The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Yule 2016

Yule 2016

"Se dovessi cadere nel profondo dell'inferno dentro un fiume nero come l'inchiostro, rotolare perduto tra i sacchi di immondizia in un baratro senza ritorno; se dovessi sparire nei meandri della terra e non vedere più la luce del giorno ma sempre e soltanto la stecchia vecchia storia e nessuno lo capirà. Ma lasciatemi qui, nel mio pezzo di cielo ad affogare i cattivi ricordi. Nelle vie di New York il poeta è da solo e nessuno lo salverà.".

E vedo che annodi i capelli uno per uno, come se volessi ricordarti di ricordare. Ti vedo mentre ti riempi gli occhi di sogni, mentre rimpiangi ciò che non hai vissuto senza che tu possa viverlo mai più. A volte il mondo, la nostra vita, l'universo, grida così a gran voce che confronto un neonato affamato è un cultore del silenzio. Lo fa in un modo talmente assordante per cui decidere di ignorarlo è un gesto talmente deliberato che comporterà sicuramente, prima o poi, ad una condizione di rivalutazione della propria posizione.
Poi possiamo passare ere a guardarci indietro e rimpiangere, ma nel momento catartico, perdere per strada il senso del segno che ci sta arrivando è qualcosa che non possiamo permetterci. O almeno, non dovremmo. Ma dopotutto sono un sacco le cose che non dovremmo permettere che si verifichino, ma di cui non abbiamo un pieno controllo.
Ti ascolto quando urli quelle parole così forti al cielo: lasciate che il mio sangue scorra, non versatelo. Ida e Pingala sembrano strizzare i miei centri, spremendoli come limoni, mentre Sushumma li impala come spiedini. E quando ne parlavamo avrei potuto stare ore ad osservare le tue movenze senza sperare che quei giorni sarebbero durati. Ma quando poi scopri che sono stati soffiati via, come foglie morte sollevate e cullate dal vento, ti coglie quella forte nostalgia. Credo che sia inevitabile.
E ti ricordi quando credevo di essere immune al dolore? Che non avrebbe mai potuto ferirmi, sfiorarmi, deturparmi? Come un Mitra splendente, invincibile come Baldr, bellissimo come Apollo, nulla mai avrebbe potuto toccarmi. E se fossi caduto qualcuno mi avrebbe sostenuto; se mi fossi innalzato al cielo la terra non mi avrebbe mai reclamato. Nulla mi spaventava, né l'assenza delle risposte, né l'incomprensibilità dei perché, né l'impossibilità di poter sapere cosa fosse vero. Anche perché, dentro, sentivo che sarebbe bastato cercare.
Sento ancora l'inflessione della tua voce. Sembrava portare candore. E i piccoli piedi con cui pesti la terra sono baci che lasci al mondo. Vorrei non dover sempre correre e saltare siepi, potermi fermare per dire "sono io a chiedere aiuto", e magari pretenderlo picchiando i piedi e stringendo i pugni. Gli dei danno e gli dei prendono, mi sono sentito rispondere più volte, ma ho sempre stentato a credere a questa cosa. E quando lavori con le divinità in modo diretto capisci che per quanto noi siamo affamati di trascendenza tanto loro sono affamati di immanenza e che se una volta le nostre paure erano come mani lanciate al cielo nella ricerca di un assaggio di immortalità e conoscenza, oggi sono strette intorno al petto, nascoste dietro lo scetticismo del bisogno di credere a qualcosa che non richiede fede. E guardare questo mondo è come soffermarsi ad osservare un mare placido, con solo qualche scoglio in affioro e non riconoscerlo né come acqua salata né come abisso poetico, ma solo con un nome che non significa niente.
Sento il suono di un violino, è frenetico e mi attrae nelle vie come il profumo dei fiori. A volte pare come lo schianto di un'auto, tra lamiere e vetri, a volte come la carezza di un'amante. So chi sono, so chi vorrei essere, so chi ero. Forse non so chi sarò. Ma ci sto provando Ringo, ci sto provando con grandissima fatica.
Ma i segni, non ci colgono forse impreparati? Nel senso, disquisendo con le persone capisco che è materia comune, che ci investono e ci piovono addosso e noi guardiamo i palmi delle mani e alziamo gli occhi al cielo, come quando si mette a nevicare e raccogli dei fiocchi di ghiaccio e poi alzi il volto alle nubi, come per volere una conferma che non sia un sogno, fino a quando quel singolo fiocco, grande come un batuffolo di cotone idrofilo, ti si va ad infilare a tradimento in un occhio e tu, sapendolo, giochi d'anticipo e tieni le palpebre chiuse, e così tecnicamente non puoi vedere il cielo, ma lo senti lo stesso.
