The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Oestara 2014

Oestara 2014

Ti vedo
Assurgere imprecisa
Chiara in volto
Le lacrime ti fanno ancora male
Sul viso marzo, inconcludente fine


Il tempo ci insegna molte cose: fa risaltare la nostra fragilità, mette alla prova la nostra perseveranza e la nostra costanza, fa emergere le nostre debolezze, il risultato ultimo dell'accumulo degli irrisolti, la prerogativa di ciò che non abbiamo avuto il coraggio di affrontare. Il tempo è capace di mettere ordine nei nostri rancori, di ammorbidire le nostre posizioni, di farci comprendere i nostri insuccessi, di dar ragione ai nostri istinti e di dar torto alle nostre aspettative, di farci rimpiangere i momenti felici e riconsiderare quelli tristi. Il tempo addolcisce le nostre memorie, accentua la loro bellezza, e come il fango di palude di New Orleans, favorisce la guarigione delle ferite senza però far scomparire le cicatrici. Il tempo sbiadisce alcuni ricordi, li fa depositare come polvere sulla nostra vita, arriccia gli angoli delle nostre cartoline mentali, rimpicciolisce i luoghi che nella nostra memoria sono sconfinati. Fa lo stesso gioco delle parole, che quando sono pensieri e immagini nella nostra mente ci appaiono così prive di limiti e bellezza e una volta che trovano la via della carta o della voce finiscono per immiserire e impoverire tutto ciò che ci sembrava così immenso.
Noi della generazione di internet abbiamo dato una svolta al modo di rapportarci. Direi che è accertato. Eravamo la Niugenerescion. E se lo eravamo noi, quella che oggi è adolescente che cosa sarà? Un'altra nuova generazione. E come tutte le generazioni ci schifiamo guardando come ciò che eravamo viene calpestato. Esattamente come i nostri genitori facevano con noi. Magari anche noi abbiamo imparato come è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire. Ma ci vogliono anni per tutti, mica solo per noi. Dopotutto io vengo ancora dalla generazione in cui si mandava la lettera per comunicare alla ragazza in questione che, insomma, provavamo un platonico desiderio di scambiare fluidi. Credo che oggi queste cose non siano solo superate; siano proprio cimeli di ingenue antichità sfiorite. Ma un merito ce lo siamo accaparrato: abbiamo rivoluzionato i rapporti sociali, li abbiamo stravolti e ne abbiamo mutato la direzione, come il flusso di una cascata che scorre verso l'alto. Tuttavia il tempo influenza lo stesso anche ciò che può apparirci come immortale; infiltrandosi tra le pieghe della nostra memoria ci fa capire come ciò che una volta ci appariva così solido, cementificato, sia in realtà effimero. Alcuni di noi si sono adattati, forse perché abbastanza giovani mentalmente, a ciò che cambia, altri, come me, fanno una fatica incredibile a non vedere affievolirsi il senso del chiamare alcune cose con un certo nome. Tuttavia, anche se non partecipi alla giostra che ruota indietro o avanti, portata dal nomade Popolo dell'Autunno, nell'eterna corsa delle chat, dei social, degli sms, delle mail, ci capita di comportarci come se il tempo per noi rimanesse comunque congelato, fermo e immobile, come quando abbiamo la febbre. E non lo farebbe per farci un favore, rimanendo inchiodato su un dato istante per permetterci di viverlo per sempre, ma perché è grande l'illusione di essere importanti. E quando il tempo ci apre gli occhi a forza, usando un crick per auto, allora a volte vorremmo solo che il cuore ci si saturasse, affinché non ci sia concesso di amare.
