The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Litha 2012

Litha 2012

Eppure sentire nei fiori tra l'asfalto, nei cieli di cobalto c'è... Eppure sentire nei sogni in fondo a un pianto, nei giorni di silenzio c'è un senso di te.

A volte ci si ritrova a chiedere scusa quando ormai è troppo tardi. Anche a noi stessi. Per ciò che abbiamo concesso agli altri di farci. Ma non è un po' assurda questa cosa, non trovate? Nel senso... ci muoviamo, coscienti e a volte incoscienti e anche quando qualcuno ci ferisce dobbiamo in qualche modo esaminare noi stessi nelle parole, nelle azioni; dobbiamo passarci questa mano sul cuore. Non sarebbe tutto più semplice se un torto fosse un torto e basta? Un uomo si comporta da stronzo... significa che è stronzo? No, significa che tu gli hai permesso di essere stronzo con te. Che modi pazzeschi che ha la vita di porti di fronte le sfide che devi superare. Qualcuno, per cortesia, mi sa dire dopo quanto cadono in prescrizione le scuse? Lo chiedeva Harry, in quel meraviglioso film con Meg Rian e Billy Crystal. Lei rispose dieci anni. Era nel limite del tempo massimo. Bisogna vedere se è davvero così.
Una volta credevo che il carattere delle persone, la forza d'animo, il potere, l'ascendente fosse dovuto semplicemente a ciò che è una persona stessa, a come si è formata. Dovuta forse anche dalla quantità di calci che si è presi nel deretano, dalle volte che si è caduti e rialzati, dalle volte in cui ci si è fermati a ricucirsi il cuore con quell'ago ricurvo da sutura. Ed è anche così, ma nel tempo ho capito che non è solo questo. C'è anche altro. Spesso è la rottura dello schema vivente, la delusione, la distruzione del sogno al mattino che ti forma il carattere. L'altro giorno, mentre ero al parco con Morgan e lui scorrazzava sulla sua fiammante bici a dalmata (se la cava alla grande senza rotelle ma deve ancora imparare a non essere un pericolo pubblico), mi guardavo in giro per individuare le erbe solstiziali, così che quando stanotte andrò a prenderle non dovrò cercarle con il lanternino. Vedendo i prati fioriti mi sono reso conto di quanto pochissimo tempo basti perché dall'erba ghiacciata esplodano migliaia di colori. E mi dico sempre: ma dove sono quei semi da cui nascono i fiori? Sepolti sotto la neve, attendono? La dea, passando col suo manto, risveglia la natura camminando. Come dicevo nella vecchia poesia di Imbolc: dalle tue orme crescono camelie e bucaneve e primule. E così fa anche con noi. Cammina dolcemente e sfiora la tua vita con la mano, lasciando che quei semi germoglino, piano piano. E rimangono sepolti nell'incoscienza di noi stessi finché semplicemente non è tempo di svegliarsi. Ma te ne rendi conto solo quando ormai sono visibili: le vie intermedie ti sono nascoste. Capita lo stesso con il carattere. Ti accorgi di quello che è solo quando è formato: le vie intermedie, se osservato costantemente, ti sono precluse. Eppure ci sono. Lasciano segni.
Tornando indietro con la memoria, riesco a ricostruire i segni della dea fino a oltre trent'anni fa. Ricordo un episodio e ce l'ho qui, impresso, anche se smussato. Si tratta di un evento che si verificò un giorno in cui mi ritrovai al principio di una serie di simboli collegati tra loro che mi riportano fino ad ora. Potrei forse non captarne qualcuno nel mezzo, ma la linea c'è. Ci arriverò eh, subito. Per farlo però devo fare un po' di ordine.
Dunque, nell'epoca remota in cui andavo a scuola io i banchi erano in legno, rettangolari, a posto singolo. Erano un residuo del dopoguerra e degli anni sessanta. Ne avevano passate di cose e si vedeva. Con probabilità su quegli stessi banchi si era seduto anche mio fratello, che era andato nella mia stessa scuola. Sul lato del banco opposto a quello dove ci si sedeva c'era una scanalatura che dava verso l'interno rivestita in plastica nera, adibita al posizionamento delle penne, affinché non cadessero verso l'esterno. Nell'angolo in alto a destra del banco invece, c'era un buco circolare che a noi era utile per infilarci dentro le dita per far leva e sollevarlo quando eravamo interrogati e nervosi ma la funzione per cui era stato ideato era quella di posizionare al suo interno, incastrata, la boccetta con la china o l'inchiostro affinché non si rovesciasse; anche quella era una cicatrice dei tempi in cui non ci si intendeva molto di penne a sfera. Sotto il banco c'era un ripiano in compensato che fungeva da mensola e che periodicamente si riempiva di cose inutili (fogli per lo più) e che a fine anno dovevi portarti a casa. Ogni tanto ci si avventurava a fare pulizia là sotto, e vi assicuro che svuotarlo significava partire per una missione archeologica degna di Indiana Jones, con tanto di dardi avvelenati, enormi macigni che ti inseguono e passeggiate su tappeti di insetti.
