The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Mabon 2014

Mabon 2014

Portami in riva al mare, sotterrami nella sabbia, fa che l'acqua mi raggiunga. Nello scritto di una mano stanca vedrai il messaggio diventare più chiaro. Quando il peso che ti porti sulle spalle scivolerà via, quando la nuvola che piove sulla tua testa scomparirà, il rumore che sentirai sarà quello degli anni vuoti che crollano

Ultimamente mio figlio mi ha chiesto della fortuna. Lui ha sempre la peculiarità di farmi domande filosofiche quando siamo in macchina, magari mentre guido verso casa. Ovviamente io devo rimanere concentrato sulla strada e questo complica sempre le risposte. Ma cerco di fare del mio meglio, insomma. Credo che sia l'osservare le cose dal finestrino che stimoli la sua fantasia.
Ho sempre pensato, e lo penso tuttora, che la fortuna non esista; che in qualche modo si possa tradurre in probabilità ed equilibri universali. Per lo più sulla base del fatto che noi tendiamo sempre a considerare la fortuna o la sfortuna calcolandone gli effetti sull'immediato. Esattamente nello stesso modo in cui, come si domandava François de La Rochefoucauld: perché dobbiamo avere abbastanza memoria da ricordare fin nei minimi particolari quello che ci è capitato, e non ne abbiamo abbastanza per ricordare quante volte lo abbiamo raccontato alla stessa persona? Si potrebbe definire l'aforisma della mia vita. Alzi la mano chi afferma che non è vero.
Io non credo che la fortuna, nella concezione umana più comune, abbia un impatto reale sulle nostre scelte. O quanto meno se lo ha, è calcolato nell'istmo che collega l'essenza della vita che conduciamo a quella che desidereremmo avere. In tutto questo, come sempre, dimentichiamo l'enorme peso che fa gravare su questo discorso il tessuto stesso del non vissuto. Se ci riferiamo alla fortuna come ad un punto di vista del tutto impari, se paragonata ovviamente al suo esatto opposto, allora è relativamente del tutto facile riflettere sul fatto che non siamo fortunati ad avere ciò che abbiamo: abbiamo scelto di incarnarci qui per affrontare questo tipo di sfide. E se io dovessi morire domani, senza sapere né come né perché, credo che il mio ultimo pensiero dopo il dover lasciare mio figlio e mia moglie andrebbe alla trasmissione di ciò che ho imparato nella mia vita. Perché credo che sia nella trasmissione e nella condivisione della nostra conoscenza che si celi il significato dell'averla acquisita ed accumulata.
Non è facile pensare alla nostra vita come una ciclicità di sfide e a noi stessi come a cacciatori di queste sfide, dal principio alla fine, nei diversi tempi e nelle diverse epoche in cui siamo apparsi su questo mondo. Ma molto spesso sono numerose le situazioni, nella nostra vita, che diventano esattamente come noi le percepiamo. E questo perché il nostro approcciare a ciò che ci capita cambia totalmente il modo in cui reagiamo ad alcuni eventi in cui ci imbattiamo. Dovremmo superare i dogmi con cui tendiamo a percepire alcune cose, cambiare i nostri punti di vista, immedesimandoci magari in quelli altrui, cercare di comprendere quante migliaia di modi ci sono anche solo per dimostrare amore verso qualcuno, per far capire al mondo cosa proviamo. Per capirlo noi stessi; dato che la confusione è parte della crescita.
Se però desideriamo o ci sentiamo chiamati verso una spiritualità che mette la nostra vita sotto un'ottica da sfida, allora tutto cambia. Ogni singolo evento diviene uno stimolo. E non sempre è piacevole; può diventare anche frustrante. Per me spesso lo è stato. A volte, quando sorgeva il sole e io avevo un unico, semplice desiderio: tenere la testa sotto le coperte, come Garfield quando si sveglia di lunedì e magari, proprio come lui, affermare che se non lo infastidisce, se non gli dà modo di irritarlo, quel giorno non sarà così terribile. Peccato che se non funziona per lui, non funziona nemmeno per noi. Ci sono momenti, e posso garantire che è così, che vivere con questa consapevolezza ti fa venire voglia di urlare: fermate il mondo, voglio scendere!