Ricordo che una volta, sarà stato tipo vent'anni fa, dopo una festa intellettuale e di sinistra cui parteciparono degli accaniti lettori di Bukowsky, mi ritrovai con un amico e un attivista umanista in un bar, alle cinque di un pigro sabato mattina, continuando a discutere di argomenti elevati mentre, intorno a noi, tutta la città sbadigliava cercando di convincersi a svegliarsi. La tenue luce del sole, i latrati dei cani, il fuggi fuggi delle ultime blatte che cercavano rifugio nell'oscurità, mi comunicavano che in fin dei conti, come diceva il grande poeta: era così tardi che ormai era quasi presto. Ero molto giovane, era fine agosto ed i miei erano in vacanza. Non faceva più così terribilmente caldo e io, indossando il mio liso giubbotto di jeans ordinai ad un barista con l'occhio sanguigno un cappuccino e una brioche alla crema che, a giudicare dal sapore, aveva fatto la notte brava come me. L'attivista umanista ebbe la cortesia di non cercare di fare propaganda, anche perché con la sua giacca di velluto a coste color verde smeraldo e i buchi sui gomiti sarebbe stato poco credibile. Inoltre, senza ombra di dubbio nessuno dei due, me o il mio amico, possedeva i numeri necessari a mantenere quella discussione su limiti accettabili, ma per quanto mi riguarda cercai di cogliere tutto il possibile e lui, da buon umanista, era capace di ascoltare. Fu quella una cosa che mi rimase in mente. Mangiava la sua brioche in silenzio, con calma, spezzettandola con le mani e infilandosela in bocca con un garbo che celava una lieve mestizia. Poi sorseggiava il suo caffé lungo e io continuavo a rimanere fisso su quella palpebra sinistra che tremolava sempre mentre beveva. Mi ascoltava, certo, per cui io lasciai andare i pensieri liberi, citando quei brevi passi di Platone che conoscevo e che all'epoca non avevo assolutamente letto, e ogni tanto il suo sorriso dagli angoli rivoltati come le punte delle scarpe del genio della lampada mi faceva capire che aveva compreso il mio gioco, che a mia volta avevo imparato a scuola. Ma dopotutto era un periodo di tempo diverso: si amava con sincerità e si odiava con disprezzo; si cercava di ascoltare le persone che ne sapevano di più per arrabattare delle citazioni da rivendere al triplo del prezzo a qualche ragazza che avrebbe ascoltato fingendosi affascinata, così da aggiudicarci, se ci fosse andata bene, la possibilità di finire in qualche parcheggio, al buio, a far appannare i finestrini dell'auto. Il suo occhio tremolante mi diceva che aveva capito tutto, ma mi lasciò fare e io, mesmerizzato dalle sue movenze, continuai a parlare finché pagammo e uscimmo salutandoci. Non lo rividi mai più. O quanto meno non ricordo di averlo più incontrato anche perché il tempo, tra le altre cose, ha levigato il suo volto rendendolo una faccia tra le facce. Tuttavia fu in un momento come quelli che imparai tanti punti di vista. Visioni diverse del mondo. E io, saturo, me li segnavo su un taccuino; era una piccola agendina giornaliera, e io la vergavo con la mia scrittura che farebbe invidia ad un medico di base. Poi immancabilmente non riuscivo a rileggerli e nella fatica infine riuscivo a decifrarli come se fossero un'invocazione a Hutzilopochtli e io non avessi la mia copia del codex fiorentino a portata di mano.