Quanto ti ho inseguita, in lunghi giorni, con la stessa deliziata stanchezza con cui l'ombra insegue la persona. Una stanchezza non priva di consapevolezza, ma di quelle che ti prendono di rimpallo, al mattino. La stanchezza dei giorni accumulati sui giorni, che non si placano e non si fermano e non si sciolgono, ma si ammassano come pezzi di lego in una pila in technicolor. Alcune ore mi sono rimaste aggrappate come velcro, mi sono state addosso come mosche in una giornata particolarmente calda. E io, con la testa imprigionata in un alveare, sentivo tutto allontanarsi, perché il ronzio era così forte e vicino che tutto ciò che pensavo erano solo guizzi al limitare della mia vista. La mia infanzia, la mia adolescenza, la mia età adulta: guardo e non vedo, vedo e non guardo. Come si cresce in fretta senza la consapevolezza dell'essere. Al resto è come affrontare una salita con la macchina in folle.
Ti ricordi com'era precipitare? A braccia aperte, senza saper cadere. Sono stato sempre una persona che ha cercato di rispettarsi e non ho mai sprecato lacrime facili o false. Ma quando ci sono state non le ho negate. Era questo il prezzo del dolore che mi dicevi che avrei dovuto affrontare, un giorno? Voltarmi in direzione opposta alle persone, andare via dritto e morire dalla voglia di voltarmi a guardare, a raccogliere quell'ultimo istante da portare con me. E sapere, dentro, che tutto sarebbe cambiato, da lì alla prossima volta; che fosse un arrivederci o un addio. E farlo temendo il cambiamento nelle sue più intime fibre perché significa dover mettere le mani nelle fiamme; un altro tempo, un'altra vita, un altro posto.
Lo so, sono stato un dannato bugiardo. Un altro, dopotutto. E non l'ultimo. Il mondo ne ha conosciuti un sacco. Chi per la paura di rimanere solo, chi per la paura di non sentirsi libero, chi per la paura di non sapersi visto. Dal sorriso al sorriso, dalla lacrima alla lacrima. Riempi questa tasca, su, falla straboccare. Voglio una caramella per ogni volta che non mi sono voluto bene, in cui ho capito di stare dicendo la cosa sbagliata al momento sbagliato, alla persona sbagliata. Fammi cadere i denti, lascia che vengano divorati a bocconi dalla carie; inesorabile come la Giustizia, plumbeo come una metropoli, dal sapore grigio della neve e della pioggia e dal colore brullo della steppa.
Ti ricordi quando eravamo al cinema, in quella sala gremita di nostalgici, a vedere Akira? E sullo schermo c'era quel monaco, che con l'angosciante sottofondo di una colonna sonora pesante come pistoni d'acciaio che discendono nell'immensità, tracciava enormi ideogrammi giapponesi sull'asfalto con la vernice rossa, gridando moniti e maledizioni alla gente che correva ovunque, in fuga ed in preda al panico. E nessuno ascoltava il profeta di sventura. E a noi che guardavamo lo schermo, come spesso capita quando osservi la vita di celluloide, sapevamo che quell'ignorare sarebbe stato la loro fine, che quel profeta andava ascoltato. E mi sono chiesto come doveva essere urlare senza essere sentiti, diventare invisibili alle persone che speri di mettere in guardia. Sapere di avere qualcosa da dire al mondo, ma vedere a tuo sommo rammarico che a nessuno frega un cazzo di stare ad ascoltare. E allora lasci messaggi nascosti, invisibili, come un Nostradamus dei nostri tempi. Ma a volte sono così nascosti che nessuno si prende la briga di andarseli a cercare. Perché stanno sul confine, sulla riva, e osservano con indifferenza i cadaveri gonfi degli annegati galleggiare appena sotto il pelo dell'acqua, pigre zattere per il riposo dei gabbiani. E scrutano con cipiglio quegli occhi cisposi, la carne flaccida e biancastra dei loro corpi abissali.