Dovete sapere che alle elementari la mia maestra di materie scientifiche, una bellissima e brillante donna dalla carnagione abbronzata di nome Rosaria Re (ma che noi chiamavamo affettuosamente Rina), talvolta mi provocava una certa inquietudine. So che sembra assurdo, ma aveva un forte ascendente su di me. Fu proprio grazie a lei che partecipai attivamente ad una delle recite di fine anno più belle che ebbi mai fatto: una rappresentazione originale di una storia scritta da noi con il profetico titolo di: "La Quercia Magica". In quella recita (di cui ricordo poco) si parlava di un mago malvagio e di un gruppo di ragazzi coraggiosi che sfidarono la sorte, su indicazione di una strega, compiendo un viaggio attraverso un bosco fittissimo e oscuro per affrontare il mago e liberare il potere della Quercia Magica. Un'ispirazione oltremodo virgiliana, a rivederla adesso. Ben poco avrei potuto capire all'epoca di ciò che avrebbe significato in realtà in seguito, nella mia vita, quella recita. Riguardo a Rina ricordo che, come era costume negli anni ottanta, indossava ai polsi qualche dozzina di quei braccialetti larghi, di plastica dura semitrasparente, che vedreste addosso a Madonna se cercaste la copertina del suo primo album. Si era nel 1985, siori e siore. Sì, lo so, sono vecchio. Beh, quando Rina picchiava la mano sulla cattedra perché era arrabbiata, i braccialetti si rompevano e le partivano dei frammenti che volavano in tutte le direzioni, come le sfere d'acciaio di un'ananas a frammentazione. Non fraintendiamoci, è con immenso affetto e con il dolce sorriso sulle labbra che ho questi ricordi; io l'amavo sconfinatamente, come tutti in classe, del resto. E amavo in egual misura anche l'insegnante di materie umanistiche, Carmela Arcoraci, chiamata affettuosamente "Melina": una donna bassa, mascolina, con uno spiccato senso del potere del corpo, che aveva una figlia incredibilmente bella e irraggiungibile che andava al Liceo Artistico. Quello che provavo era quell'amore incondizionato che solo i bambini e gli animali posso provare e che poi, se coltivato, si trasforma nell'amore per chi ci lascia dei segni, delle tacche, delle incisioni a memoria del loro passaggio sulla stecca della nostra vita. E ripassarle con le dita ci fa ricordare quanto, avendone l'opportunità, quelle persone hanno deciso di credere in noi. Questo è indipendente dal tipo di insegnante che hai. Nel mio caso, come in quello di tutti, non ci scegliamo sempre i maestri da cui apprendiamo il vivere parti determinanti della nostra vita; ci capitano. In altri no, fortunatamente. Nella stregoneria e nella magia, ad esempio, ritengo che sia l'aspirante allievo che sceglie il potenziale maestro. E poi il maestro decide se desidera o meno prendere quella persona come allievo. Nonostante il mio amore, quando Rina e Melina, le mie maestre elementari, si arrabbiavano, l'istinto di conservazione imponeva di rintanarsi in qualche cartella, nascondersi dietro le gambe del banco, infilarsi dietro la lavagna se ci fosse stato possibile (in effetti era attaccata al muro). Sapevano essere feroci. Ma, né nei momenti difficili, né in quelli positivi (entrambi accentuati dalla nostra tenera età) hanno mai smesso per un momento di credere in noi, nelle nostre potenzialità, nelle nostre capacità e nelle nostre peculiarità, avvalorandole e stimandole. Ricordo ancora adesso che avevamo preparato dei fogli per scienze su cui avevamo attaccato diverse parti di piante. Era avvenuto in quella sala misteriosa che odorava di polvere, il luogo dove appresi le prime due parole greche della mia vita: "Bios" e "Logeia" e che stavano appese ad un cartello sopra una bacheca dove erano esposti animali in vitro sotto spirito. Una volta scienze era una cosa seria, mica come ora. Beh, durante una delle tante pulizie che facevamo e che coinvolgeva tutta la classe, trovai sotto il mio banco un foglio incompleto con pinzato un sacchettino di plastica trasparente per campioni al cui interno c'era una sezione vegetale, grande come un pollice; era il pezzo di corteccia di una quercia. Quel foglio era parte di un grosso lavoro di scienze dove esaminavamo le diverse parti delle piante: foglia, corteccia, fusto, frutto, seme, fiore, radici ecc. Immagino che sia inutile che vi dica che non doveva trovarsi lì, bensì al suo posto nel quaderno ad anelli assieme agli altri e che questo significava che non avevo compiuto il mio dovere. Ero chino sotto il banco nella ricerca e, incontrato il reperto, comprendendo subito cosa significasse, alzai lo sguardo sopra il ripiano per capire la situazione e le possibili vie di uscita e in fondo alla classe vidi Rina che mi fissava. Mi conosceva troppo bene per non intuire pienamente che cosa significasse quella luce nei miei occhi. Mi si gelò il sangue nelle vene. Se avesse scoperto che avevo dimenticato sotto il banco quel foglio, lasciandolo incompleto, per di più, la pena sarebbe stata esemplare. Nel mio immaginario non riuscivo a farmi venire in mente qualcosa di peggio. Avrei affrontato più volentieri una nuotata assieme a degli squali con montato un laser sul dorso, o dar da mangiare a delle spigole geneticamente modificate, o una sauna con Ciccio Bastardo! Ma non quello sguardo. Così infilai distrattamente il foglio nello zaino, cercando di farlo sparire con disinvoltura. Nessuna prova, nessun delitto, pensai. E mi andò bene. Sta di fatto che, Rina, se mai dovessi leggere queste righe, è giunto il momento che tu sappia che quel foglio l'ho nascosto alla chitichella. Era il 1986 e tre anni dopo ho dato gli esami di quinta come si deve senza averlo mai completato. Ciò nonostante il tuo sguardo è ancora su di me: pensa te che sono passati ventisette anni e ancora me lo ricordo. Dovevo confessartelo, era il momento: è andata così. Ora sono pronto a prendermi la sgridata che mi merito. Ma andiamo alla prossima tappa dell'evento collegato: ero a casa dei miei genitori e avevo otto anni. Ero seduto al tavolo in cucina e stavo giocando con i Masters (per chi sa cosa sono perché è figlio degli anni ottanta sappia questo: una volta al mare avevo perso tutti i cattivi perché dimenticati in un sacchetto in spiaggia; un pianto unico, ve lo spiego. Ci penso ancora quando gioco con mio figlio con quelli che mi rimangono - che sono arrivati a lui interi, conservati come cimeli - e quelli che gli ho ricomprato su ebay cercando di ricostruire la mia vecchia collezione). Dicevo, dalla finestra entrava la luce dell'estate imminente e io vivevo nella spensieratezza di quell'età dove il massimo della preoccupazione era quel dannato foglio di scienze con la corteccia di quercia intrappolato sotto il banco e la disonestà che mi sentivo addosso per averlo nascosto al singolo scopo di evitare una sgridata con conseguente volo di pezzi di braccialetti in giro per la classe. Quello che mi capitava intorno, in casa, era aleatorio, ovviamente. A quell'età se i tuoi genitori sono in gamba, molto di quello che succede ti sfugge. Ad esempio ero a conoscenza del fatto che mio fratello avesse un'amica, ma questa cosa mi aveva sempre preoccupato in modo molto pseudo-collaterale. Insomma, lo sapevo perché un giorno, sotto carnevale, mi aveva avvisato che l'avrebbe portata a casa nel pomeriggio quando i miei erano al lavoro, minacciandomi di atroci tormenti se li avessi disturbati anche solo mettendo piede fuori dalla cucina. Io, ubbidiente e per niente intenzionato a deluderlo, per l'occasione pensai che sarebbe stato consono indossare l'abito di Superman e, quando stava per andare, vestito di rosso e blu, apparvi dalla cucina spaventandola con il barattolo di senape che, una volta aperto, faceva schizzare fuori un serpente a molla. Ero emozionato, insomma, una ragazza in casa! Il massimo della vita sociale che mio fratello aveva condiviso con me fino a quel momento erano due amici delle superiori con cui condivideva la passione per il modellismo. Simpatici eh, niente da dire, ma una ragazza... volete mettere?
