The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Artemide la Cacciatrice

 

Artemide la Cacciatrice


Nel concetto di fanciulla il lato oscuro è noto come Cacciatrice. In questa forma la fanciulla mostra la sua indipendenza nella giovinezza, non rimanendo soggiogata ad un uomo, che sia un marito o un tiranno. La Cacciatrice basta a se stessa e incarna il potere ctonio e selvaggio, dove rappresenta la Signora delle Creature Selvagge; nel luogo al di fuori della civiltà non ha bisogno di sottostare ai dogmi patriarcali delle città e può vivere senza dover rispondere ad un uomo delle sue gesta. Il ruolo della Cacciatrice quindi è quello di impadronirsi del proprio aspetto di donna libera, sia nella sessualità che nell'azione. È di fatto un tipo di divinità attiva più che reattiva, distaccata in quanto virginea, ma nello stesso tempo forte e combattiva. Nel mito greco questo ruolo è esclusivo di Artemide. Al contrario di altre divinità, la culla della sua nascita è proprio la Grecia. È, forse la divinità endemica per eccellenza, non importata da invasori né inglobata da altri culti.
L'etimologia del nome di Artemide è citata solo nel Cratilo di Platone, dove Socrate risponde: "Ad Artemide poi sembra che il nome sia stato posto per l'artemes ('l'integrità') per l'ornatezza e per il suo desiderio di verginità. E probabilmente chi le assegnò il nome volle chiamarla esperta di virtù (aretes histor) o forse anche che detesta l'aratura (ton araton misesasa) del maschio nella femmina: o per uno di questi motivi oppure per tutti questi insieme le pose questo nome colui che pose il nome alla dea". Alla dea quindi sembra venga attribuito questo nome per la sua integrità, la modestia e il virgineo approccio all'amore. C'è un punto che è degno di interesse, secondo me. Artemide viene chiamata soprattutto Potnia Theron, letteralmente "Signora delle Fiere" e, nella sua visione antichissima era rappresentata come un'orsa, come ci fa notare Karoly Kerényi nel suo Gli Dei e gli Eroi della Grecia. Ma arktoi, ossia "orse", erano anche i nomi delle sue sacerdotesse che, dall'età di nove anni, dovevano prestare servizio al tempio. Questo termine richiama un mito che riguarda proprio un orso. Secondo la leggenda uno di questi animali, sacri alla dea, un giorno entrò a Braurone ed affamato venne trattato con garbo e senza paura dalla popolazione, la quale prese a dargli da mangiare portandolo così ad uno stato meno selvaggio. Venne adottato. Una ragazza della città un giorno lo infastidì e la fiera la uccise. Il fratello della ragazza nello sgomento generale uccise l'orso e la Dea Artemide, infuriata da questo affronto, impose che tutte le ragazze in età tra i cinque e i dieci anni dovessero servire al tempio a lei dedicato lungo un giro di ruota per prendere il posto dell'animale.
In epoca più tarda Artemide venne associata alla luna, per esattezza la fase crescente, quella della vergine, e come ci fa notare Porfirio, nel Culto delle Immagini: "La luna, concepita secondo la sua luminosità, viene chiamata Artemide, come se fosse (aerotemis) "tagliando l'aria". Ed Artemide, sebbene sia una vergine, presiede alle nascite, perché il potere della Luna nuova è utile al parto."
Artemide era figlia di Zeus e sorella gemella di Apollo. La madre era Leto, o Latona, figlia dei titani Febe e Ceo. Per sfuggire al lascivo dio che la voleva possedere con la forza, la dea si trasformò in una quaglia, ma Zeus si trasformò in un'aquila, o secondo Aristofane in una quaglia lui stesso e la prese nei pressi di Mileto, a Didima. Leto rimase così gravida e la gelosa Era la maledisse, impedendole di trovare riparo per il parto da nessuno. Secondo il mito proibì alla dea ostetrica, Ilizia, di aiutare Leto a mettere al mondo i figli e proibì alla puerpera di partorire su qualsiasi terra, bagnata che fosse o no dal mare e nessun luogo toccato dal sole. Ma la vendetta di Era non si limitò a questo: non solo quindi garantì una maledizione su chiunque avesse ospitato Leto, ma scagliò al suo inseguimento il mostruoso drago-serpente Pitone, figlio di Gea e custode dell'Oracolo di Delfi. Per giungere in soccorso dell'amata, Zeus fece così sorgere dalle profondità dell'oceano un'isola che in seguito venne chiamata Delo, la quale, non essendo ancorata al suolo ma galleggiante sulle superfici del mar Egeo, era un artificio funzionale ad aggirare la terribile maledizione della gelosa consorte. Dominata dagli spasmi, Leto si diresse verso Ortigia e sullo stretto partorì Artemide, che la aiutò a traversare e arrivare a Delo dove, tra un olivo e una palma da datteri che crescevano sulle pendici settentrionali del monte Cinto, si sgravò di Apollo dopo nove giorni di travaglio, con l'aiuto della figlia, cui le Moire resero capacità ostetriche.
A tal proposito Robert Graves, nel suo I Miti Greci ci fa notare come Ad Artemide, che fu in origine una dea orgiastica, era sacra la lasciva quaglia. Stormi di quaglie si fermavano probabilmente a Ortigia per interrompere il loro lungo viaggio verso nord, durante la migrazione primaverile. Per Omero Apollo è «licegene», cioè nato in Licia; gli Efesini si vantavano che egli fosse nato a Ortigia presso Efeso, e sia gli abitanti di Tegira in Beozia, sia quelli di Zostere in Attica lo dicevano nato nella loro città. A un certo punto tuttavia Delo fu dichiarata ufficialmente luogo di nascita del dio, e può darsi che da un'errata interpretazione di tale episodio nascesse la leggenda dell'isola un tempo vagante, e poi fissatasi al fondo del mare.