Una volta mi parlasti del delirio e di come fosse importante non rimanere soli. Stavamo guardando le stelle su una spiaggia e spendevamo la serata a filosofeggiare dondolando una gamba a penzoloni su una sdraio, la pancia piena della classica crépe al gran marnier che solo il TutiFruti, come una nonna, era in grado di fare come noi desideravamo. Dietro di noi la passeggiata era solo un brusio ridondante di voci che rimbalzavano sull'acciottolato corroso di salsedine; risate gorgoglianti di ragazze flirtavano con l'aria notturna ed eccessi di ragazzi che tronfiavano come caffettiere il fumo di sigarette di basso costo. La notte ci avvolgeva come una coperta e il sapore della sabbia ti entrava nelle narici e rauco si insinuava in bocca. Gli enormi lampioni illuminavano nubi oscure di insetti e proiettavano ombre spaventosamente lunghe che ci rendevano come spaventosi Slendermen sulle dune di sabbia. Ricordo di come mi sentissi abbandonato in quel momento, senza una guida, senza una possibilità di capire cosa volessi, a cosa fossi destinato e di come sopra ogni cosa avrei desiderato avere un magico libro di comodo che fosse chiamato il "libro del Perché", che avrei potuto consultare ogni volta che qualcosa non mi era chiaro. Aprirlo a caso e sapere che ci sarebbe stata l'esatta risposta ad ogni mio dubbio. E sentivo quelle ombre davanti al Sole, come mani davanti agli occhi; eclissi perenni dei miei sogni, di un tempo che non potevo congelare nemmeno per un istante, nemmeno chiedendogli di farmi questo singolo, intimo favore: lasciare che io potessi prendere un respiro e non provare quella costante sensazione di vuoto, come quando sei sulle montagne russe e stai per affrontare la discesa e c'è quel singolo momento in cui senti la sensazione di ssopensione nello stomaco che ti sta dicendo che nonostante il tuo corpo sia già in rapido precipitare, i tuoi organi interni sono rimasti indietro. Ed è vero, è uno schifo rimanere soli, come lo è anche aspettare un messaggio che ti chieda solo come stai oggi e come è andata la tua giornata e che non arriverà se non seguito da una richiesta di aiuto. Solo chi è rimasto solo per un tempo mediamente considerevole può davvero sapere cosa significa; ma può esserci qualcosa di peggio del rimanere soli, ad esempio stare male con noi stessi. Pensa che merda sarebbe stare con qualcuno che odiamo a tal punto. Pensa che schifo vedere che nessuno si ricorda di domandarsi come stai.
Ti ricordi quando eravamo al telefono, quella volta? E tu mi parlavi leziosa di come eri stesa sul divano, con i piedi poggiati al muro e i capelli che cadevano a terra, usando il sedile come schienale e io ti immaginavo in modo così vivido che potevo sentire l'odore del tuo shampoo intrappolato nei capelli, la dolce movenza della tua bocca quando pronunciavi il mio nome, la lieve sfumatura dello smalto delle tue unghie. Quanto ho amato i giorni della mia adolscenza, in cui ci si addomesticava reciprocamente per stare assieme e ci si chiamava a precisi orari ogni giorno, così che, come la Volpe con il Piccolo Principe, si scopriva il prezzo della felicità. Invece ora, in cui tutti siamo presenti per tutti in ogni istante, non esiste più il giorno della festa, perché ogni giorno è uguale a tutti gli altri e tutte le persone sono uguali alle altre perché si è perduto il rito di addomesticarsi.
Solo adesso che sono passati so che vorrei che quei giorni non fossero spariti così in fretta, che avessero così tanta premura di smarrirsi, e finire per diventare come la lanuggine nelle tasche, là in fondo: solo frammenti che ci ricordano qualcosa che non sappiamo bene cosa sia. E nonostante credessi di sentirmi così appesantito come se avessi una borsa conservante stracolma per ogni fibbia dei jeans e sentivo la voce di chi mi chiamava scomparire come in un gioco di riflessi nel vento e nella nebbia, in realtà, dentro, sapevo che non avevo avuto la possibilità di scegliere di amare sempre come volevo, ma spesso solo come potevo. Perché un po' era anche questo il gioco del crescere: sfuggire, fingendo di non rimpiangere, ma rimanendo sempre sospesi sopra un filo, senza provare paura ma con lo sprezzo della morte, come Ezio Auditore. Ma poi il gioco è diventato una sfida e la sfida un principio. E da lì il principio si è trasformato rapidamente in una mera scusa. Non c'è voluto molto, sono stati piccoli passi, rapidi, apparentemente indolori e la paura di nuovo si è insinuata, come un ladro nella notte, a sussurrarmi che non avrei mai avuto possibilità, che non ci sarebbe stato riscatto, che vince chi sfugge. Lasciavo dietro di me letti smarriti come pianoforti abbandonati alla polvere, le corde che lentamente si smollavano, i tasti ingiallivano come denti vecchi. Ma perdevo ogni volta che credevo di vincere.