Quel giorno, dicevo, ero al tavolo a giocare. Entrò mio fratello in cucina e si sedette davanti alla tv. Aveva il viso rosso, tirato. Eh no, qualcosa non andava. Di sicuro non sarebbe stato necessario uno sguardo nel calderone pieno d'acqua per capirlo. Mia madre, con quella tremolante voce da magone che poi ho imparato a riconoscere avendola sentita sempre più spesso negli anni, gli chiese se poteva fare qualcosa. Era chiaramente affranta. Lo vidi mettersi le mani sul volto, con le dita a strizzare gli occhi e, mentre le lacrime scendevano copiose nonostante le nascondesse, cominciò a singhiozzare dicendo con voce rotta che no, non poteva fare niente, e che voleva essere lasciato in pace. La scena durò poco. Non so se lo fece per me, ma lui si alzò e se ne andò in salotto. Sentii la porta a soffietto chiudersi dietro di lui. Voleva stare da solo e io non lo disturbai. Qualcosa che, conoscendo bene mia madre, non doveva esserle ben chiara perché di sicuro non si diede per vinta e continuò a cercare di consolarlo. Non potevo immaginare come lo avrei capito da lì a dieci anni. Nemmeno un po', potevo immaginarlo. Io mi sentii raggelato a quella scena. Non avevo mai visto mio fratello piangere. Mi sentivo triste per lui, ma più che altro ero triste perché non riuscivo a capire il motivo del suo pianto. Ricordo che ero così triste che mi passò la voglia di giocare con i Masters. E lo capisco ora perché ero così triste. Ho potuto capirlo solo dopo che Morgan mi ha visto piangere per lunghi giorni e mi ha detto con quella vocina prossima al pianto: "Non puoi essere sempre triste, se no mi rattristo anche io". Piccolo cucciolo, tu sei la ragione delle mie battaglie. Sei il mio stimolo per essere forte. Sei il mio piccolo eroe.
Vedete, io e mio fratello abbiamo dodici anni di differenza. Credo sia ovvio e scontato che non fu solo un esempio per me, ma fu quella parte di padre che non ebbi. Lui andò a colmare come poteva quei vuoti interiori che sentivo e che nostro padre aveva lasciato dietro di sé per carattere, per enorme differenza generazionale con me, per motivi che non è corretto spiegare qui e che prima della fine dei suoi giorni dovrò affrontare con lui, se la dea me lo concederà. Questa cosa, nel tempo mi permise di amarli entrambi, ma in modo diverso, esattamente come se mi fosse stato concesso di avere due diversi padri. Quel giorno, in qualche modo, fu sradicata la mia quercia magica, quella della favola che avevo interpretato nella mia recita a scuola, e che serviva per redimere il mago: il portale della mia catabasi. L'invincibilità che avevo sempre visto in mio fratello fu spazzata via, come semi di tarassaco con un colpo di vento. Non che non avessi già visto dei nèi nella sua vita, dei difetti, degli errori, delle cose che mi facevano arrabbiare, che mi facevano sentire ferito, ma ai miei occhi era sempre rimasto un dio dorato, qualcosa di incrollabile, quel qualcuno che sarebbe stato sempre dieci passi avanti a me. Affianco a lui, quando camminavamo per la strada, mi sentivo immensamente forte, imbattibile, sempre pronto a qualsiasi traversia, a superare di slancio qualunque ostacolo, camminavo a mezzo metro da terra, sempre con lo sguardo verso l'alto a scrutare con estrema attenzione le sue espressioni per accertarmi che fosse un pochino fiero di me, anche solo un millesimo di quanto lo ero io di lui. Mi sentivo forte, ma sapevo che non avrei mai potuto raggiungerlo perché lui era quello con le gambe lunghe e io dovevo trotterellare per recuperare il suo passo e potergli stare vicino, dovevo fare salti mortali per assomigliargli anche solo un pochino e, sentendomi simile a lui, sentirmi anche io invincibile. Quel giorno, mettendo via i Masters nel cestino del dixan dove li riponevo, mi sentii come la sacerdotessa di Vesta a Roma durante le persecuzione quando, dopo che il console stesso abbatté la porta di quercia a colpi d'ascia perché nessun legionario aveva il coraggio di alzare una mano contro il tempio di Rea, assistette impotente allo smacco della nobile cristiana Serena che entrò nel tempio, spogliò la statua della dea del diadema sacro e lo indossò. Piansi perché mi sentivo defraudato dell'invincibilità. Piansi come pianse Sansone privato dei capelli. Piansi come pianse Cortés sotto l'albero di kapok dopo la noche triste nel 1520. Piansi senza in realtà sapere perché, in quel momento, stavo piangendo.
Come ogni caduta, ne consegue ovviamente non solo una risalita, ma un insegnamento. In quel momento mio fratello smise il mantello del dio dorato che io gli avevo posato sulle spalle e tornò, o divenne nel mio caso, un essere umano. Un essere umano che aveva il santo cazzo di diritto di venir ferito moralmente dagli eventi, di stare male, sentirsi triste e sopra ogni altra cosa più inaccettabile di questa, di piangere liberamente se si sentiva di farlo e se ne aveva voglia. Ora, ripensandoci, capisco che quell'abito da Superman che indossai per essere speciale per la sua ragazza era un modo, ai miei occhi, per essere degno del ruolo di fratello più piccolo del suo ragazzo. Dovevo essere la cosa più vicina ad un piccolo superuomo come lui per riuscire a piacere alla sua superdonna, per non deluderla, per non farlo sembrare meno di quello che io vedevo: un dio dorato. Io non capii subito perché mio fratello piangesse quella volta, vicino alla finestra, ma poco dopo partì per il militare. Cavalleria 6° 87 se non dico cagate. Dopo il giuramento a Casalmonferrato (dove, seduto sulle spalle di mio padre non capii un cazzo se non il colpo di fucile e un urlo incomprensibile che doveva essere tipo il "giuro"), la destinazione fu Palmanova, la città esoterica fortificata. Dalle lettere scritte a stilografica che ci mandava a casa capii che con la sua ragazza era finita. Cinzia l'aveva lasciato. Ecco perché piangeva quella volta, davanti alla finestra, mentre io giocavo con i Masters.