Nell'Inno ad Artermide, Callimaco ci racconta di come, quando la piccola dea era solo una bambina, salì sulle ginocchia di Zeus e lui, innamorato della figlia, le disse che le avrebbe dato ciò che desiderava. Artemide chiese: Concedimi, papà, di rimanere vergine sempre e avere molti nomi, perché Febo con me non venga a gara. Concedimi archi e frecce; suvvia, padre, non ti chiedo di darmi una faretra né un grande arco. Per me i Ciclòpi sùbito fabbricheranno frecce, per me un arcodalla forma ricurva. Ma ti chiedo di portare la luce e di indossare una tunica corta sul ginocchio col bordo all'orlo, per andare a caccia di animali selvatici. Concedimi sessanta danzatrici oceanine tutte di nove anni, tutte ancora bambine che non portano cintura. Al mio servizio dammi venti ninfe del fiume Amnìso, che dei miei calzari e dei cani veloci abbiano cura, come si deve, quando non colpisco linci né cervi. Dammi tutti i monti, ma una città riservami qualunque, quella che vuoi: discende raramente Artemide in città. La mia dimora sarà sui monti e le città degli uomini frequenterò soltanto, quando, morsedagli acuti dolori del travaglio, in aiuto mi chiamino le donne. Dalle Moire ebbi in sorte, appena nata, di assisterle, poiché nel partoriree nel portarmi non soffrì mia madre, ma, senza alcun dolore, mi depose dalle sue membra. Il padre, orgoglioso le offrì di diventare custode delle strade e dei porti e le diede trenta città.
Dopo questo evento Artemide si recò a Creta, sul monte Leuco dove scelse le venti ninfe e poi nel fiume Oceano dove prese le sessanta ancelle di nove anni. Dopodiché si recò a Lipari, dove c'era la fucina dei Ciclopi e lì trovò Bronte, cui chiese di costruirle arco e frecce d'argento. In cambio avrebbero ricevuto il primo pasto della prima preda abbattuta con esse. Non appena furono in suo possesso Artemide viaggiò fino in Arcadia da Pan, il dio selvaggio, e si fece dare tre dei suoi cani segugi dalle orecchie mozze e sette segugi spartani. Catturò a quel punto due coppie di cerve cornute legandole ad un cocchio d'oro con redini dorate e con esse si recò verso il monte tracio Emo, a nord. Là ricavò una torcia da un pino e l'accese nelle braci di un albero colpito da un fulmine, poi si mise a provare l'arco mirando prima due alberi, poi una bestia selvatica ed infine una città abitata da uomini ingiusti.
Artemide aveva un temperamento molto combattivo. In più occasioni veniva rappresentata come portatrice di morte, come nel mito appena trattato dove aveva fatto pratica colpendo questi fantomatici uomini ingiusti. Ma più volte colpì e uccise per vendetta, come quando, mentre Apollo si era recato ad uccidere il serpente Pitone, Leto si recò a Delfi per svolgere dei riti non ben specificati nel bosco di Panopeo. Fu là che Era cercò di nuovo una vendetta nei suoi confronti: ispirò un desiderio bruciante per lei in uno dei figli illegittimi di Zeus, avuto con Elara, figlia di Orcomeno: il gigante Tizio, il quale cercò di stuprarla. Sentendo le sue urla Apollo ed Artemide giunsero in suo soccorso e riempirono il gigante di frecce, uccidendolo. Dopodiché Zeus, nonostante a morire fosse stato uno dei suoi figli, giudicò l'avvenimento come un atto di giustizia e condannò anzi Tizio a rimanere incatenato nel Tartaro mentre due avvoltoi gli divoravano il fegato. Artemide si distinse anche nella Gigantomachia, colpendo con le sue frecce d'argento il gigante Grazione, ma quando Tifone fu scagliato contro gli Olimpi anche lei fuggì in Egitto, tramutandosi in una gatta. Durante la guerra di Ilio si schierò dalla parte dei troiani, rimbeccando Apollo di essere un codardo perché aveva rifiutato di battersi con Poseidone. Subito dopo si scontrò con Era, affiancata dalla madre, come ci narra Omero nel Libro XXI dell'Iliade. Trovandosela dinanzi la dea del matrimonio la punzecchiò chiedendole: "Come osi starmi di fronte? Non puoi gareggiare con me in possanza, anche armata di arco. Anche se Zeus ti ha resa una leonessa fra le donne e che come tale ti concesse di ferire come ti piace, è meglio che tu stia nei boschi a uccidere capri e cervi che fare a pugni con i più forti. E se proprio vuoi provare, avanti, constata da te la differenza". E a quel punto le afferrò con la mano sinistra entrambe le mani, le strappò la faretra e gliela sbatté sull'orecchio mentre lei si divincolava e mentre le frecce si spargevano al suolo. Artemide si sciolse dal blocco e come una colomba fuggì via piangendo.
