The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Lughnasadh 2016

Lughnasadh 2016

Don't Panic

Quando lessi di Zaphod Beeblebrox per la prima volta, devo ammettere che mi stette davvero antipatico. A quei tempi la Guida Galattica per Autostoppisti era un libro di culto pressoché introvabile, anche se l'autore era ancora in vita. Fortunatamente nel corso del tempo è stato ristampato, per quanto la traduzione non sia eccelsa, ed ora quel capolavoro assoluto in cinque libri è disponibile alle nuove generazioni. Perché alcune opere possiedono davvero il diritto umano e artistico di essere annoverate tra i capolavori evergreen. E tra queste di sicuro non si possono contare le storie che parlano di vampiri che splendono al sole. E non è tanto per l'umorismo che, diciamocelo, già di suo è meraviglioso. Quei libri sono dei capolavori perché sono genuini e non costruiti. Fanno ridere perché dono divertenti, non perché lo pretendono.
Non avendo a disposizione il primo libro della saga, mi sono visto costretto a cominciare dal secondo e dalla storia dei Jatravartid di Viltvordle VI, le creature da cinquanta braccia note per essere le uniche ad aver inventato il deodorante per ascelle prima della ruota. Ad ogni modo mi sono sempre chiesto se lo scopo di Adams nei confronti di uno dei personaggi principali dei suoi libri fosse davvero quello di renderlo così irritante; o se stesse sulle palle solo a me. In effetti Zaphod mi risulta antipatico ancora adesso. Certo, ho avuto anni per apprezzare quei libri e alla fine sono stato fortunato a trovarne un'edizione vecchissima e con la traduzione originale, fatta dei termini mondadoriani che tutti conosciamo. Nel 2004 ho anche avuto modo di vedere il film che è stato tratto dalla trilogia in cinque libri, rimanendone deluso. Ma nonostante tutto questo, Zaphod ha continuato a starmi in bilico sui genitali quanto la scimmia ballerina di Remì, il bambino sfigato dei cartoni anni '80.
Ho anche ben chiaro nella mente il momento in cui Zaphod cominciò a starmi davvero sulle palle. Si trovava sul Mondo B di Ranonia, infestato da scarpe, ed era diretto verso il Vortice di Prospettiva Totale. Anzi, diciamo che fu quando ci uscì che davvero lo capii. Sì perché come ci faceva notare Douglas Adams, l'universo è un posto dannatamente grande, cosa che, per amore di un'esistenza quieta, la maggior parte della gente finge di non sapere. Il Vortice aveva la capacità di metterti di fronte a questa verità: ossia che non sei nulla se non in rapporto a te stesso e alla prospettiva di quel poco di vita che vivi. E lo faceva grazie ad una torta di mele. Sì beh, lasciamo stare la genialità dell'idea e la sua applicazione funzionale e scientifica, perché si tratta di semplice, pura, indiscutibile arte e poesia e come tale si può solo apprezzare, ma non si può giustificare o analizzare. A meno di voler, ovviamente, ritenere, come il Professor Nolan, che il saggio di Preacher dal titolo "Comprendere la Poesia" sia ottimo.
La prima volta che lessi quelle righe, ovviamente ne fui divertito. Poi quando le rilessi le altre due volte, nel corso degli anni, capii a pezzettini qualcosa in più del senso che vi era celato dietro, o almeno in quello che io riuscivo a cogliere e Zaphod cominciò a starmi sulla palle sempre di più proprio per il fatto che, anche se nella storia poi si giustificò questo evento, lui era sopravvissuto all'esperienza del Vortice di Prospettiva Totale perché era risultato essere la persona più importante dell'intero universo; pertanto paragonarsi prospettivamente ad esso non era questa grandissima difficoltà.
A parte il fatto che se Spiderman mi ha insegnato qualcosa è che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, quello che mi irritava di Zaphod era proprio il suo scrollare le spalle di fronte a questa verità. Se io fossi l'uomo più importante dell'universo probabilmente morirei istantaneamente. Lui non solo uscì indenne dal Vortice dichiarando che sapeva già da tempo di essere ciò che aveva scoperto di essere, ma si mangiò anche la fetta di torta di mele che il suo inventore aveva piazzato proprio a scopo di prospettiva universale. E per far dispetto a sua moglie. Già.