E che curiosa combinazione era quel nome. Cinzia è un epiteto della dea Artemide che significa: colei che è nata a Cinto. Una combinazione interessante anche perché era il nome della prima ragazza per la quale perdetti la testa, quando qualche anno dopo andai in prima media (lei era in terza).
Vent'anni dopo, uscendo da un locale per una boccata d'aria dopo aver suonato, beccai uno che conoscevo. Ci eravamo trovati assieme sul palco per un paio di songs alla Blues House, durante una session con Joe Valeriano, il grande bluesman. Era in piedi, da solo, fuori dall'Indian's Saloon. Fumava silenziosamente ma sul volto aveva un'espressione orrenda. Sapendo che si era sposato da tipo un anno con una donna che aveva una bambina, gli chiesi che stesse succedendo. Ho un certo fiuto per le persone che non stanno bene. "È per una donna?", gli chiesi, ma lui non mi rispose. In silenzio, vedendo il lacrimone che gli scendeva sulla guancia compresi perfettamente di aver centrato il segno. "È per una donna", commentai. "Solo le donne fanno piangere gli uomini a questo modo", asserii. Poi lo lasciai solo. Vedete, la gente piange sempre. Ma in modo silente i nostri genitori, i nostri amici, i film o i cartoni con cui siamo cresciuti ci hanno insegnato, come strascico dei tempi, che l'uomo non piange, perché piangere è da deboli. Il piangere lo lasciamo alle femmine. Noi uomini si stringe i denti con in mezzo la lingua. Noi si ha il pisello così duro che fa scintille. Noi si spacca le noci con la testa. Noi si beve petrolio e si piscia benzina. Noi si mangia pop corn e si caga pannocchie. Noi quando si è incazzati si spazza via la gente con peti tonanti dal culo. E ne abbiamo alcuni esempi, come Conan il barbaro, che quando la donna che amava è morta trafitta dalla freccia serpente era così fico che a piangere era il suo compagno e quando il mago gli ha chiesto perché piangeva lui rispose "Lui è Conan, il cimmero. Lui non piangerà. E così piango io per lui". O anche Chuck Norris ne è l'esempio e incarnazione: il giorno del suo compleanno, Gesù Bambino fa il presepe. E in questo traspare comunque l'onestà di ciò che siamo perché ce lo hanno insegnato, perché è così, perché non abbiamo conosciuto altro. Io lo chiamo l'archetipo di Superman. Ma poi, diventando uomo (perché maschio ci nasci (e piangi) ma uomo non è detto che lo diventi), ti rendi conto che nella ricerca dell'indurimento, generazione per generazione, abbiamo perduto per strada il coraggio. Il coraggio di essere uomini. Il coraggio di poter alzare il volto allo specchio e dire: "Sì, cazzo. Soffro. Sto di merda. E allora? Quando la gente sta di merda piange". Il coraggio di trovarsi di fronte a questa verità e non pensare di essere deboli, nemmeno se a farci piangere è una donna. Questo coraggio ce lo siamo dimenticati. Tremiamo dalla paura di fronte alle difficoltà e non tentiamo di scacciare la paura e affrontarle, bensì ci comportiamo come dei gradassi per nascondere la paura anche a noi stessi e a chi ci sta di fronte.
A volte ci domandiamo come si formi il nostro carattere. In un dialogo enorme, spaccato, lapidario, eccezionale, nel film Big Kahuna, Danny De Vito, agente vendite, lo spiega al novellino in una camera d'albergo buia e deserta mentre fuma sonoramente una sigaretta.
"Non hai carattere perché ancora non provi rammarico per qualcosa", asserisce Danny De Vito.
"Vuoi dire che non avrò carattere finché non avrò fatto qualcosa di cui mi rincresce?", risponde il novellino.
"No, Bob", risponde Danny con quegli occhi pieni di ricordi. Un'interpretazione da Oscar, con le pause abissali tra ogni periodo delle frasi che ti fanno capire che sono macigni quelli che sta riesaminando con la mente. "Perché di sicuro hai fatto tante cose di cui rincrescerti. Solo che non sai quali sono. È quando alla fine le scopri, quando vedi l'assurdità di qualcosa che hai fatto e desidereresti tornare indietro, cancellarla; ma sai di non potere, perché è troppo tardi. Quindi quella cosa non puoi che prenderla e portarla con te, perché ti ricordi che la vita va avanti. Il mondo girerà anche senza di te. Alla fine tu non conti. È allora che acquisterai il carattere, perché l'onestà emergerà da dentro di te e come un tatuaggio ti resterà impressa sulla faccia. Fino a quel giorno, in ogni caso, non ti puoi aspettare di arrivare oltre un certo punto".
Eccola lì. Pronti via. La verità. Ecco dove si forma il carattere. Capire i propri errori, sapere, avere piena coscienza, di non poterne più porre rimedio e fare del dolore dell'irrimediabile la forza e il coraggio di capire che siamo uomini, ammettere di fronte a chi abbiamo ferito quali sono i nostri errori e la forza e il coraggio di accettare che non siamo invincibili e di non aspettarci che gli altri lo siano, o quanto meno, non farlo se non vogliamo rimanere delusi il giorno in cui scopriremo la catartica verità: Superman era Superman anche senza il vestito. Come dice il fantomatico Bill ad una sedata Uma Thurman nel capolavoro di Tarantino: "l'elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter ego. Batman è di fatto Bruce Wayne, l'Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker. Deve mettersi un costume per diventare l'Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l'unico nel suo genere. Superman non diventa Superman. Superman è nato Superman. Quando Superman si sveglia al mattino è Superman. Il suo alter ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande S rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono. Sono quelli i suoi vestiti. Quello che indossa come Kent: gli occhiali e il suo abito da lavoro; quello è il suo costume. È il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso, è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana".