Non era una divinità che cercava la lotta o il massacro, ma era spesso chiamata per punire, come avvenne quando il fratello chiese vendetta su Coronide perché l'aveva tradita e lei la uccise o quando Niobe, regina di Tebe, si vantò di aver avuto quattordici figli, di cui sette maschi e sette femmine e derise invece Leto per averne avuti solamente due. Insieme ad Apollo, per "raddrizzare il torto" perpetrato nei confronti della madre uccise a sangue freddo dodici dei figli di Niobe, oltre che la madre stessa, lasciando in vita solo un maschio e una femmina. Quando Atteone, mentre era a caccia, per caso la vide bagnarsi insieme con le sue ninfe e poi si vantò che Artemide si fosse mostrata nuda, lei lo tramutò in un cervo così che i suoi stessi cani gli si aizzassero contro, sbranandolo. Come ci narra Euripide nell'opera che porta il nome del protagonista: Ippolito, fu Artemide a cercare la vendetta contro Afrodite uccidendo Adone, perché questa aveva indotto in Fedra, madre di Ippolito, che preferiva la dea della caccia a quella dell'amore, un perverso desiderio che il figlio rifiutò, portandola a suicidarsi e poi a lasciare scritto al marito Teseo che aveva ricevuto violenza dal figlio. Egli quindi maledisse Ippolito e Poseidone dovette soddisfare la richiesta, facendo scaturire un toro dai mari che fa imbizzarrire i cavalli della biga che stava guidando e che lo trascinarono uccidendolo.
Artemide pretendeva dalle proprie ninfe la castità e la verginità e non tollerava alternative. Quando Calliope venne violentata da Zeus e rimase incinta, appena la dea se ne accorse la trasformò in un'orsa, portando il figlio Arcade ad ucciderla durante una battuta di caccia. Il Padre degli dei intervenne e li assurse al cielo come costellazioni: l'orsa maggiore e l'orsa minore. Il suo rifiutare la sessualità non era solo dal punto di vista maschile, ma anche da quello femminile: nell'Inno ad Afrodite si legge di come Artemide sia l'unica che può resistere al potere della dea. Nonostante questo ci fu un uomo che Artemide amò, quanto meno in modo platonico. Una sorta di Odisseo per Atena. Si tratta di Orione, il cacciatore, con cui la dea era legata, dato che spesso cacciavano assieme. La sua morte ha due interpretazioni. Nella prima il suo coinvolgimento fu tale che Apollo, geloso la trasse in inganno, inducendola ad ucciderlo. Mentre Orione si stava bagnando in mare, nuotando al largo, il dio del sole, indicandole la testa che spuntava all'orizzonte come un punto lontano, chiese alla sorella se fosse in grado di colpirlo e lei scoccò una freccia con cui centrò il bersaglio. Fu solo in seguito, quando la risacca portò a riva il corpo senza vita del ragazzo che Artemide si accorse del crudele inganno cui fu sottoposta, pertanto assieme ai suoi cani lo rese la nota costellazione. In un altro mito invece, lui si vantò di essere un cacciatore migliore di lei, e questo fece infuriare la dea che lo fece pungere da uno scorpione. Ma in questo contesto c'è anche una variante della favola narrata da Apollodoro nella Biblioteca, che parla di Endimione, un re pastore dell'Elide, regione nella parte occidentale del Peloponneso. Egli, figlio di Zeus e della ninfa Calice, era di una bellezza incredibile. Per motivi vari (secondo alcune versioni l'aver cercato di sedurre Era, secondo altre, per dono del dio del sonno Hypnos o dello stesso Zeus) Endimione cadde in un sonno letargico per trenta e passa anni. Artemide (ma in epoca più antica Selene) per caso lo vide e si innamorò di lui andando a vederlo dormire ogni notte.
Come abbiamo visto quindi Artemide è stata associata a Selene, la dea lunare, solo in un secondo tempo. Anticamente rivestiva completamente il ruolo di dea selvaggia e cacciatrice, patrona delle fiere, ma si ergeva a difesa anche dei bambini. Il suo mito si intreccia anche con altre donne che come lei rispecchiavano l'indipendenza e il rifiuto, come Atalanta, con cui spesso venne associata. Il padre di questa eroina era Menelao, fratello minore di Agamennone e marito della famosa Elena che fu rapita da Paride. Dato che desiderava un maschio, abbandonò la piccola sul monte Pelio. Artemide, per proteggerla le mandò un'orsa che la nutrì e se ne prese cura come se fosse sua fin quando fu trovata da un gruppo di cacciatori. Proprio come la dea che l'aveva protetta, Atalanta era una cacciatrice provetta, infallibile con l'arco e, proprio come la dea, non conosceva pietà per chi attentasse alla sua virtù, come ben appresero Reco ed Ileo, due centauri che cercarono di violentarla. La sua capacità fu anche valutata da Giasone per la missione volta a recuperare il Vello D'Oro, ma dato che si trattava di una donna, lui non se la sentì di farla salire a bordo. Vigeva infatti un'antica superstizione su come una donna su una nave portasse sfortuna. Ma non mancò il colpo nella Caccia Calidonia per uccidere il cinghiale omonimo, animale mitico e incredibilmente forte inviato dalla stessa Artemide per distruggere i campi di Calidone perché Oineo aveva mancato nelle offerte. Non fu la prima volta che il Cinghiale Calidonio veniva scagliato contro qualcuno; anche Ares ne fece uso per uccidere Adone. Insieme con Castore, Polluce, Giasone, Peleo, Deucalione, Admeto, Leucippo, Meleagro e tanti altri, a seconda degli autori (Ovidio, Igino e Pausania) Atalanta colpì il cinghiale per prima, aggiudicandosi la sua pelle direttamente da Meleagro. La sua vittoria la rese famosa tanto che il padre la riconobbe e cercò di renderla sposa, ma dato che secondo un oracolo avrebbe perduto i suoi poteri se sposata, decise di accettare come sposo solo chi l'avesse battuta in una gara di corsa. Di contro si sarebbe presa la vita dei pretendenti che avrebbero perduto la sfida. Nessuno riuscì a batterla se non Melanione, che, innamorato sinceramente di lei, chiese aiuto ad Afrodite che gli diede tre mele d'oro colte dal Giardino delle Esperidi, sacro ad Era, spiegandogli di lasciarle cadere in precisi momenti della corsa. Fermandosi a raccoglierle, Atalanta perdette tempo permettendo al pretendente di vincere e averla in moglie.