E ti ricordi di quella volta in cui eravamo in quella campagna, a trovare quei parenti lontani, impossibili da ricordare, e c'era quel topo morto nel giardino accanto, circondato da una staccionata che mi impediva di avvicinarmi: pertanto era solo un'enorme macchia nera nel mezzo del prato. E io morivo dalla voglia di guardarlo da vicino, di poggiare le mani sulle ginocchia e toccarlo con un bastone; perché ero un bambino e la morte mi affascinava. Ogni mattina di quella vacanza mi avvicinavo alla staccionata e mi spingevo in avanti fin dove potevo, strizzando gli occhi per cercare di vederlo meglio, ma era troppo lontano e non mi era consentito scavalcare. Una notte, mentre ero lì, lo sognai anche; fu uno di quei sogni nebulosi, senza precise connotazioni, in cui la figura di quel topo morto, dal pelo nero come la pece, rimaneva immobile, per quanto centrale, sempre là nel prato dove lo osservavo ogni giorno, indistinto proprio come lo vedevo nella realtà.
Poi, anni dopo, quando vidi cosa faceva la morte alle persone, smisi di provare quell'interesse così morboso ed infantile. Ti basta seppellire uno, due, tre, quattro amici per capire che quello che fa male è ancora una volta il rimanere indietro, vederli sfuggire via, e non essere mai abbastanza veloci per riuscire a star loro dietro e che il più delle volte ciò che ci rimane è il rimorso di ciò che non abbiamo fatto per pigrizia, incostanza o per il normale pensiero di rimandare, pensando di avere più tempo. Ma è proprio questo, forse, che ci concede infine, una lezione che, proprio perché più amara, ci rimane più impressa.
Ricordo quando compii il mio primo incantesimo, all'epoca in cui il Sabellicus era la legge e la conoscenza dei principi e delle leggi magiche, nonché delle corrette corrispondenze e simbolismi era un arcano immenso ed insondabile. L'odore della cera che si scioglieva, dell'incenso e la strana immobilità dell'aria segnavano il mio primo passo in un mondo più vasto. Quante altre volte, da quel momento in poi, avrei vissuto, pagato, appreso, convogliato, legato, nel qui e nell'ora, sopra e sotto per poteri che mai avrei pensato di poter conoscere e usare; come alleati su cui contare, come fonti da cui attingere, come immensi mondi da esplorare. E ti rivedo con la fronte poggiata sulle mie ginocchia, ad implorare perdono per i dilaniamenti, per il sangue versato, per l'olio bollente gettato in gola. Hai pensato a lungo che non ti avrei concesso perdono, e anche io, forse, ho creduto fosse così, ma ho scavato le mie fosse, ho sepolto i miei morti, ho piantato le lapidi nel terreno e ho fatto crescere alberi oscuri sulle loro tombe, così che le radici potessero nutrirsi dei corpi e così che da ciò che era dolore potesse crescere vita e ho appreso da questa trasformazione qualcosa che nessun insegnante umano avrebbe mai potuto passarmi, nemmeno in decine di anni di apprendistato e l'unico rammarico che mi porto dentro, ma che ho imparato ad accettare, è il fatto che dovrò impararlo di nuovo, da zero, ripetendo gli stessi errori e affrontando le stesse difficoltà, per chissà quante altre volte ancora.
Il suono di un'arpa si diffonde melodioso e dolce nell'aria che sa di fuliggine, alcune ragazze vestite di ocra danzano in tondo, dinanzi alla tremolante luce del fuoco che arde in un camino acceso. Si parla di sangue e fiumi, di lezioni da imparare nel profondo di un cammino fatto di sacrificio. E penso a come sia affascinante pensare di accettare la sfida, di affrontare l'immensa salita al palazzo di Tenochtitlàn, fatta da centinaia di scalini, solo perché si possiede l'intento di salire, arrivare in cima e scoprire che gli dei hanno deciso di aiutarci. E non farlo solo per guardare verso il basso, o per rotolare giù da una collina come una botte colma di rum, ma perché i segni ci hanno condotti qui, dove siamo adesso, seguendo una marea che trascina alla morte, come la nona onda del mare.