Di fronte a questo, vedete, ci troviamo in quei momenti in cui pensiamo che chiedere scusa sia la possibilità per ogni cosa. Non lo è, ma se ti ci ritrovi davanti e capisci che devi, bisogna farlo. Noi non possiamo essere né Superman, che è nato Superman e né dovremmo essere la critica che questo fa alla razza umana, quindi Clark Kent. Non possiamo essere quegli eroi immortali che fermano proiettili con le mani, che volano, che sparano raggi dagli occhi e che vedono ai raggi x. Ma non possiamo nemmeno vivere senza credere in noi stessi, senza un briciolo di forza e coraggio. Abbiamo la possibilità di essere forti e coraggiosi e dimostrarlo affrontando le difficoltà delle nostre vite e diventando così eroi per chi ci è vicino, anche se lo saremo solo per loro.
Ieri ad esempio sono stato ad un funerale. La defunta era una brava donna, una vicina di casa dove abito ora, ma che risiedeva nel cortile parallelo, quindi in quello dove si affacciano i miei balconi. Era una di quelle persone di cuore, semplici, che se hanno bisogno di dieci euro te li chiedono senza remore e te li ridanno senza doverli inseguire. Faceva la maestra elementare. Sotto Samhain dell'anno scorso, vedendo che insieme con Morgan avevamo messo fuori la nostra zucca intagliata, si è presentata con una candela che rappresentava un teschio e appollaiato sulla sua cima, un corvo che ne aveva appena strappato il bulbo oculare, che pendeva ancora dall'orbita. È stato un gesto simbolico molto dolce che lui ha apprezzato tantissimo. Tanto che è ancora in bella mostra in casa. Teresa era, vedete, una delle poche persone con cui ho legato un po' in questo palazzo dove abito da poco più di un paio d'anni. Nonostante io saluti tutti, anche se non conosco i loro nomi, in queste grandi città, piene di gente, basta pochissimo per sentirsi soli e abbandonati.
Teresa era malata di tumore e alla fine ha ceduto, dopo anni di lotte. Ma ogni volta che passava davanti al mio balcone mi sorrideva sempre salutandomi col mio nome. E sorrideva anche quando parlava di questo oscuro male che la stava mangiando viva. Non si lasciava intimidire, non si lasciava fottere dalla paura, dall'incomprensione, dall'insostenibilità. Dava un nome a ciò che era. Ok, alla fine ha vinto lui, o forse lei si è semplicemente stufata di giocare. Ma sono sicuro che sia stata una partita degna, perché lei non ha mollato. Anche se l'ultima volta che l'ho vista era consumata, proprio come una candela. Di lei mi rimane quel regalo, bellissimo, fatto a mio figlio proprio in prossimità del giorno dei morti.
Così, deciso di andare e partecipare alle esequie, ieri mi sono messo la giacca nera, quella che sta appesa nell'armadio per le occasioni speciali. Quando però ho visto passare davanti al balcone, in cortile, la gente con i fiori, mi sono sentito indeciso. Faceva un caldo infernale e così ho tolto la giacca e sono rimasto in camicia, sorseggiando coca cola e valutando che fare. Poi dalla finestra ho visto passare Cris, il mio vicino; aveva un volto spaccato dal pianto e vedendolo mi sono detto che glielo dovevo. Ma sai, Teresa, io ci sono venuto anche perché avevo bisogno di chiederti scusa per venerdì sera. Non potevo sapere che fossi tu. L'ho capito il giorno dopo quando con Heiden e Morgan, passando davanti al cancello diretti al parco a cercare erbe, ho visto che eri andata e ho collegato le due cose. Quando Morgan ha capito chi era morto l'ho sentito rammaricato... ma sai, non era... come dire... interrogativo o sperduto. Ha mostrato un'accettazione della morte che mi ha sorpreso. Credo che sia la prima volta che muore una persona che conosce; è stata una prova del nove, insomma. Davanti al cancello abbiamo incontrato una donna che, a quanto ho capito, andava a scuola con te e che, avendo visto che stavamo consultando il cartiglio che annunciava le esequie, ci ha chiesto se era qui che era morta Teresa e Morgan le ha detto: "Sai, mi ha regalato una candela una volta. Una bellissima candela con il teschio e il corvo sopra". A sentirlo mi ha fatto una tenerezza grande perché si ricordava di te come di qualcuno che gli aveva lasciato qualcosa cui lui teneva. Mi ha dato l'immagine dell'amore, nelle sue forme, che supera la morte. La sera Morgan mi ha fatto la fatidica domanda: "Ma Teresa quando torna alla Dea?". Ho capito con questa domanda che sei è ancora qui. Ti ho cercata ieri e ho sentito che, come è normale, vaghi in attesa del momento del passaggio, ma non sei venuta più da me, quindi ti ho indirizzata con una preghiera e il metodo che uso di solito, ma senza poterti accompagnare. Me la sono giocata male e mi dispiace. Ma non credo rimarrai indietro; eri pronta alla morte da un pezzo. Per quanto ci è possibile, ovviamente.