Quegli stessi scambi li avrei fatti, più tardi, sui forum, sulle mailing list e sulle chat. Il loro valore non sarebbe poi stato così nettamente inferiore se non per alcuni semplici fatti: quando parli con qualcuno senza poterlo guardare in faccia tendi a non riuscire, in seguito, a ricordarti del "quando" è capitato e con chi, sorvolando sul quanto riesci a mantenerti in equilibrio sulla linea che delimita quello che è il "vero te stesso" da quello che è il personaggio creato apposta per la conversazione che stai tenendo o la persona con cui stai parlando. E questo "quando è stato" può anche proiettarsi e definirsi termini di anni, a volte. Insomma, è vero che noi abbiamo rivoluzionato il modo di comunicare, ma è triste dover ammettere come talvolta questa velocità sia divenuta fretta e come abbia anche, in parte, limitato la profondità dei rapporti che si sono creati e che si creano tra noi. Io credo che in parte abbiamo anche interposto il bisogno di dire a quello di ascoltare. Il tempo mi ha insegnato, accumulandosi e scorrendo inesorabile nella clessidra, quanto sia difficile, con questi rapporti nuovi, intessuti nell'etere, sentirci davvero vicini a qualcuno che magari non abbiamo mai visto di persona. Ma nonostante ciò ce la facciamo lo stesso e lo facciamo in un modo e con una semplicità che, a ben vedere, ci sarebbero estranei in situazioni normali. Ad occhi esterni e a volte anche a quelli obbiettivi, quando riusciamo a vederli sotto questa luce, questi rapporti tendono ad apparire sempre acerbi o comunque più effimeri; in parte perché soprattutto via etere noi tendiamo a conoscere ancora di più, nelle persone, solo ciò che queste ci dicono di loro stesse; magari sulla base di ciò che pubblicano su un social, o filtrate da ciò che riescono ad esprimere a parole scritte in base alle loro capacità. Ma non tutti hanno lo stesso dono di espressione. Alcuni riescono ad esprimersi meglio con il corpo, con i gesti, con le emozioni che con le parole, soprattutto se scritte. Così ci ritroviamo a lanciarci messaggi da galassie lontane e dover usare ogni volta un esperanto differente per comprenderci, per conoscerci. A ben pensarci non è facile fare amicizia in un mondo così. Non è facile innamorarsi in un mondo così. Ma capita. Ai tempi in cui ero adolescente io capitava anche scrivendosi soltanto, arrivando a conoscere a menadito ognuno gli orari dell'altra per trovarsi e passare serate a casa, davanti ad un computer, a raccontarsi tutto ciò che ci capitava per la mente e costruire un rapporto che affondava davvero le radici nell'amore. All'epoca, vivendole, non mi sembravano così effimere. Non mi sembrava così strano. E a pensarci mi dico che l'aspetto giudizioso di confronto tra i rapporti di allora con quelli di adesso è del tutto disequilibrato. Sapere, dentro, che ami una persona è una questione di consapevolezza personale, non di paragone con rapporti diversi che potresti avere con qualcuno.
Il tempo mi ha insegnato che le distanze, in fin dei conti, si possono annullare. Quando ero bambino avevo un amico che si chiamava Luca Sioli. Suo papà faceva il prestidigitatore, il cui nome d'arte era Soliman. Per me lui rappresentava in parte il tipo di vita che non avrei mai potuto avere; una corsa perenne ad inseguire l'arcobaleno. Luca, assieme con il fratello più grande, la mamma tedesca e il padre, viveva in un'immensa casa all'ultimo piano, a poche vie di distanza da dove abitavo io, eppure per me era praticamente su un altro pianeta; sia come stile di vita sia come distanza fisica. Ma questa distanza la colmavamo, da bambini, e senza troppi problemi. Quando andavo in vacanza mi piaceva rimanere in contatto con gli amici tramite lettera, e ho mantenuto delle corrispondenze abbastanza fitte nel corso della mia vita. Con alcune di loro ho avuto una relazione quando sono divenuto più grande, altri non li ho mai più rivisti e questo perché le distanze, a quell'età, erano insondabili. Internet ha colmato quelle distanze, le ha ridotte in maniera più che sensibile. Ha azzerato i tempi di comunicazione che prima potevano durare anche settimane, ha ampliato le possibilità di conoscenza, permettendomi di intessere corrispondenze con persone oltreoceano, di ricevere foto, di scambiarci informazioni sulla nostra vita; nel suo avvicinarci però, ci ha in qualche modo resi più soli, se non siamo stati capaci di viverci questi rapporti. Ora posso contare su decine di amici lontani che conosco da tanti anni, che però vedo solo in occasioni particolari proprio perché fisicamente distanti. Alcuni di loro li sento tutti i giorni o quasi, grazie all'uso di internet. La casa di Luca Sioli, che era a