In fin dei conti, ci verrebbe da pensare, nessuno di noi potrebbe mai riflettere sulla propria importanza a livello universale. Forse un capo di stato di una nazione particolarmente grande e potente potrebbe avere una certa influenza nella sua importanza a livello mondiale, ma in linea di massima solo da un punto di vista umano, a meno che non causi volontariamente una crisi climatica globale. Ma anche così, alla fine è sempre e comunque una questione di prospettiva. Anche un contadino potrebbe influenzare l'economia mondiale e quindi l'esperienza della vita di migliaia di persone. E infatti alla fine Zaphod sopravvisse al Vortice di Prospettiva Totale solo perché era entrato in un universo personale dove, per ovvie ragioni, era la persona più importante.
Nel tempo che ho vissuto finora, volente o nolente ho dovuto imparare a mie spese il concetto relativo dell'importanza che rivestiamo. Non credo di riuscire a ricordare esattamente quando ho capito che in fin dei conti nel piccolo come nel grande quello che conta è come disponiamo del tempo che ci rimane. So solo che un giorno l'ho capito. Un giorno tante cose che mi erano poco chiare quando ero giovane ed inesperto mi sono divenute ad un tratto familiari. E non è stato qualcosa che si è impadronito di me in un istante, come la sensazione di completo disorientamento della prima volta che ci si innamora e a cui comunque non riusciamo a porre un inizio perché è qualcosa che si manifesta sotto forme differenti, più o meno concrete. È stata una consapevolezza che è cresciuta alla chitichella. E dopo che si è agganciata a me non ha più mollato la presa. In un dato periodo ha cominciato a far germogliare l'insano desiderio di elargire consigli, che come dice Big Kahuna sono una forma di nostalgia e bisogna essere cauti nell'accettarli ma pazienti con chi li dispensa. In parte so che è stato perché alcuni pesi della mia vita mi parevano meno grevi da portare se in qualche modo avessi avuto la sensazione di aiutare altre persone a non commettere errori; in parte invece era solo protagonismo. Ma riesco a riconoscerlo ora. E ancora adesso devo mordermi la lingua a volte per non dare consigli.
Perché poi alcune cose finiscono nel modo in cui devono andare e le persone se le vivono così come sono. E non possono sapere come sarebbe diverso evitare di commettere degli errori madornali e tu puoi stare solo a guardare. E quelle sono le stagioni del cuore, che giungono e passano e tornano ancora. E noi a volte non possiamo fare altro che rapportarci a loro in modo autonomo; magari paragonarci al loro scorrere e stare ad osservarle senza poter interagire veramente. Noi tutti vorremmo che alcune situazioni funzionino nel modo in cui speriamo; anche solo per prospettiva. Pensiamo a volte che basti attendere, valutare, lasciar correre senza fare nulla. Viverla passivamente. Ci caschiamo spesso in questa fregatura; ma non funziona quasi mai.
Ma noi siamo importanti per noi stessi. E se perdessimo del tempo ad investire su questa importanza capiremmo che il modo in cui il mondo ci percepisce è in larga misura correlato al modo in cui percepiamo noi stessi. So che un tempo avrei preso le cose con molta più diplomazia. Sarei stato in grado di evitare di dire alcune cose che inevitabilmente pensavo. Pertanto se trovavo una persona che si comportava da idiota e apparentemente sembrava un idiota capitava a volte che mi lasciassi ingannare e pensavo che non fosse veramente un idiota. Ma sono invecchiato, ahimé, anche io e ora mi rendo conto che faccio molta più fatica a lasciar correre. Se una persona si comporta da idiota, parla come un idiota e apparentemente sembra un idiota, io la tratto da idiota. Questo, ovviamente, a volte può risultare offensivo, ma nel corso degli anni sono giunto alla conclusione che molte persone si comportano in modo non perfettamente allineato con la loro natura e io sento di non avere più voglia di perdere tempo a cercare di capire perché qualcuno debba pensare che fare di tutto per sembrare stupido sia una cosa intelligente. E che soprattutto sia una novità. Pertanto io tratto le persone nella misura in cui si comportano con me. Se ho a che fare con un bambino lo tratto da bambino. Se ho a che fare con un adulto lo tratto da adulto. Se ho a che fare con un adulto che si comporta da bambino lo tratto come un idiota. Perché di fatto è ciò che una persona vuole apparire. È sempre una sua scelta. Noi scegliamo con che prospettiva entrare nel Vortice e compararci con l'universo. Perché di fronte all'assoluto, nessuno è al sicuro. Ma di fronte all'assoluto non esiste prospettiva.