Al contrario di chi vede in Artemide una donna che rifiuta il maschio, questa dea ci porta un messaggio più vicino alla parità, completando una triade di vergini olimpiche. Là dove Estia rappresenta la saggezza e dove Atena rappresenta una madre, Artemide rappresenta l'aspetto giovane. Il concetto di purezza di questa dea non è da ricondurre quindi ad un'inviolabilità e una sacralità del femminile (che più facilmente è assimilabile ad Estia), bensì alla forza del suo lato selvaggio che la rende indomita. Ciò ne consegue che la scelta di illibatezza di Artemide non è una presa di posizione che ha come conseguenza associazioni ideali, bensì una conseguenza dell'associazione ai luoghi selvaggi. Come abbiamo visto, infatti, era chiamata Potnia Theron, Signora delle Fiere e come tali si parla di animali selvatici indomabili. In epoca arcaica spesso era facile vederla rappresentata mentre teneva strette tra le mani degli animali feroci, come a Creta, dove era nota come Potnia dei Serpenti ed indossava una gonna a balze e aveva i seni scoperti; tra le mani, all'altezza della testa, teneva stretti due serpenti, in perfetta simmetria. Sull'ansa di un cratere molto antico, invece, risalente al quinto secolo a.C., noto come Cratere François, la si vede, nella sua rappresentazione alata, mentre tiene per la collottola un leone e una pantera, come fossero micetti. Artemide rappresenta così la natura selvaggia, il potere della terra rigogliosa, quella legata agli aspetti precedenti alla civilizzazione; rimane legata al parto e alle puerpere perché è qualcosa che, indipendentemente dalla civilizzazione, rimane comunque naturale e si svolge ora come millenni fa. Walter Otto nel suo I Dei della Grecia ne esprime un concetto in questo modo: "È un tumultuare di elementi, animali e piante, è pienezza di vita che germoglia, fiorisce, fermenta, sprizza, balza, salta, svolazza, aleggia e canta; un'infinità di simpatie e discordie, accoppiamenti e lotte, calma e movimento febbrile; e tutto ciò s'apparenta, s'intesse e si collega infine mediante un solo spirito vitale, la cui presenza superiore è sentita dallo spettatore silenzioso con lo stesso brivido che si prova davanti all'ineffabile".
Artemide, difenditrice dei luoghi e delle creature selvagge rappresenta il concetto di purezza, di incontaminatezza e di istintualità. Come ci suggerisce Graves, è diventata una dea vergine solo in seguito all'espansione della civiltà e delle città che si appropriavano dei luoghi selvaggi, ma le è rimasta comunque sacra la quaglia, nota per essere un animale molto promiscuo. Ed infatti l'anacronismo tra una dea selvaggia e una dea vergine sarebbe oltremodo enorme, perché una dea delle creature selvatiche dovrebbe fare dell'attività sessuale un suo principio cardine, in quanto legato all'espansione della vita stessa. Ed infatti nel suo culto tributato in Asia Minore, specialmente ad Efeso, era vista come dea della fecondità e rappresentata con molteplici seni.
Omero, la definì "leonessa fra le donne", e proprio per questo Artemide porta con sé il suo fortissimo lato oscuro, che nel culto patriarcale è visto come indipendenza dall'uomo; spesso viene rappresentata circondata da morti uccisi dalle sue frecce che, comunque, addormentano senza far male, come ci viene riportato nell'Odissea. Ma, così come tiene tra le mani un cervo e una pantera, così è lei che porta la febbre alle partorienti, uccidendole di parto anche se viene invocata per aiutare le puerpere che comunque sentono le sue frecce nel ventre durante le doglie. Nonostante quindi sia una dea che porta la morte, è preservatrice della vita e ha a cuore i cuccioli, sia di animali che di uomini e li protegge fino all'adolescenza accomunandosi in questo modo con il fratello Apollo.
Artemide è riconducibile anche ad una dea madre legata alle creature selvagge e ai luoghi a loro legati. In tutta la Grecia i suoi santuari erano al di fuori dei confini delle polis: li si trovava all'interno delle caverne, lungo corsi d'acqua, o in cima ai monti. Il legame che si potrebbe creare con divinità similari è forte e non sarebbe un caso rivederla in pitture rupestri o rappresentazioni dove trova spazio una divinità maschile come Chernunnos che, come sul Calderone di Gundestrup, viene rappresentato in mezzo tra un lupo e un cervo a bilanciare la preda e il predatore.