poche centinaia di metri dalla mia, ora mi sembra una parabola di vita. Di contro questa distanza fisica e questa attitudine alla comunicazione via etere mi fa, a volte, sentire disconnesso. A volte mi rende immemore di chi non c'è più. Non mi pare così anomalo non sentire qualcuno per qualche giorno, a volte anche una o due settimane. Di solito dopo un po' mandi o ti arriva un sms, una mail, una telefonata per sapere come stai e come va e ti aggiorni su ciò che è successo nel frattempo. Ma ho provato a rendermi conto che se una persona rimane tagliata fuori da internet per qualche motivo, ecco che in poco tempo potrebbe essere successo qualsiasi cosa e noi, se non abbiamo amici e conoscenze comuni che vivono nei pressi, non lo sapremo se non con, magari, tempi dilatati. Una volta una mia cara amica, parlando della morte di una persona mi espresse questa paura: "se mi capitasse qualcosa, dei miei amici non lo verrebbe a sapere nessuno". L'osservazione al momento poteva apparire senza senso, ma non è poi così lontano da una possibilità oggettiva. Dopotutto alcune cose ci appaiono, talvolta come sospese nel tempo. Ieri ad esempio ho guardato un vecchio video colto con il telefono, registrato ad un ristorante dopo aver celebrato un handfasting più di tre anni fa. Al lato della registrazione, che verteva su una strega della mia congrega che narrava la storia della Baba Yaga, appariva una cara amica che ha continuato il suo percorso su piani più sottili e che, a quanto mi è dato sapere, è già ritornata. Rivivere quel momento non solo mi ha riempito di dolcezza e bellezza, ma mi ha messo di fronte al fatto di quanto sia assurdo che, in questo mondo di nuovi rapporti dove non sentirti per qualche tempo non ci appare così anomalo, debba essere la razionalità a farci ricordare che qualcuno non c'è più, perché istintivamente non ci appare così strano pensare che il telefono potrebbe squillare fra poco ed essere lei che chiama per fare due chiacchiere.
Il tempo mi ha insegnato anche questo: tutti prima o poi devono mettersi di fronte alla porta del proprio tempo interiore, capire se sono pronti, affrontare il Guardiano. Il Guardiano ci mette alla prova, sempre. E la prova che dobbiamo affrontare è quella di essere pronti. Non avere paura soprattutto. E lo so, quando ne parlo con qualcuno noto spesso gli sguardi interdetti. Pazienza, mi dico, c'è tanta gente interdetta in giro per il mondo, anche tra quelli che seguono, o dicono di seguire, una via spirituale come faccio io. L'inner sanctum non è luogo per tutti proprio perché se così fosse la scoperta del proprio cammino, delle proprie potenzialità, del proprio potere sarebbe sminuita oltre che sconsiderata.
In fin dei conti è così che capita: percorri un cammino pari al peregrinaggio di Santiago e ogni volta ti ritrovi ad affrontare diverse difficoltà, sempre più complesse, che mettono alla prova tutta una serie di situazioni della tua vita. E questo capita a tutti. La differenza sta solo nel fatto che se decidi di sbirciare dal buco della serratura anche solo una volta, se fai la scelta, quindi, di iniziare un cammino, di porti di fronte al Guardiano del tuo Tempio Interiore e chiedere di entrare, allora questa tua scelta dominerà la tua vita per sempre. E non c'è alternativa nel tornare indietro, nello smettere di vedere. Anche se desideriamo smettere di guardare. Anche se desideriamo farlo in cambio di una vita che alcuni potrebbero considerare normale, quindi tutta Serie TV, Reality, domeniche dai parenti e come direbbe Boris, milleduecento euro al mese, cambiare la macchina ogni tre anni, avere due figli, un maschio e una femmina e se va male due e due e a cinquant'anni la casetta con le grate alle finestre perché abbiamo paura degli zingari, le paste la domenica mattina, i tortelli alla vigilia, qualche petardino a capodanno, le barzellette al bar in dialetto e l'italiano davanti al capo, 90° Minuto vita natural durante, la macchina lavata al sabato per portare la famiglia fuori la domenica, una vita di straordinari per comprare la monovolume per le gite sul Po e tre o quattrocento hobby nuovi perché il tempo libero ti ammazza, e tutto per non trovarti a constatare quali sono i tuoi fallimeniti. Nonostante ciò il Guardiano continuerà a metterti di fronte degli indizi per cercare di comunicarti dove devi lavorare su alcune cose. Puoi ignorare questi indizi e andare oltre, ma, come ripeto, quando spii una volta dal buco della serratura ciò che vedi cambia il tuo modo di guardare le cose per sempre. Puoi decidere di cominciare ad ignorare tutto, ma in qualche modo non si può tornare indietro completamente. Il tempo mi ha insegnato anche questo.