Quando ieri mi sono mosso per il corteo mi sono sentito molto fuori luogo. C'erano poche persone e credo fossero tutti parenti e amici e io in fin dei conti ero fuori posto. Forse non avrei nemmeno riconosciuto tuo marito o tuo figlio per fare le condoglianze, dal momento che ho parlato sempre e solo con te e ad un tratto non riuscivo a fare a meno di trovare ridicola questa cosa. Mi domandavo infine se seguire il corteo fino alla cerimonia fosse stata davvero una buona idea. È stato in quel momento che la dea mi è venuta in soccorso. E lo ha fatto, ovviamente, per darmi una lezione, un ulteriore tassello. Ero in quel momento in cui sbirci il telefono senza motivo, come si fa sempre quando si è in imbarazzo e si attende che qualcuno ci grazi mandandoci un sms, una chiamata senza impegno per distoglierci e ritardare il momento. Ma il telefono rimaneva muto. Stavo quasi considerando, attraversando la strada, di telefonare a qualcuno, così, senza motivo; usando una scusa qualsiasi per non sentirmi solo ed imbarazzato. La strada davanti era bloccata da dei coni arancioni a strisce bianche e da un furgone, un Cytroen Master bianco latte, rovinato e sporcato da schizzi di vernice gialla. Non che mi importasse poi molto in termini di viabilità, dato che ero a piedi, quindi dovevo andare sul marciapiede, ma per uno come me quelle cose hanno un preciso significato: qualcuno stava rifacendo la segnaletica stradale orizzontale; il mio vecchio lavoro da operaio. Ho così sorriso mentre procedevo, dolcificato dal ricordo. Il corteo era avanti. Andavano spediti, o forse ero io che mi attardavo? Come sempre mi capita ho gettato uno sguardo alle persone vestite di arancione con bande catarifrangenti, ma l'operaio che stava lavorando non lo riconobbi. Se non che, quello seduto sul marciapiede a farsi la pausa invece sì. Lo squadro, lui mi guarda. Sì è lui. Così lo chiamo, attraverso la strada e ci abbracciamo. Oh, ecco l'assurdità di vivere a Milano: in dodici anni puoi perdere di vista chiunque. È stato un momento intenso e abbiamo cominciato a raccontarci le vicende del passato. Io gli ho raccontato di Morgan, della mia vita, della separazione, del mio lavoro. È stato strano parlare con qualcuno che non sapeva nemmeno che avessi avuto un figlio, che si era perso quasi un terzo della mia vita. E lui mi ha raccontato dei miei vecchi colleghi, dei capi, mai cambiati e sempre stronzi. È stato così che ho saputo che quella ragazza che io, nella mia incoscienza giovanile, ho trattato come se fosse una pezza da piedi, si è infine sposata ed ha avuto due figli. Mi sono voltato e ho notato che il corteo si allontanava, verso quella chiesa dentro la quale non sarei comunque entrato e ho percepito proprio quella strana sensazione di presagio; era come se nel cordoglio della morte si insinuasse a spintoni la bellezza della vita, la gioia dell'esistenza. Era come se la dea avesse voluto farmi capire che chi è morto è andato, ma chi è vivo è ancora qui. Proprio come fiori tra l'asfalto, nei sogni in fondo al pianto. E così ho lasciato che il tuo corteo sfilasse, lontano, come un piccolo serpentello nero. Il seguirlo mi aveva permesso di sapere che una delle persone che ho amato e che ho ferito nella mia vita era sopravvissuta a questa ferita e che ci aveva costruito sopra una fortezza, aveva piantato melograni. E non solo per lasciarli ai propri figli, ma solo perché la vita vince sopra il chiedere scusa, sopra l'aver bisogno di avere qualcosa da farci perdonare.
Noi abbiamo questa mania di legare la metafisica all'assurdità. Kundera lo sostiene in un episodio divertente citato in un suo libro, che non so quanto possa essere reale. Parla del figlio di Stalin che è prigioniero in un campo di concentramento tedesco assieme a degli ufficiali inglesi con i quali deve condividere le latrine. Dopo un periodo di prigionia i britannici si lamentarono perché pare che Stalin lasciasse sempre il cesso sporco di merda. Glielo fecero notare. Si ripeté. Glielo rifecero notare e lo costrinsero a pulirle. La discussione degenerò in umiliazione e alla fine Stalin si rivolse all'ufficiale del campo che però non voleva sentir parlare di merda. Era un cazzo di ufficiale tedesco di un lager nazista, insomma. Un minimo di rispetto. Fu così che, secondo Kundera, piuttosto di sentirsi umiliato dagli inglesi perché sostenevano che non pulisse il cesso dopo esserci andato, il figlio di Stalin si scagliò contro il filo spinato del campo di prigionia e morì fulminato. E tutto questo, secondo lo scrittore, perché la vicinanza tra il dramma più eccelso e quello più infimo è metodica. Stalin era una persona importante, pari ad un dio. E lui era quindi l'esempio che poteva cambiare le cose, essere colui che perdona là dove il padre uccide. Se la dannazione e il privilegio sono la stessa identica cosa, se non esiste differenza tra il sublime e l'infimo, se il figlio di Dio può esser giudicato per della merda, l'esistenza umana perde le sue dimensioni e diventa insostenibilmente leggera. In quell'istante, il figlio di Stalin si lancia contro il filo spinato percorso dalla corrente elettrica, per gettarvi sopra il proprio corpo come sul piatto di una bilancia che sale pietosamente, sollevato dall'infinita leggerezza di un mondo che ha perso le sue dimensioni.
Il figlio di Stalin ha dato la sua vita per della merda. Ma morire per della merda non vuol dire morire senza un senso. I tedeschi che sacrificarono la loro vita per estendere più a oriente i territori del Reich, i russi che morirono perché la potenza del loro paese arrivasse più a occidente, loro sì che morirono per qualcosa di stupido e la loro morte è priva di senso e di validità generale. La morte del figlio di Stalin, invece, fu, nella generale stupidità della guerra, la sola morte metafisica.
Nell'assurdità della guerra, dei campi di prigionia, la merda di Stalin, secondo Kundera, era pura metafisica. E in fin dei conti io, perduto su quella strada a parlare con un vecchio collega marocchino che non vedevo da dodici anni, ho capito che la ricerca del bisogno di sentirsi perdonati da qualcuno a volte, può trasformarsi in una fame rabbiosa. E per di più capita quando nel nostro profondo, come dice sempre Kundera, forse non siamo capaci di amare proprio perché desideriamo essere amati, vale a dire vogliamo qualcosa (l'amore) dell'altro invece di avvicinarci a lui senza pretese e volere solo la sua semplice presenza. È questa metafisica dell'esistenza che ci pone poi di fronte alla crescita e la formazione del carattere. Sempre che, come Danny De Vito in Big Kahuna, siamo in grado di capire l'assurdità di alcune nostre azioni, il peso che hanno nel nostro svolgere, e in quello delle altre persone e accettiamo la sfida. Già perché in fin dei conti è di sfida che si parla. Sempre di sfida.