In tutto questo, confrontandola con Apollo è possibile trovare molte similitudini tra i due. L'associazione lunare/solare, decisamente tarda, non rispecchia il messaggio compiuto e soprattutto parallelo di queste due divinità così intersecate tra loro. E anzi azzardo a dire che sia una possibile associazione ulteriore valutata per due motivi: la prima per via del legame che corre tra la luna, l'acqua e il ciclo delle donne e la loro fertilità e in secondo luogo proprio per dare ad Apollo una sorella che sia oscura e notturna là dove lei è diurno e luminoso, quando invece Artemide risale a divinità precedenti anche a Zeus stesso, quando l'uomo non era ancora legato al patriarcato e alle città. Ciò nonostante Artemide e Apollo condividono in primis l'abilità suprema con l'arco che, nel caso della Dea, richiama la luna crescente, ma soprattutto la visione distaccata dal regno degli uomini e il potere di colpire dalla distanza. Ma se Apollo vive questo distacco in modo celeste, come Sole, Artemide lo vive in modo terrestre, in quanto silvana, quindi Terra. Questa dualità cambia proprio l'approccio che hanno con la loro perfezione e ne descrive l'intento finale. Apollo ricerca la sua epifania nella spiritualità e nell'etereo astrarsi della musica e dell'arte e nella liberazione dagli istinti primari che portino ad un equilibrio interiore oltre che esteriore: il conosci te stesso che appariva all'Oracolo di Delfi. Chiede quindi di reprimere l'istinto e usare il cervello: saper essere assennati. Artemide invece ricerca la sua epifania nella libertà dell'esistenza in quanto fisica e istintuale, liberando ciò che è più in profondo e mantenendo l'integrità morale ed istintuale e con esso il rispetto di ciò che è puro e incontaminato. Se un leone fosse frenato dalla moralità sulla vita e sulla morte non ucciderebbe la gazzella, ma morirebbe di fame. Il predatore non si muove sulla base che dell'istinto per cacciare, esattamente come la preda lo fa per mettersi in salvo. È la catena della vita. Questa semplicità di intenti permette alla natura di restare pura e incontaminata e in questo contesto Artemide sovrana piange sia per la gazzella uccisa che per il leone morto di fame e nello stesso tempo favorisce il leone con la ferocia e la gazzella con la velocità, affinché ci sia l'equilibrio delle forze in gioco.
Nel suo aspetto lunare Artemide trova soddisfazione nel potere femmineo, e per questo spesso è stata associata al movimento omosessuale femminista in quanto libera dal dogma sciovinista maschilista, fortemente in voga negli anni cinquanta, quando il concetto di donna attraente era quella che non mostrava iniziativa, e che pertanto aveva perduto, dimenticato o in qualche modo si era privata o fu defraudata di quegli aspetti liberi e determinanti che permettono, in primis, di decidere per la propria vita: la donna era stata addomesticata o quanto meno si è lasciata addomesticare dall'uomo. Come spesso accade, anche questa volta il potere di una divinità è stato estrapolato da un contesto puramente per soddisfare un bisogno di identificazione, ma dimenticando il reale messaggio che Artemide portava con sé e che non era contro gli uomini, ma contro l'irrispettosità nei confronti della natura libera, pura e selvaggia e degli animali selvatici.
Mitologicamente e anche antropologicamente sarebbe anche troppo facile tracciare una Artemide in culti diversi, semplicemente seguendo l'associazione con Selene o con la Diana italica, definita la splendente. Ma questo sarebbe un trovare la via più tarda, e ancora una volta non ascoltare il messaggio che questa dea ci sta mandando. In realtà la dea che più assocerei a lei è di origine Gallese e appare la prima volta nel primo ramo del poema Mabinogi. Al contrario della visione degli dei in altri culti, nella mitologia celtica le divinità vivono e muoiono come umani. Rhiannon in questo caso appartiene al popolo fatato. Nella versione rivista da Evangeline Walton appare a Pwyll, re di Dyved, durante il suo viaggio nell'Annwn per conto di Arawn, promettendogli che si sarebbero incontrati presto e poi aiutandolo in una delle due prove, mandandogli in soccorso i suoi tre uccellini. Nella versione tradotta da Lady Charlotte Guest, invece Rhiannon appare a Pwyll solo nella seconda occasione, narrata però anche dalla Walton. Dopo tre anni che fu tornato dalla sua catabasi, durante un banchetto che si teneva in suo onore nel suo palazzo, Pwyll si alzò per fare due passi, deciso a recarsi sul tumulo noto come Gorsedd Arbeth. Nonostante uno dei commensali cercasse di dissuaderlo da recarsi in quel luogo asserendo che "quel luogo è noto perché chiunque vi si sieda non se ne può andare senza aver ricevuto una ferita, un colpo o senza aver veduto qualche prodigio". Ma Pwyll rispose: "Non temo di ricevere colpi o ferite dato che sono circondato da un'armata come questa, ma sarei felice di vedere qualcosa di curioso, pertanto salirò e siederò sul tumulo". E così fece: si sedette e là vide una donna, vestita con un abito di broccato di seta d'oro, che cavalcava un cavallo bianco di grandi dimensioni, e che percorreva la strada che conduceva al tumulo. Il cavallo sembrava muoversi in modo molto lento e Pwyll, colpito da quella visione chiese ai suoi uomini se qualcuno la conoscesse e, dopo che ebbero risposto che non l'avevano mai vista, chiese ad uno qualsiasi di loro di andare da lei e chiedere chi fosse. Uno si offrì e appena cercò di raggiungerla a piedi, per quanto andasse veloce, lei riusciva sempre a mantenerlo alla stessa distanza. Stremato tornò dal suo re e gli rispose che non era possibile per nessuno al mondo seguirla a piedi. Pertanto Pwyll