Mi ha insegnato anche che spesso viviamo i giorni in modo diverso a seconda delle età. Quando ero giovane, diceva una vecchia canzone, credevo di non aver bisogno di nessuno; facevo l'amore solo per gioco. Ma quei giorni ormai sono andati. E non sono svaniti perché non li ho vissuti, ma perché era tempo che andassero, così che potessi mettermi di fronte a quella porta e bussare tre volte. I giorni che credevo di aver vissuto in modo anonimo ora mi paiono come giornate fantastiche, luminose. Il ricordo degli amici che non ci sono più forse li rende più vividi. Ma è anche vero che il ricordo di chi entrava in casa mia, e dopo aver fatto l'amore, si alzava nel mezzo della notte per tornarsene a casa, magari chiamando un taxi, mi faceva sentire sminuito. Non è sempre facile sentirsi soli. A volte il silenzio in casa pesa come un macigno. E io sentivo quelle coperte diventare gelide e ricordo come avrei desiderato solo che non fosse così, che potessi svegliarmi al mattino e non essere solo. Questa cosa mi fa riflettere su come da giovani pensiamo di non aver bisogno di nessuno, di poter davvero bastare a noi stessi. Ma quando poi la sera avanza o arriva la maledetta e pigra domenica, senti comunque come ti manchi qualcosa, e lo capisci quando cominci a non aver voglia di cucinare ma mangi cose già pronte solo perché devi integrare il minimo per sopravvivere ma se potessi evitare direttamente di scongelarle e succhiarti quelle melanzane alla parmigiana come se fossero un ghiacciolo, lo faresti. E mangi davanti al pc, vedendoti un film di cui conosci a memoria le battute. Ti aggiri per la casa passando la mano sui mobili, sbirciando dalla finesta con le mani affondate nelle tasche, accarezzando i giorni andati. Apri il frigo, ti affacci e posi lo sguardo su tutto ciò che vi è dentro prima di richiuderlo con una smorfia e passare alla dispensa e ancora, lì, osservi con dovizia ogni cosa interrogandoti su cosa potresti aver voglia di mangiare. Poi ti rimetti al pc, accendi un videogioco, vai su internet a cercare qualcosa di particolare, ti guardi dieci minuti di una serie tv che hai scaricato, prima di spegnere e stenderti sul divano con in mano un libro che non leggi con meritevole attenzione perché lo fai solo per apatia e noia, quindi metti su un cd di una band che ti è sempre piaciuta, ma quei suoni ti ricordano momenti e quei momenti ti ricordano persone. Così con la scusa che disturbi i vicini spegni e sonnecchi un po', ma ti risvegli con la stessa pesantezza con cui ti sei addormentato e così magari esci, fai due passi, ti riempi le narici dell'odore bagnato della strada, delle foglie morte. Ti fermi davanti ad una vetrina di un negozio chiuso e cerchi di non guardare il tuo riflesso nel vetro. Ma alla fine, i tuoi occhi cercano il tuo sguardo e quando si incontrano ti sale ancora quella sensazione di nausea da depressione. E allora capisci che in fin dei conti tutti i sociologi non possono essere pazzi: hai bisogno di avere qualcuno vicino, di sentirti importante. Hai bisogno che qualcuno ti chiami per sentire come stai, per interessarsi a te, hai bisogno di pensare che magari qualcuno un giorno farà davvero la follia e verrà a suonare il tuo campanello senza paura di disturbare, ma solo perché vuole farti una sorpresa, portare una Coca Cola da mescolare a quella bottiglia di Pampero che prende polvere, magari un po' di erba da arrotolare nelle cartine che hai lì, magari un po' di calore per farti capire che in fin dei conti è anche possibile che tu ti sbagliassi e che stare da soli non è sempre una conquista. A volte avere qualcuno con cui condividere dei momenti, un pasto caldo, dei sogni, un film al cinema, un po' di calore nel letto, rende tutto più speciale. Anche questo me lo ha insegnato il tempo.