Non so in verità perché. Capita, insomma. Ogni volta che ci penso può avvenire solo una delle seguenti cose: o mi esplode la testa o mi viene in mente la favola zen. Dato che la mia testa, anche se non totalmente in senso metafisico, è ancora al suo posto, l'alternativa è pensare a quella parabola che ho sentito in quel tempio zen quando cercavo una posizione comoda su cui stare per non sentire urlare le gambe e cercavo di non pensare a niente, e che narra di quel tipo che scappa in una foresta inseguito da una tigre e che precipita in un dirupo che non nota perché occupato a fuggire e mentre cade si aggrappa ad una radice che spunta, accorgendosi, dopo aver sbirciato verso il basso, che scorre un fiume pieno di coccodrilli che non attendono altro che la sua presa si allenti. Bloccato quindi dalla difficoltà di decidersi tra l'essere pasto di una tigre o di alcuni coccodrilli, incredibilmente nota una piantina di fragole che spunta proprio a portata di mano e su cui c'è una singola fragola, enorme, invitante, rossa, bellissima. Così allunga la mano libera, la afferra, la mette in bocca, la mastica e si rende conto che quella è la fragola più dolce e buona che lui abbia mai mangiato nella sua vita. In realtà non sappiamo bene che fine faccia il tipo; la storia non lo dice. Ma il punto non è questo. La metafisica sta nella fragola. Di fronte all'inevitabilità, la cosa più scontata del mondo, quella più comune, quella che pensi di conoscere e di cui poter fare a meno diventa qualcosa di insostenibilmente meraviglioso. È il preoccuparsi dell'ora e dell'adesso, il gustarsi la fragola senza pensare ad altro che a quanto sia buona. È accettare la sfida, insomma.
In un'intervista che mi hanno fatto recentemente ci si è trovati a parlare di maestri, di insegnanti, di apprendimento. E, dato che io rimugino e rifletto per settimane sulle domande che mi fanno e sulle risposte che do, mi sono reso conto che l'insegnamento è un cardine della mia vita. Quando Morgan è andato a scuola quest'anno io ero emozionato come quando da bambino scartavo i regali. A settembre avevo preparato tutto ciò che gli serviva. Ero il cazzo di numero uno. Mi sembrava di essere tornato all'estasi dell'attesa per la sua nascita. Riguardavo e ricontrollavo tutta la fila di quegli oggetti nuovi con lo stupore e il desiderio dell'illibato che attende nell'uso la sua partecipe deflorazione. Mi sembrava di essere un astronauta che si prepara per il viaggio interstellare comunicando con la torre di controllo.
"Astuccio?"
"Riempito".
"Matite?"
"Go".
"Per dipingere una parete grande?"
"Ci vuole un pennello grande"
"Pennarelli?"
"Mille colori dell'arcobaleno, mille colori dei fiori".
"W la pappa?"
"Col pomodoro"
"Cartella dei Pokemon?"
"Preparata".
"C'è Gigi?"
"No"
"E la cremeria?"
"Certo. Venite su".
"Diario dei Gormiti?"
"Pronto".
"Se dico nutella tu cosa dici?"
"Che mondo sarebbe senza nutella".
"Quaderni?"
"Nuovi e fiammanti".
"Rock?".
"n Roll".
Ero prontissimo. Così pronto che praticamente a scuola ci sarei dovuto andare io. Se avessi potuto avrei fatto picchetto davanti ai cancelli per non perdermi nemmeno un momento. Se non che, a distruggere le mie aspettative, è stato davvero un anno difficile, sia per noi genitori che per Morgan stesso. Vuoi per via dei forti cambiamenti che ci sono stati nella sua vita, vuoi perché la dea ha voluto che si trovasse con una situazione docente abbastanza peculiare. Insomma una sfida difficile da vincere. In tutto questo potevo scegliere di arrabbiarmi, prenderla con filosofia, abbattermi, lasciar correre... c'erano tanti modi in cui potevo reagire. E io ho scelto di lottare.
I due insegnanti rispecchiavano curiosamente aspetti opposti: una era una stanca dittatrice fregata sulla pensione, una svogliata megera urlante che non mostrava desiderio di apprendere dai bambini ma con anni di esperienza; l'altro era un uomo giovane, musicista, anticonformista, innovativo, compagno di giochi, con un grande cuore, ma un po' troppo morbido e alla prima esperienza. Tra difficoltà, preoccupazioni, arrabbiature, riunioni di classe, consultazioni private tra genitori, riunioni di classe, incazzature, riunioni di famiglia, sgridate, punizioni, commenti via mail, consulti privati e riunioni di classe, arriva l'ultimo giorno. La recita e la festa della scuola è misera: e non per le straordinarie capacità dei piccoli artisti; semplicemente si notavano a vista le cicatrici lasciate dalle decisioni delle riforme sulla scuola pubblica. E anche lì, ecco che la Dea vuole mandarmi il messaggio: Morgan, assieme ad altri bambini in classi miste, inscena la breve ma significativa storia di una quercia che nel bosco viene colpita al tronco da dei boscaioli che la vogliono abbattere. Con l'aiuto di alcuni amici animali li scaccia riuscendo in qualche modo a resistere, a non mollare, e così nel tempo a guarire dalle ferite e diventare più forte. Quelle parole mi colpirono, proprio come fossero un'ascia sul mio tronco: "guarì e divenne più forte". Tornato a casa con lui riflettemmo assieme sul bellissimo significato di quella storia e così decisi che la dea era d'accordo con me su ciò che avevo da dire al suo maestro che l'anno prossimo non sarà con lui. È stato una persona di riferimento per mio figlio, come tutti gli insegnanti dovrebbero essere, e io sono sicuro che Morgan non lo dimenticherà come io non ho dimenticato i miei, perché hanno lasciato un aspetto, un segno positivo nella mia vita. Ma nella sua condotta trovavo giusto mostrargli qualcosa su cui si meritava un rimprovero: non era stato capace di essere come la quercia della favola. Quando nel corso dell'anno si è trovato di fronte alla difficoltà di avere a che fare con una collega che non gli dava spazio di azione, invece che impuntarsi, ha pian piano smesso di lottare. Così, dopo la recita, spronato anche dalla profetica storia che avevo sentito, lo presi in disparte e gli regalai il mio libro, spiegandogli in una lettera che l'accompagnava che avevo atteso oltre dieci anni per pubblicarlo perché non credevo che sarebbe stato possibile e che averlo in mano mi ha fatto capire che l'impossibile, talvolta, è solo un punto di vista. Gli