ordinò che fosse seguita a cavallo. Ma anche così l'uomo per quanto portasse l'animale allo stremo non riusciva a ridurre la distanza. Il giorno dopo Pwyll ordinò che fossero presi i cavalli più veloci e tornò nel luogo dove l'aveva vista alla stessa ora. Rhiannon riapparve e lui chiese ad uno degli uomini di inseguirla a cavallo, ma per quanto spingesse il cavallo al massimo il cavaliere non riuscì a ridurre la distanza, come se fosse stato a piedi. Pertanto tornarono a palazzo. Il terzo giorno Pwyll decise di tornare di nuovo sul tumulo e una volta là fece sellare il suo cavallo e lo fece trottare ad una velocità leggermente superiore a quella della donna, pensando così di raggiungerla. Ma anche lui rimase deluso. Colto impreparato spinse il cavallo allo stremo ma non ci fu nulla da fare; per quanto sembrava procedere lentamente, si manteneva sempre alla stessa distanza. Stremato Pwyll le gridò: "Oh signora, per amore di colui che ami, fermati ti prego". A quel punto Rhiannon si fermò e gli rispose: "Con piacere. Sarebbe però stato meglio per il tuo cavallo che ti fossi degnato prima di chiederlo con gentilezza", poi si liberò del copricapo che indossava e che le oscurava il volto e rispose alle domande di Pwyll, il quale le chiese da dove fosse giunga e dove fosse diretta. Rhiannon rispose: "Viaggio errando per mio conto". Con questo semplice scambio di battute, la dea già mise in chiaro al mortale il suo non appartenere a nessun luogo e nessun uomo e la necessità di rispettarla trattandola con gentilezza per avere a che fare con lei, anche se, come gli spiegò poco dopo, fu proprio per cercare e incontrare lui che si era recata in quel luogo. E qui pone la sua terza chiarificazione sul suo intento: "Sono Rhiannon, figlia di Heveydd Hên e hanno intenzione di darmi in sposa ad un uomo contro la mia volontà. Ma non posso avere alcun marito a causa del mio amore per te, e non ne avrò alcuno se tu mi rifiuterai. Pertanto sono giunta qui per sentire qual è la tua risposta". Pwyll, che non aveva mai visto una donna più bella ovviamente rispose affermativamente. lei pertanto gli chiese di incontrarla nel palazzo di Heveydd dopo dodici mesi da quel giorno perché ci sarebbe stato un banchetto e a cui si sarebbe dovuto presentare. Così si separarono e dopo un anno Pwyll preparò cento dei suoi uomini e con loro si recò al palazzo di Heveydd Hên, dove vennero accolti con gioia e come era costume, tutta la corte fu posta sotto i suoi ordini.
Durante il banchetto, durante il quale Pwyll si sedette da un lato di Heveydd e Rhiannon dall'altro, giunse un uomo biondo e alto, vestito in modo regale con un abito di seta che salutò i nuovi ospiti. Come era costume per un banchetto di matrimonio, Pwyll doveva fare doni agli invitati. Il giovane si presentò come un pretendente dicendo che non poteva fermarsi perché aveva degli affari da sbrigare che lo riguardavano personalmente, ossia chiedergli un dono. Pwyll rispose: "Qualsiasi dono che tu mi chiederai, se è mia possibilità, tu l'avrai". Capendo l'inganno Rhiannon immediatamente criticò la sua stupidità nell'aver dato una risposta di questo tipo, perché quell'uomo era Gwawl, figlio di Clud e il dono che chiese era la donna che amava e che avrebbe dovuto divenire sua posa quella notte stessa a quel banchetto. Pwyll comprendendo rimase ammutolito, dato che non poteva rimangiarsi la promessa fatta. "Rimani in silenzio quanto vuoi", rimbeccò di nuovo Rhiannon, "non ho mai visto un uomo fare un uso peggiore del suo buon senso". A quel punto la dea diede a Pwyll una piccola borsa e gli spiegò il modo in cui avrebbero risolto, dicendogli di presentarsi da qui ad un anno con cento uomini armati.
Così Rhiannon promise a Gwawl di sposarlo da un anno a quel giorno dato che erano lì per il banchetto e tra tutti non era rimasto molto. Pwyll tornò a Dyved e attese un anno, poi si presentò al banchetto portando la borsa e i cento uomini armati, come aveva specificato Rhiannon. Ci furono saluti calorosi e, come era avvenuto un anno prima, l'invitato fece una richiesta allo sposo e questo rispose: "Sia benvenuta la tua richiesta, se ciò che chiedi è legittimo, sarò felice di fartelo avere". A quel punto Pwyll mostrò la piccola bisaccia ricevuta da Rhiannon e chiese che fosse riempita di cibo. Ma la borsa era magica e per quanto la riempissero non sembrava mai colmarsi. Gwawl a quel punto chiese se mai si sarebbe riempita e il re di Dyved rispose che sarebbe stata piena solo quando un uomo che è padrone di terre, domini e tesori si fosse messo a premere il suo contenuto con entrambi i piedi dicendo 'Ne è stato messo dentro abbastanza'". Così, incitato da Rhiannon, Gwawl mise entrambi i piedi nella bisaccia, pronunciò la frase adatta e in quella Pwyll ne tirò i lembi verso l'alto chiudendogliela sopra la testa e facendo un nodo; dopodiché suonò il corno. A quel richiamo arrivarono i soldati che misero tutti gli ospiti di Gwawl nella sua stessa prigione e presero a picchiare la borsa con calci e bastoni chiedendo ogni volta che cosa contenesse e ogni volta sentendosi rispondere "un tasso". Dopo che tutti ebbero picchiato il sacco per bene, Gwawl, che era al suo interno, affermò che non si meritava di finire ucciso in quel modo e il padrone di casa, il padre di Rhiannon, confermò. Pwyll accettò il consiglio e in quel momento Rhiannon intervenne dicendogli: "Ascolta il mio consiglio, ora. Non sei nella posizione per soddisfare i pretendenti e i menestrelli. Lascia che sia lui a farlo al posto tuo e fatti giurare che non cercherà mai vendetta per ciò che gli hai appena fatto. E che questo sarà abbastanza come punizione. Gwawl giurò e fu così liberato.