Ora, alla luce di tutto ciò, effimeri o meno che possano apparirmi con l'obbiettivo della mia esperienza messo a fuoco sui miei anni, mi sono spesso sentito dire che i rapporti che crei su internet non sono rapporti veri. È da notare come anche troppo spesso alcune persone, spesso del tutto dogmatiche, abbiamo la peculiarità, e anche un po' la fretta, di decretare cosa sia vero e cosa non lo sia basandosi su dei canoni del tutto arbitrari. Non ci sarebbe nulla di male in un contesto filosofico, dopotutto la realtà, in questi termini, è basata principalmente e anzi, pressoché completamente, su ciò che ci è concesso di percepire con i cinque sensi di cui siamo dotati, interpretati dal cervello attraverso gli stimoli inviatigli dagli organi ad essi preposti. Ma se parliamo di sentimenti ed emozioni io, onestamente, credo che il contesto non sia più del tutto congruo. A meno che qualcuno non riesca a dimostrarmi che l'amore sia misurabile con qualcuno dei cinque sensi fisici in nostro possesso. Se la definizione di realtà è solo ciò che noi possiamo misurare e percepire con i nostri cinque sensi, per quanto interpretabile in modi diversi da ognuno di noi, allora nessun sentimento è vero se non misurato attraverso atti di tipo fisico che servono a dimostrarlo.
Pertanto, seguendo questo concetto, le volte in cui mi sono innamorato via internet di alcune ragazze prima ancora di averle conosciute, come anche i preziosi rapporti di amicizia che porto avanti attraverso questo mezzo e che sfidano così la fisica, sono veri tanto quanto tutti gli altri. Sia dal punto di vista di chi sostiene che la veracità di qualcosa sia basata solo sulla percezione della realtà attraverso i sensi fisici, sia per chi pensa ad essa in modo meno empirico. Se non è vera una cosa non è vera nemmeno l'altra. Direi che è un postulato mediamente facile da comprendere. E ok, allora dovrei anche dare ragione a quella bambina, tal Patrizia Cattaneo, che in seconda elementare mi lasciò dicendo che il suo ragazzo era Conan il Ragazzo del Futuro, protagonista di un cartone animato di Miyazaki, o anche a quella che, in seconda media, dopo un discorso di venti minuti che, per mia sfortuna mi perdetti perché avrebbe dovuto essere illuminante, rifiutò le avances di un mio compagno di classe, nonché mio caro amico, perché sosteneva che il suo ragazzo fosse Michael Jackson. Ma dopotutto chi sono io per giudicare?
Nel mio romanzo che hanno, forse, comprato in dieci persone, ma posso controllare, sostenevo che siamo creature destinate all'amore, in ogni sua forma, per quanto perversa e contorta ci possa apparire e che disconoscerlo non serve, in effetti, se la nostra intenzione è quella di lasciarlo fuori dalla nostra vita. Io ci credo ancora. Io so che è così. E non è stato, in questo caso, solamente il tempo ad insegnarmelo. È stata la pura esperienza di vita. I sentimenti sono selettivi e non sono i mezzi che li favoriscono o meno che li rendono tali, ma noi stessi e le circostanze che noi permettiamo che si creino che aiutano l'ampliarsi di alcuni rapporti. Per un sacco di persone che mi sono a fianco tutti i giorni, e che vedo, paradossalmente, di più di quanto io veda mio figlio, io so di non provare nulla. So che se dovesse succeder loro qualcosa, non piangerei e non soffrirei più che se fosse capitato ad un estraneo. E probabilmente non verserei lacrime nemmeno se dovesse succedere per molti dei miei parenti. Non perché in qualche modo mi siano antipatici, ma perché non ho nulla da condividere con loro, e nel tempo non ho creato con loro un rapporto diverso dalla media convivenza per cause di forza maggiore. Non è sempre stato così e non è sempre così, ovviamente, ma in linea di massima funziona in questo modo. Esattamente come i colleghi, le ragazze e i ragazzi degli amici e delle amiche, i suoceri, i professori a scuola, anche i parenti non me li sono scelti, mi sono capitati. E non è un qualsiasi modo di dire; questa è una verità sacrosanta. Di contro so per certo che invece soffrirei da morire se perdessi qualcuno che magari ho visto solo una volta nella mia vita, fisicamente, ma che sento legato a me in modo diverso. Questo perché io ho permesso e scelto, in parte, che sia così. Perché tutti noi scegliamo chi considerare importante nella nostra vita. Possiamo cambiare questa situazione in ogni momento, prendendoci ovviamente delle dovute responsabilità a riguardo. La scelta sta sempre nelle nostre mani. E non parlo solo di rapporti sentimentali, ma proprio di legami. Certo qualcuno può dire che su internet puoi essere chi vuoi. Ma una persona può mentire su internet e indossare una maschera o fingere di essere qualcosa che non è così come può farlo dal vivo. Certo, su internet è più facile. Ma forse sulla corta distanza. A lungo andare la torta di merda che crei intorno a te prima o poi ti fa affondare. Con tutti gli effetti collaterali che possono esserci, quando c'è un legame, le persone scoprono e trovano i modi per sentirsi vicine le une alle altre. Anche se sono distanti miglia di distanza.