Se noi agiamo nella sfida, significa che spesso questa sfida corriamo il rischio di non superarla. E la fortuna o la sfortuna in questo hanno un ruolo o è già stato tutto scritto, tutto deciso, come il chiodo e il quadro in Novecento di Baricco? Quello che so è che non c'è stato nulla nella mia vita che mi abbia insegnato di più del fallimento. Cadere e rialzarmi e ricadere e rialzarmi. Sbagliare e farmi male, non ascoltare chi mi amava per decidere per me stesso e fallire ancora e ancora e ancora. A volte, addirittura, sentivo di commettere un errore gravissimo nel momento stesso in cui compivo una data azione, ma... inevitabilmente seguivo quella strada, sapendo dove avrebbe portato.
Mi fu permesso di vedere i Gremlins solo quando ebbi circa dieci anni. Il film era uscito nel 1984, quando io avevo solo sei anni, ma a me fu proibita la visione in quanto ritenuto troppo violento per la mia età. Ovviamente a quei tempi guardavo i cartoni di Ken Shiro e L'Uomo Tigre e ascoltavo con quella morbosa profonda attenzione che provano i bambini per le storie raccapriccianti, i racconti che mio fratello faceva dei film come l'Esorcista o i Goonies. Pertanto vedere i Gremlins per me fu un'iniziazione. Mi aspettavo cose mirabolanti, anche se ormai lo conoscevo a memoria prima ancora di vederlo. Tanto che poi quasi ne rimasi deluso. A distanza di anni quel film mi è rimasto impresso per un particolare: la differenza che correva tra Mogwai e Gremlins (a parte l'aspetto e il carattere) consisteva principalmente nel fatto che i primi desideravano vivere una vita lunga ma tranquilla, mentre i secondi una vita breve ma eccitante. Per anni mi sono chiesto, in momenti diversi e con risposte diverse, se dentro io mi sentissi più Mogwai o più Gremlin. La parabola della vita nel film faceva intendere sottilmente che la scelta dei Mogwai fosse quella della saggezza e quella dei Gremlin invece rispecchiasse tutt'altro. Ad un primo acchito, però. Quindi una persona può vivere come un Mogwai o vivere come un Gremlin. I Mogwai vivono di più, ma così facendo non rischiano mai nulla. Certo, è una vita più sicura; tuttavia non apriranno mai il loro orizzonte. La sicurezza diventerà mancanza di intraprendenza e di curiosità, pertanto di crescita. È vero, esplorando il mondo, sia interiore che esteriore, si rischia di farsi male. Ma a non farlo si rischia di perdere tutto ciò che di meraviglioso ci attende. Un Gremlin non ha paura di fallire. Un Gremlin rischia il tutto e per tutto per godere dei momenti della sua vita.
Se la paura del fallimento mi avesse frenato dallo scommettere nella e sulla mia vita, come Mogwai, io non avrei una moglie stupenda, un figlio meraviglioso, una congrega di persone di cui mi fido, degli amici instancabili che lavorano con me da dieci anni per portare avanti un progetto come il Reef, che esiste soprattutto grazie a loro. Questa è fortuna? In effetti poteva andarmi tutto male. Potevo trovarmi con una massa indistinta di stronzi che non sarebbero mai stati persone fidate e non una congrega, con gente ignorante, presuntuosa e senza preparazione che avrebbe solo fatto di tutto per garantirsi un'immagine di loro stessi da rimirare sulle pagine di questo sito; mi sarei potuto trovare da solo a condividere quella casa con i miei gatti e con i miei pensieri e a non trovare mai più l'amore nella mia vita, a mangiare davanti a World of Warcraft e a cucinare tra un raid ed un altro. Ma non è andata così solo per caso. Non è andata bene perché c'erano più probabilità che fosse così di quante ce ne fossero che andasse in modo diverso. Anzi, ci sono stati momenti della mia vita in cui è stata così, in cui non sapevo dove girarmi perché mi sembrava di camminare su delle uova. Ci sono stati i momenti in cui non sapevo più di chi mi potevo fidare; un giorno in cui hanno suonato alla porta del mio appartamento, sono andato ad aprire e sulla soglia c'era un'ombra oscura che mi diceva che era il momento di rendermi conto che avevo fallito, che avevo perduto tutto ciò che credevo di avere perché non ero stato in grado di rendermi conto di cosa avevo veramente. Ma questi momenti, questi fallimenti, mi sono serviti. Mi hanno temprato. E la mia capacità di rimettere un po' d'ordine non è stata solo fortuna; è stata perseveranza e forza d'animo. È stata desiderio di farcela, di non mollare. È stata educazione al sacrificio, al guardare oltre, al cercare di essere migliore, ogni giorno, per me stesso e per chi mi sta intorno, oltre che per chi verrà dopo di me.