Dopo il banchetto in cui con i suoi uomini festeggiarono e la notte che passò con Rhiannon, Pwyll chiese a Heveydd di poter tornare a Dyved, ed insieme alla dea partirono come marito e moglie.
Rhiannon ebbe un figlio da Pwyll, ma la notte stessa della sua nascita ad Arbeth, scomparve misteriosamente dalla culla. Per evitare la rabbia del re, le sei dame d'onore che avevano in cura il piccolo decisero di sporcare la madre Rhiannon con il sangue di un cucciolo di cane mentre dormiva, incolpandola così di infanticidio e cannibalismo.
Rhiannon, che era figlia del popolo fatato e che aveva rinunciato alla sua immortalità per sposare Pwyll, nonostante regina, fu costretta dal druido delle tribù, che l'aveva in antipatia ma che aveva un immenso potere giuridico, a pagare un'enorme condanna per la colpa che si portava addosso nonostante fosse innocente. Doveva sedere ogni giorno su una pietra lungo strada per il palazzo e doveva informare chiunque si approssimasse di quale fosse stato il suo delitto: aver ucciso e mangiato suo figlio e, come segno di incredibile smacco, doveva offrirsi di condurli a palazzo sulla schiena.
A completa insaputa di chiunque, la notte stessa in cui venne partorito, il bambino di Rhiannon e Pwyll, misteriosamente scomparso, venne trovato sano e salvo da Teyrnon, Signore di Gwent, fuori dalla sua stalla. In quella zona avveniva ogni anno nello stesso periodo un misterioso evento: la giumenta partoriva un puledro, ma la notte stessa del parto, questo spariva. La notte di Beltaine, quindi tra il 30 aprile e il 1 maggio, proprio dopo la nascita del puledro, Teyrnon decise di mettersi a guardia della stalla per cercare di uccidere l'uomo o la creatura che rapiva ogni anno i puledri. Nottetempo vide giungere una creatura artigliata, o quanto meno vide solo un lungo artiglio protendersi nella stalla. Teyrnon lo tagliò di netto costringendo la creatura, qualunque fosse, a fuggire e a non fare più ritorno. Correndo fuori dalla stalla trovò il bambino in fasce e insieme con la moglie lo adottarono dandogli nome Gwri Wallt Euryn, che significa "Gwri dai capelli d'oro". Il bambino aveva una crescita straordinaria, divenendo adulto alla tenera età di sette anni. Quando i due genitori adottivi capirono di chi era figlio, data l'incredibile somiglianza che aveva con Pwyll il re di Dyved, lo riportarono ai legittimi genitori, i quali gli diedero nome Pryderi, che significa "preoccupazione", spezzando così l'orribile condanna che affliggeva la regina e riportando tra le braccia dei genitori il figliolo perduto.
Nel terzo ramo del Mabinogion, Pryderi sale al trono sposando Cigfa dopo la morte di Pwyll e Rhiannon, vedova, si risposa con Manawyddan, fratello di Branwen e Bran, di ritorno dopo aver sepolto la sua testa coma richiesto da lui stesso. Ma una maledizione colpisce la terra di Dyved e dalla sera alla mattina a causa di una misteriosa nebbia, tutta la popolazione sembra scomparsa a parte i quattro sopracitati, che si dovettero adattare a viaggiare verso la Britannia dove si arrabattarono produendo scarpe e sandali di ottima fattura, ma, costretti dagli altri artigiani che producevano scarpe di manifattura inferiore, per non battersi decisero di tornare a Dyved. Durante una battuta di caccia, inseguendo un cinghiale bianco, Manawyddan e Pryderi trovarono una misteriosa torre e nonostante l'avvertimento del compagno di non avvicinarsi, Pryderi entrò e, attratto da un calderone dorato, dopo averlo toccato rimase paralizzato e impossibilitato a parlare. Manawyddan attese in vano il suo ritorno e alla fine si ripresentò da Rhiannon spiegando che cosa era accaduto. Incolpando il marito di poco coraggio, la madre entrò nel forte, trovò il figlio e subì lo stesso fato e con loro il forte svanì nella nebbia. Manawyddan, dopo aver assicurato a Cigfa che non l'avrebbe molestata, la condusse a Lloegr dove ricominciò a produrre scarpe e dove ancora una volta vennero cacciati.