scrissi che la prossima volta (ossia l'anno prossimo in un'altra scuola e in un'altra classe) in cui si sarebbe trovato di fronte ad una sfida nella sua vita, non avrebbe dovuto arrendersi senza lottare. Non sempre ci è concesso conoscere l'effetto che la nostra scelta di non accogliere le sfide che la vita ci mette di fronte può avere sulle persone e gli eventi ad essa collegati. Dopotutto, come dice Arawn a Pwyll nel primo ramo del Mabinogi: la lama deve essere temprata prima di affrontare la battaglia. In quel caso si parlava dell'esperienza scolastica dei nostri figli e se agli altri genitori poteva non interessare, beh... a me pareva un po' ingiusto che un insegnante adulto si tirasse indietro dal fare ciò che si è sentito chiamare a fare: partecipare all'educazione sulla vita di bambini di prima elementare. Insegnare, come guarire, non è un lavoro, è una missione. Il suo "raccogliere il guanto della sfida" poteva aveva un'enorme importanza e poteva avere un peso altrettanto grande. Mentre glielo consegnavo e mi sentivo ringraziare, dentro riflettevo sulla storia di Morgan sulla quercia che non si spezza ma che resiste, poi riflettevo sulla mia quercia magica, quella per la quale avevo recitato in quarta elementare, riflettevo su come quella quercia era diventata per me il simbolo del resistere che si presentava in momenti diversi della mia vita, il simbolo del coraggio mancato, rappresentato dal foglio sotto il banco, ma anche il simbolo del non lasciare che niente la abbattesse, anche se il tempo, gli eventi, il potere superiore la cambiavano, come poteva essere stato per quel momento in cui vidi mio fratello che piangeva per Cinzia (colei che veniva da Cinto, figlia di Zeus) che l'aveva lasciato e anche alla mia Cinzia, che in prima media, sapendo che ero innamorato di lei, mi aveva rifiutato a priori senza che le avessi chiesto niente altro che poter respirare vedendola ogni giorno per un anno a scuola, perché avevamo due anni di differenza, che in quel periodo erano un baratro. E così, da buona strega ricercatrice, ripensai a Luce che, di ritorno dal suo viaggio in Grecia, alla mia richiesta di ricevere in dono un'effige di una divinità maschile, mi portò una piccola statuetta di Zeus (cui ovviamente è sacra la quercia ed è padre di Artemide la cynthia) e di come questa scelta mi sorprese. Non sapevo che aspettarmi ma Zeus proprio no. E così ripensai al Bardo, (devoto ad Apollo, anche lui cynthio per ovvie ragioni) che, un anno prima di accettare di iniziarmi, mi spiegò il suo punto di vista sul perché Luce avesse scelto proprio Zeus (e che non era di sicuro per la sua nota poca attitudine monogamica). Nel vortice di pensieri, ripensai al grande dono che ho chiesto a mio padre: un bassorilievo in legno che rappresenta il volto pieno di foglie del Green Man, in versione Re Quercia. "È l'ultimo che faccio", mi ha detto quando me l'ha consegnato, e ora sta lì, appeso in bella mostra sopra il divano, e così ripensai a come si sostenga che in una quercia ad un'esatta massa di rami si abbia un'equivalente massa di radici, al suo fiorire proprio ora, al solstizio d'estate e rimanere spoglia a Yule, lasciando che il vischio tra le sue chiome, perennemente verde, richiami la vita e la luce facendo bacche biancastre proprio quando la quercia pare morire, e ripensai al saggio ddrwydd, che mi spiegò come il principio Isa del tronco, l'Io, rappresenti il potere che sta nel mezzo tra il regno spirituale e quello materiale e così infine ripensai alle due rune che pescai per la prima volta nella mia vita: Laguz e Isa e a come per combinazione la runa che ho pescato durante gli ultimi due Samhain fosse Eihwaz, che rappresenta le due laguz una sopra l'altra a richiamare la tavola smeraldina del tre volte saggio. Sì, è proprio vero, mi dissi alla fine dei miei pensieri. Era ora di andare ormai. È vero senza errore, è certo e verissimo. Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare il miracolo di una cosa sola. Forse è tutto collegato, ancora una volta. Mannaggia a te che lasci briciole nel corso di trent'anni e sta me metterle insieme a farne un cazzo di panino.
E così, quando ieri sono tornato a casa dal funerale con esequie mancate, mi è tornato in mente Kundera e quel passo che racconta di quando Tomáš avvisò il direttore della clinica a Zurigo, dove lavorava come chirurgo, che si dimetteva dato che doveva tornare a vivere a Praga perché la donna che amava lo aveva lasciato per tornare in Repubblica Ceca. Una confidenza, quella del motivo, che al direttore svizzero non fece, forse perché voleva apparire come uno di quegli uomini tutti di un pezzo, di quelli che usano il Denim Musk, che quando la sensuale mano dalle unghie smaltate rosse di una donna misteriosa in modo troppo invadente si infila tra i bottoni della camicia di jeans, loro la fermano con un colpo della loro presa possente perché loro non devono chiedere mai. In verità Kundera non lo spiega a vere parole, ma semplicemente Tomáš si strinse nelle spalle e citò l'ultimo movimento dell'ultimo quartetto di Beethoven: "Es muss sein. Es muss sein", ossia. "Così deve essere". Il direttore, grande patito di musica, colse l'allusione. Se fosse capitata a me una cosa come questa (come del resto mi capita spesso), la risposta sarebbe stata uno sguardo perso e vagamente interrogativo, come un vano aggrapparsi ad invisibili ringhiere per non precipitare nell'abisso dell'ignoranza constatata e priva di ragionevole dubbio. A Tomáš andò romanzescamente in modo egregio: "L'allusione era più a proposito di quanto lui immaginasse, perché il direttore era un grande amante della musica. Con un sorriso sereno, disse piano, imitando la melodia di Beethoven: "Muss es sein?". Tomáš disse ancora una volta: "Ja, es muss sein".
Sì, così deve essere. Ed è forse un caso che io abbia tirato le somme ora, al solstizio, quando tu, mio caro Re Quercia (anche se ad adesso non so ancora chi ti interpreterà), stai per lasciare questo regno ormai alla fine a tuo fratello e rivale e stai cominciando a prepararti a veder cadere la tua corona irta di foglie lobate per le quali ho versato sangue? È così che deve essere?
Ja, es muss sein.