Tuttavia la paura di fallire non è mancata. Mi ha attanagliato nei momenti più disparati. Tornando indietro con la memoria la prima volta fu all'esame di karate per prendere la cintura arancione. Avevo, forse, nove anni. Non ero lì perché fosse la strada che volevo davvero percorrere, ma solo perché desideravo e sentivo il bisogno di compiacere qualcun altro e credevo che così facendo sarei riuscito nel mio intento. Quando mi posi di fronte all'esaminatore, che altri non era se non il maestro del mio maestro, sentii le mie giunture, di solito flessibili, farsi completamente di legno. Il kata che dovevo ripetere a memoria, se non ricordo male l'heian nidan era impresso nella mia mente con la forza di un rotocalco. Quando misi i piedi sul tatami, posai lo sguardo sulla mia sinistra, dove il mio maestro e l'esaminatore, seduti a terra sotto la finestra, erano serissimi. Non avevo mai visto il mio insegnante così austero. Forse la presenza della persona che l'aveva reso ciò che era lo faceva sentire in qualche modo in soggezione. Appena l'esaminatore mi disse che potevo cominciare mi misi in posizione, salutai e gridai il nome del kata. Ma mi bastò fare il primo passo che tutta la mia sicurezza andò in frantumi. Cercai di mantenere il filo fino alla fine, ma mi perdetti una posizione di parata e, cosa peggiore, me ne accorsi e questo mi fece crollare. Sentivo gli occhi del sommo maestro su di me, dietro quegli occhiali a goccia dalle lenti spesse e il suo sguardo pesava come se fosse la canna di una pistola puntata in mezzo alla fronte. Ebbi comunque la costanza di portare il kata a conclusione. Quando terminai, lui lesse dal foglio dove aveva preso appunti tutti gli errori che avevo commesso e me li mise di fronte agli occhi, uno per uno, come se fossero macchie di sugo su una camicia bianca. Ricordo che cacciai indietro le lacrime di umiliazione e uscii a testa bassa. Mi cambiai da solo piegando malamente il karategi e arrotolando la mia cintura gialla per infilarla nel mio zainetto a righe bianche e rosse. Avevo una fretta indiavolata di uscire di lì e correre via, dove se avessi pianto nessuno mi avrebbe ritenuto una mezza cartuccia. Mio papà, che mi accompagnava e mi veniva a prendere, non era ancora arrivato, per cui gli andai incontro. Andare in giro per Milano da soli a quella età, negli anni ottanta non era una cosa così terribile come ora. Quando vidi mio papà scoppiai a piangere come un disperato e lui mi consolò come solo un papà è in grado di fare. Credo che in quel momento cominciò a farsi chiara dentro me la verità che dopotutto io di karate non ne volevo proprio un cazzo, tuttavia non mollai. Venni in seguito a sapere che quasi tutti quelli che si sottoposero all'esame per passare di rango furono bocciati. Mal comune mezzo gaudio, insomma.
Presentarmi di nuovo a lezione la volta successiva fu, forse, la cosa più difficile. Quando guardavo il mio maestro, un ragazzo che aveva, forse, trent'anni, mi sembrava di leggere la delusione per il mio fallimento. Ma bastarono alcuni minuti di lezione per capire che era tutto nella mia testa. L'affetto e la stima che provava per me, quanto meno apparentemente, non erano per nulla mutati.
Tuttavia impiegai ancora altri fallimenti, molti, per capire che non è necessario essere invincibili per far sì che le persone cui tieni continuino a provare affetto per te; per capire che alcuni sentimenti funzionano ed esistono indipendentemente dalle nostre conquiste, dalle nostre vittorie, dal nostro sbagliare e dal nostro fallire.
Nonostante ciò noi aneliamo alla vittoria. Noi aneliamo alla conquista. Aneliamo alla guarigione. Ma non possiamo conoscere nessuna di queste cose se ne rifiutiamo l'opposto. Tutto questo lo possiamo solo ottenere conoscendo il significato del fallimento, della perdita, della malattia. Devi imparare a strisciare prima di imparare a correre, devi imparare a perdere per sapere come si vince. Eppure fa male e la gente ha paura del dolore. Ha paura di non essere abbastanza.