Di ritorno quindi a Dyved, seminarono tre campi di grano ma il primo venne distrutto prima che fosse possibile mietere. La seconda notte toccò al secondo. Manawyddan rimase quindi di guardia sul terzo campo e quando vide che a distruggerlo era un topo, lo afferrò e decise di impiccarlo il giorno dopo. In quella giunse un saggio che gli offrì una moneta per salvare la vita dell'animale, ma lui rifiutò. Poi arrivò un prete che gliene offrì tre senza successo. A quel punto arrivò un vescovo che gliene offrì ventiquattro, ma lui rifiutò. Quando quest'ultimo chiese cosa desiderasse per salvare la vita del topo, Manawyddan chiese che Rhiannon e Pryderi fossero lasciati liberi e che l'incantesimo che affliggeva la terra di Dyved fosse rotto. Il vescovo accettò rivelando così di essere il mago grigio Llwyd ap Cil Coed, e che il topo che lui aveva catturato era sua moglie Gwenaby. Fu così che si scoprì che la maledizione che aveva colpito la terra era stata lanciata da lui, che cercava vendetta per l'umiliazione subita da Gwawl per mano di Pwyll.
Rhiannon viene collegata con la dea dei cavalli romana Epona, ma rappresenta il potere della dea selvaggia che cavalca libera dal potere del patriarcato, quindi sposa chi ama e non chi gli è stato promesso, e si ferma a parlare con chi la cerca solo se le viene chiesto gentilmente. Janet e Stewart Farrar, nel loro Eight Sabbats for the Witches collegano la corsa della donna selvaggia a cavallo con la storia di Lady Godiva: una rappresentazione del potere femminile libero e propiziatorio. Questa donna infatti era una nobile inglese che da vedova andò in sposa al Conte Leofrico di Coventry. Per sollevare il popolo dalle pesantissime tasse che suo marito estorceva, ottenne di poter avere un abbassamento delle imposte solo se avesse attraversato la contea a cavallo completamente svestita, e così fece. Qui la storia si divide in diverse versioni: una è quella che racconta che venne proibito a chiunque di uscire di casa e di spiare dalle imposte e che un uomo, nascostosi dietro un buco nella tapparella per vedere la nobildonna anglosassone passare in parata, divenne cieco. Altri sostengono che il termine "nuda" significhi invece "priva di gioielli" e altri ancora che richiami un tema di pentimento cattolico. Secondo i coniugi Farrar però proprio a Bel, per onorare invece Rhiannon, veniva eletta una vergine di Maggio che cavalcava nuda attraverso il villaggio per propiziare la fertilità e le nozze sacre.
Questo mito della caccia di Pwyll e Rhiannon richiama il concetto della donna che sceglie quando e se darsi ad un uomo, spezzando i dogmi di una società patriarcale che pretende invece di decidere per lei perché la ritiene una proprietà. La libertà sessuale della donna e la dimostrazione di essere capace di fare qualsiasi cosa faccia un uomo, ha creato nel tempo il mito della donna guerriera che rifiuta il maschio, come le famose Amazzoni, considerate nemiche dei greci dal momento che nella loro società l'idea di una donna guerriera erainconcepibile. Di questa popolazione di regime matriarcale ci parlano più autori, come Plinio, Virgilio, Erodoto, Strabone, Eschilo e Diodoro Siculo. Ognuno le posiziona in luoghi diversi o ne dà una interpretazione personale, ma lo stesso Priamo, nell'Iliade le riconosce come "eguali agli uomini" in fatto di forza e capacità nell'arte marziale. C'è inoltre una leggenda secondo la quale si privassero di un seno per facilitare il tiro con l'arco. L'etimologia del nome ricondurrebbe a mazòn, che significa "seno", con la particella abnegativa "a", quindi "senza seno", ma potrebbe anche essere un rafforzativo, quindi "seno florido" o riportare ad una lingua caucasica (dove si situa il loro insediamento) che ricondurrebbe alla parola màsa che significa "luna", riferendosi quindi a loro come "sacerdotesse lunari". Molti autori parlano di mutilazione, come Diodoro Siculo, mentre altri si riferiscono alle amazzoni come a donne cui il seno è stato arroventato con una placca di rame sin da bambine per inibire lo sviluppo della mammella perché ritenevano che questo le rendesse più forti. Il seno obbiettivamente è ingombrante per chi deve combattere. Ma in antichità si usava anche indossare fasce strette intorno al petto per tenerlo compresso, come fa notare Omero. Da considerare c'è il fatto che le amazzoni erano tribù di sole donne e disconoscevano l'uomo. Se non avessero avuto figli si sarebbero estinte tempo una generazione, e il seno è comunque legato all'allattamento.
In quanto sacerdotesse lunari, le Amazzoni veneravano Artemide, ma in una forma forse più arcaica e antica che richiama i periodi matriarcali e le ginecocrazie. Oltre all'arco una delle loro armi era l'ascia bipenne, quella nota come labrys e che divenne simbolo dell'omosessualità femminile.
Artemide rappresenta quindi la donna giovane e libera di poter decidere della propria vita, del proprio corpo, della propria sessualità, del proprio destino, dei propri sentimenti. Al contrario di una figlia, giovane ma comunque soggiogata ad un potere maschile, la Cacciatrice rimane spoglia di questi dogmi e scevra delle catene. Il suo forte lato oscuro, quindi il suo essere "una leonessa tra le donne", come la definisce Omero, la mette in una condizione di crudeltà che in alcuni momenti del suo mito la rendono spietata, come del resto la natura selvaggia che lei rappresenta si manifesta da sempre. Nonostante questo non appare mai immorale, ma dedicata a ciò che la compete, pertanto amorale, in quanto esterna al regime costituito dalla visione della civiltà e cittadina.