Ti ricordi quando ti rimase il dito chiuso nello stipite della porta a causa mia? Piangesti disperatamente e io, a fianco a te, che mi sentivo colpevole di averti causato quel dolore, non sapevo che fare, anche perché dentro mi bruciava il terrore della punizione. Eravamo due bambini e così ricordo che ti implorai di non scoppiare a piangere, altrimenti avrei cominciato a piangere anche io. Ma il dolore era troppo e tu non riuscivi a smettere di singhiozzare, così alla fine le bidelle ci trovarono nell'angolo vicino alla finestra, disperati, e l'unico che aveva un reale motivo per piangere eri tu, mentre io lo facevo solo per empatia e per paura; quando la maestra, con quel capelli ricci rosso fiamma, con tono caustico mi chiese perché diamine stessi piangendo non seppi rispondere; ma non riuscivo a smettere, così mi strattonò e mi costrinse in castigo finché non mi fosse passata, con quel modo tutto anni ottanta di educare. In un angolo della classe ingoiai quelle lacrime salate e le sentii scendere in gola, come molte altre volte era già capitato. E ora, a leggere libri di psicanalisi, mi sembra di rivedere tutti quei traumi come macchie di Rorschach e ogni volta prendono aspetti sempre diversi e provo una grande rabbia, qualcosa che non riesco a spiegare e devo domarla, frenarla, perché sento che la direziono nel modo sbagliato. Ma chi è perfetto? Se non metto un piede in una pozzanghera lo metto su una merda, e comunque dovrò farmi i conti con qualcosa che mi sono lasciato alle spalle. Anche perché le ore, per quanto a volte appaiano immense, divengono giorni e i giorni settimane, le settimane mesi, i mesi lustri, i lustri anni e gli anni decadi. E prima che possa decidere di trattenere il fiato ho già la testa sott'acqua, il sedile della mia altalena è sempre più lontano, il nebbioso fumo della locomotiva si dilegua all'orizzonte.
E ora ricordo anche quella visione che ho avuto. Ero su una scala mobile e tu eri giù, la in fondo. Eri indaffarato in qualcosa che non ricordo; con me c'era una famiglia e una piccola che a mala pena stava in piedi. Erano appena dietro di me. Nessuno aveva fretta, ma sapevano dove stavano andando. Di nuovo. Mi voltavo ad osservarti e sapevo, dentro, che ti stavo lasciando, che quella sarebbe stata l'ultima volta che ti avrei visto così, come sei ora e avrei voluto correre indietro, fermare tutto, abbracciarti ancora una volta, dirti quanto sei importante per me, quanto ti sono grato di così tante cose, ma la scala mobile continuava a muoversi e nonostante avrei dovuto guardare avanti, non riuscivo a toglierti gli occhi di dosso. Dentro sentivo una grande ansia all'idea di lasciarti e sorridevo forte, con tutto il cuore, nella speranza che tu volgessi per un attimo lo sguardo su di me, così che se avessi avuto modo di vedermi andare via avresti ricambiato al sorriso. Ma non hai mai alzato lo sguardo e io continuavo a salire e tu eri sempre più distante, piccolo, indaffarato. Dietro di me la piccola saltellava felice, in attesa di una nuova avventura, con quell'innocenza dei bambini che così tanto rimpiangiamo ed invidiamo quando diventiamo adulti.
Così guardo le stelle e le foglie che scendono nei torrenti, si fermano quei pochi secondi a danzare nei gorghi in qualche piccola baia per le rane, per poi riprendere, magari dopo anni, a proseguire fino a quel confine ultimo, dove l'acqua sparisce nel baratro infinito, in un perpetuo precipitare, e mi domando se quella singola foglia e quella singola stella saranno mai contente di aver continuato e completato il loro viaggio fino ad un'epifania che è un ritorno al nero, più che un uscita dal blu e io stesso mi sento come quella rosa, su quel pianeta lontano, senza cacciatori o galline, che non è come tutte le altre rose, perché ho pagato un prezzo salato per le cose che ho imparato, per i segni che ho ignorato deliberatamente, e anche un po' per quelli che non ho notato per sbadataggine, per poca attenzione. Perché è preferibile accettare di avere torto qualche volta che essere sempre infelici.
"Che cosa, dunque, deve ricercare l'uomo in questa vita?"
"Poiché la parte conoscente dell'uomo è la migliore fra tutte le sue parti, ciò che è più opportuno ricercare è, allora, la conoscenza. Ma ciò che nell'ambito della conoscenza è necessario sapere è soprattutto questo, e cioè conoscere se stessi, perché si conoscano così le cose che sono presso di sé: l'essenza dell'uomo, infatti, comprende e penetra ogni cosa, e ogni cosa è soggetta alla sua virtù. Assieme a ciò, l'uomo deve ricercare anche la conoscenza della causa finale per la quale è stato creato, e applicarsi il più possibile ad essa, per conseguire in tal modo la felicità."