Quando ero bambino ho sempre creduto di essere invulnerabile. Credo che tutti i bambini lo pensino. Alcuni diventano adulti continuando a pensare di esserlo. Alzo la mano per primo per non far attendere gli altri. Anche io a volte mi rendo conto che ragiono ancora così. Credo che sia necessario un apporto realmente forte di esperienza per permetterti di capire la verità. Quanto meno, forse, per accettarla senza riserve. Tra l'immaginazione e la realtà esiste un baratro dannatamente largo e profondo, che nessuno di noi può sperare di saltare e non ci sono ponti invisibili da attraversare, nemmeno se si è dominati da una fede incrollabile. Se trattengo il respiro, magari perché ho la coscienza che ognuno di essi segna il conto alla rovescia fino a quando esalerò l'ultimo, non cambierà il corso del mio destino.
Il fallimento ci serve per tastare anche il nostro potenziale, certo. Tuttavia a volte incontro persone che partono con dei progetti in un modo già di per sé fallimentare, minandone il corso dall'inizio alla fine, ad ogni angolo, inconsciamente facendo di tutto per far sì che non vadano in porto e per poter poi in questo modo sentirsi sfortunati e inconsapevoli complici del loro stesso destino. Riesce sempre a sorprendermi la capacità dell'essere umano di essere davvero padrone del proprio destino, senza in realtà rendersene conto. Sono i momenti peculiari che ti fanno sentire in qualche modo a parte di questo mistero universale: ad esempio prendere per sbaglio una strada e incontrare una persona che non vediamo da un sacco di tempo o evitare, così, un incidente che poteva essere fatale se ne fossimo stati coinvolti. Ci ritroviamo a pensare che ogni cosa capiti per un preciso motivo, ma, nonostante ciò, riteniamo che alcune cose siano soggette ai capricci della fortuna o sfortuna. Questo è uno dei controsensi della vita o del nostro pensare ad essa che non risparmia nessuno.
Una volta, qualche anno fa, quando ancora non ero vegetariano, ero ad un tavolo a mangiare un hamburger con una mia vecchia fiamma. Avevo un dolore, dentro, che aveva bisogno di un chiarimento; comprendendo come potesse, forse, aiutarmi, la mia ex mise la mano nella borsa, cercò un po' e poi estrasse una busta di stoffa scura, legata da un cordoncino. Lo slegò e ne estrasse un mazzo di tarocchi che cominciò subito a mescolare in modo meticoloso. Mi fece quindi una domanda e io replicai. Così lei mise giù una prima carta che, a suo dire, rappresentava me stesso nel momento attuale; dopodiché estrasse e posizionò tre carte consecutive che, dalla carta principale, scendevano in diagolane a sinistra e tre a destra a formare così un triangolo. Ognuna di quelle tre carte posizionate parallele e direzionate verso punti divergenti rappresentava una delle due vie che avrei potuto prendere decretando di voler seguire una decisione oppure un'altra. In quel momento della mia vita ero tormentato da una scelta precisa per cui per me ci fu solo bianco o nero. Non mi erano concesse alternative di sfumature di grigio. Una delle due vie portava come conclusione un rimpianto, mentre l'altra un grosso scisma. Come si disse, io scelsi di salire e gli dei decisero di aiutarmi. Non fu facile intraprendere quella scalata, ma alla fine giunsi e, in qualche modo, quella profezia finì con il realizzarsi. In parte fu anche questo evento a farmi riflettere sul concetto di fallimento, di fortuna e sfortuna. Io avevo scelto una via avendo ricevuto una profezia mediamente precisa su ciò che sarebbe capitato. Quella fu interamente una mia scelta, esattamente come lo fu arrivare a quel bivio. Nessuno mi impose mai nulla. Io mossi tutte le pedine sulla mia scacchiera in modo da arrivare a quel punto. Non c'era nessuno che avrei potuto incolpare a ragione per tutto ciò.
Tuttavia, la sensazione di fallimento che provai mi aiutò a rialzarmi e a ritrovare la forza per mettere ordine e chiarezza su ciò che mi era capitato, su ciò che avevo contribuito io stesso a far sì che avvenisse e a come poter, un giorno, evitare che capitasse di nuovo. Se non avessi sentito il peso della perdita interamente sulle mie spalle come il greve peso di un macigno io non avrei mai avuto uno scopo per essere diverso e magari, chessò migliore, di sicuro più maturo. Anche se non in tutto. Ma la strada è ancora lunga (spero) e ci sono ancora tante cose che voglio e devo vedere e sbagli che devo fare. Così quando verrà il momento, potrò presentarmi innanzi ai dodici senza alcuna vergogna.