Per cui a quello che mi diceva che i rapporti che crei su internet non sono veri dico di provarmi che non lo sono. Perché non solo io, qui dentro, e nemmeno così tanto in fondo, so che sono veri e questo già mi basta, ma anche perché quando il mondo impazzisce, l'uomo saggio abbraccia la follia. Io ho imparato ad amare nei modi in cui mi è stato consentito dal mondo in cui sono cresciuto. E come me anche le persone che fanno parte di questo mondo. Se non fosse stato per internet io non sarei qui dove sono. E tutto ciò per me è una verità come sapere che ho cinque dita per mano. Quando ci rifletto è perché spesso sto parlando con qualcuno, magari in chat, dove le mie più grandi filosofie vengono partorite, o magari in alcune di quelle telefonate che partono per un preciso scopo e che poi, magicamente si trasformano in una disgressione sui massimi sistemi e, ultimamente, anche durante le serate destinate allo yoga, prima o dopo la lezione. Trovandomi di fronte a me stesso e di conseguenza a tutte le sette saggezze esseniche, alcune delle quali ancora temo tanto quanto ho terrore degli zombie (e per i quali sviluppo la stessa morbosa passione), mi sembra di rivivermi come in quelle pagine così distanti seppur così attuali e trovarmi anche io di fronte ad una entità divina o personalmente speculare e confrontarmi senza veli e dirle esattamente ciò che penso, ossia che ai tuoi occhi apparirò di sicuro come un piccolo sprovveduto, pretenzioso e ignorante uomo e sono sicuro che, come disse Apollo, se dovessi preoccuparti di noi mortali che nel tempo di un tuo sospiro nasciamo e cresciamo e appassiamo come frutti sui rami, mancheresti di giudizio e moderazione. Ma io ti ricordo che è con le armi che possiedo che combatto le mie battaglie, e sono le armi che tu mi hai elargito. Ti ricordo che non ho altro a mia disposizione per capire il mondo, per giudicarlo, per accettarlo, per vivere la mia vita ed imparare le mie lezioni che questi occhi, questo cuore, questa mente, queste mani e questa anima. Se tutto questo non basta per assaggiare anche solo lo scopo più infimo del tuo immenso disegno, allora non capisco che senso abbia che io ne faccia parte in modo così attivo. Ti ho forse chiesto io, Creatore, dal fango di farmi uomo? Ti ho forse chiesto io di trarmi dalle tenebre?
Forse un giorno, o un tempo sospeso tra i giorni e le epoche, capirò tutto questo, e magari mi apparirà assolutamente chiaro e mi sembrerà di nuovo di essere un povero imbecille che non riusciva a contare fino a ventuno perché non aveva abbastanza dita. Forse, sì. Forse sarà così. E non mi sorprenderei di una cosa del genere. Tuttavia, fino a che quel momento non sarà giunto, con tutto il suo macigno esperienziale da assaporare, da vivere, da osservare, io sarò sempre e solo ciò che mi sento di essere e ciò che sono: qualcuno che vive e ama nei modi che ha scoperto.