una gamba dietro la testa. Mi sentivo rilassato, pronto. Ho sceso le scale lentamente, le maniche della maglietta arrotolate, i pantaloni da battaglia, la faccia appena sciacquata. Mi sentivo okay.
Così, pochi minuti dopo ero sul palco e cantavo quella canzone che mi personalizza la vita da tanto, ormai. Dietro di me girava il grande video, che rappresentava questo Carl Anderson in divisa vermiglio che saltava e cantava e indicava un Gesù Cristo magrolino in saio bianco. Ci sono poche canzoni che, nonostante siano state scritte da altri, mi colpiscono così a fondo. Questa è così. Le parole sembrano proprio lì... a portata di mano. Quel tono accusatore, ma anche monitore. Forse non è un caso che sia stato scelto io per fare quella parte, mi chiedo talvolta. Forse Giuda bisogna esserlo dentro... forse Giuda si nasce davvero, e ci voleva un tipo come me per farlo, indipendentemente dalle capacità vocali.
Ho lasciato che la musica mi fluisse dentro, intorno, e che le parole della canzone mi prendessero per mano. Il ricordo, come sempre, è ormai frammentario. Ogni volta che canto è così... è come se qualcuno prenda possesso di me e io diventi spettatore di me stesso. Mi ricordo poco, quindi, della mia esperienza sul palco: è tutto nebuloso. Peccato che, per come la vedo, cantare soltanto una canzone è come prendere la macchina per andare a comprare le sigarette nel tabaccaio dietro l'angolo. Non ho fatto tempo a salire sul palco che era già ora di salutare.
Elogi e medaglie, sono sceso un po' vittorioso. è stato un rock n' roll party anche questa volta. Ho Ringraziato la dea e ho incontrato gli altri artisti: Max Laudadio, Ganjaman... decine di volti senza nome ma che sorridono sempre e hanno voglia di divertirsi e festeggiare. Tutte persone positive con cui sono stato contento di aver condiviso una nuova esperienza. Ed è finita anche questa... se ci penso è come se si sia chiuso un grande, grandissimo cerchio che includeva me, i Silence venuti e andati... e chissà quanti altri. Le canzoni si danno a te quando è il momento... prima rischi di ignorarle perché non è tempo. E quando canti o fai musica... o magari entrambe le cose... ti rendi conto che è davvero così. È come se le canzoni abbiano una vita propria e che decidano di farsi scoprire dai musicisti quando capiscono che possono schiavizzarli e renderli succubi e farli innamorare al punto che non riescano ad ascoltare altro. Fanno il loro sporco gioco, le canzoni...
Nel tornare a casa, nei giorni seguenti, godendomi la presenza di Morgan a casa prima che parta di nuovo con i nonni, ecco una lettera nella casella. Ha come mittente quella stessa casa editrice cui ho inviato un manoscritto (chissà perché poi chiamarlo così fa sempre questo effetto di passionalità - anche se è stampato a computer). La apro senza troppa foga. Dentro c'è un piccolo libro. Mi sembra curioso che per rifiutare la mia proposta mi inviino di rimando un romanzo di qualche autore selezionato; la trovo una triste ironia. E invece, sorpresa delle sorprese, ecco scivolare fuori semplicemente una lettera piegata e un contratto i duplice copia, personalizzato giusto per me. Sembra, dopotutto, che qualcuno si sia interessato a quello che scrivo. Dopo tutti questi anni passati a rincorrere la pubblicazione restando seduto, senza mai fare un passo... ecco che alla prima occasione sfruttata la risposta è stata positiva. Il contratto, dopo un esame attento, si rivela essere ben poco allettante, ma so abbastanza dello sporco mondo dell'arte e dell'editoria da sapere che non potrei aspettarmi molto di più dal primo libro.
Nel momento in cui sto scrivendo queste righe non so ancora quale sarà la mia risposta... perché sotto lo spavaldo mantello che tutti si preoccupano sempre di risistemarmi ben bene sulle spalle affinché cada con bellezza e stile, ci sono sempre io, e in fondo non so quanto in realtà desideri vedere il mio libro stampato. Forse, tristemente, avrò così poco tempo per pensarci che mi basterà chiudere gli occhi e scoprire che in realtà l'occasione è sfumata e io scrollerò le spalle, fingendo che non me ne importi niente, per poi ripensarci nei prossimi vent'anni e dirmi che sono stato uno stupido. È già capitato in passato e credo che ricapiterà.
Perché facciamo così fatica, talvolta, a credere nelle cose di noi in cui tutti credono? Non è modestia, dannazione... è veramente paura? Me lo chiedo sinceramente. Affronto migliaia di persone tutte in una volta quando sono su un palco, come distese di teste e mani alzate... e non sono capace di superare questa grande bellezza che ho dentro, che sboccia come un sentimento senza fine e che trova la via della carta affinché (come fonte ella stessa) altri possano abbeverarsi, o magari pisciarci dentro... ma comunque sapere che esiste ed ascoltarne la voce del suo scroscio. Che sensazione terribile. Vorrei d'un tratto che Morgan mi potesse dire, sinceramente, che cosa fare. Perché so che non mi direbbe niente per farmi piacere o aiutarmi a credere più in me stesso. So che lui bypassa questa falsità. Lui dice davvero quello che pensa. E non so se esserne sollevato o rattristato da questa cosa. Non so se vorrei davvero sentirmi dire che non ha senso che io dica di sì perché nessuno comprerà quel libro o che invece sarà un grande successo e che se me lo lascerò scappare sarà un pentimento eterno.
Tempo fa, in un momento lontano lontano... a casa di una mia amica giornalista, una sensitiva prese in mano il vecchio cd dei Silence: "Call My Name". In copertina c'eravamo noi, tutti belli impomatati con l'espressione da "nun ce rumpete". Prima chiese alla padrona di casa chi fossimo, poi indicò me e commentò: "Ce la farà, ma non nella musica". La mia amica mi raccontò quell'evento divertita, esattamente con lo stesso tono che aveva quando mi mandò un sms dicendomi: "Non ci crederai mai! Il numero di cellulare della Currott finisce per 666!". Forse lei non si ricorda... ma quell'evento rimase dentro me, dormiente nel suo racconto, per alcuni anni. Ultimamente, in seguito alla mia separazione dai Silence, quelle parole sono tornate a ribattere dentro me. Le profezie, anche se gettate a caso come manciate di terra in una fossa, rimangono aggrappate dentro noi. Sempre. Ti inseguono, dannazione... e aspetti per tutta la vita che si avverino... e se ciò non accade, perché non sono veramente profezie, speriamo ogni giorno che possa accadere un evento da associare a quelle parole. E il peggio, nelle profezie, sono proprio i toni sibillini che hanno, così che puoi continuare ad arrovellarti e ripensarci e non dormirci la notte... per lo meno finché non ti soddisfano o finché non le dimentichi.
Forse abbiamo tutti bisogno di confidare in qualcosa. Nella fiducia delle persone... soprattutto. Ci serve per capire che cosa desideriamo davvero... e se lo desideriamo davvero. Le certezze, anche se paiono false o inutili, ci permettono di confidare meglio in noi stessi, al contrario dei consigli, che comunque rimangono opinioni basate sulle cose non vissute delle altre persone. Che ne farò, infine, di quelle parole?, mi chiedo. Rimarranno incastrate lì, tra i cluster del mio hard disk? O troveranno la realizzazione per le quali sono state predisposte in quella forma e sostanza?
Confiderò negli dei.

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