Il Professore Emerito di Storia Economica a Berkeley, tal Carlo Cipolla, ha sviluppato un'interessante teoria, secondo la quale la stupidità è umana, ma lo è ancora di più il sottovalutare la potenzialità dannosa che la stupidità ha nei confronti dell'intera società. Secondo Cipolla la presenza di uno stupido è sempre sottovalutata in misura della sua dannosità. Se penso a Donald Trump capisco che questa cosa ha un grande e tristissimo senso. Eccome se ce l'ha. Ma personalmente quello che trovo più stupido in assoluto è proprio il dare importanza alle persone che sono oggettivamente idiote o non riconoscere le cose stupide che abbiamo fatto nella nostra vita. Ovvio, le abbiamo fatte, e nella nostra concezione temporale non possiamo porne rimedio, ma capire quali sono dovrebbe concederci il privilegio di non commettere due volte lo stesso errore. Eppure noi incappiamo sempre nelle stesse cazzo di pozzanghere.
C'è stato un tempo in cui pensavo che fosse la paura a ridurci così impotenti di fronte all'inevitabilità del ripetersi di alcune situazioni che proprio non riusciamo ad imparare. Ma poi ho avuto modo di vedere che la paura è spesso il ricettacolo di tutte le colpe che in realtà richiedono un intervento di responsabilizzazione; soprattutto perché in alcuni termini è apparentemente irrazionale. Allora ho pensato e ipotizzato che il ripetersi continuo di eventi che ci inducono a commettere gli stessi, identici errori, fosse dovuto ad un principio di improbabilità legato alla nostra incapacità di vedere la globale complessità del nostro esistere nel qui e nell'ora, cercando di essere più di ciò che ci è concesso o che ci concediamo, o che sappiamo di poter essere. Ma poi, nel tempo, ho visto che molte persone tendevano ad incolpare, in questo modo, agenti esterni come il destino, volontà pseudo divine, se non i genitori e le loro decisioni, a volte anche prenatali, e così facendo si tendeva ad escludere ancora una volta il ruolo cardine che noi abbiamo nella nostra stessa vita: ossia che porcaccia la misera, ma abbiamo scelto, sia a livello metafisico che razionale, di trovarci di fronte ad un medesimo errore più volte ed in modo indipendente dalla scelta dei diversi agenti esterni: teologici o meno che siano. Così ho capito che spesso le persone tendono a perdere così tanto tempo a fingere di essere ciò che non sono e a dimenticarsi che essere felici e realizzati è un diritto imprescindibile per il quale dovremmo combattere con ogni fiato che abbiamo in petto quanto meno dal momento in cui cominciamo a ragionare in modo indipendente. E spesso lo fanno perché tendono ad esternalizzare la propria felicità nella realizzazione degli altri, dimenticando che in fin dei conti un figlio felice è felice quando un genitore è felice; pertanto riuscire ad essere felici permette anche a chi ci è vicino di beneficiare della nostra felicità. E questa è una cosa assolutamente correlazionata e multidirezionale. Ma in fin dei conti non ero forse io che durante un viaggio sulla 56, che partiva da Via Padova per portarmi fino a Cimiano dove andavo a scuola, lessi una scritta su uno zaino di una ragazza in carne, dai capelli neri che probabilmente frequentava l'istituto Natta, e che recitava: "La vita è come uno specchio: sorride se tu sorridi" e la trascrissi sulla mia Smemoranda durante l'ora di Inglese? Era in fin dei conti il 1994. Non ne capivo molto di sociologia, di filosofia, antropologia, psicologia ma l'emozionalità, nel mio animo adolescenziale, era qualcosa con cui facevo i conti ogni giorno nei suoi tratti di bipolarità. Ma nel tempo ho constatato che, per quanto fosse un dato di fatto che la visione cristiana del senso di colpa e dell'annullamento attraverso gli altri fosse un dogma apparentemente illuminante, in realtà era ancora una volta più e più volte un dominio dell'Ego. E come tale annullava il principio orizzontale semi altruistico su cui avrebbe dovuto muoversi. Un po' come se facessi beneficienza per delle tribù in Africa e poi andassi dai bambini che ho contribuito a vestire dicendo: "We pirletta, chi credi che te li abbia dati i soldi per la magliettina che indossi?".
Pertanto, alla luce di anni di riflessioni sono giunto a considerare e sposare una filosofia secondo cui le persone, in una stragrande maggioranza dei casi commette gli stessi errori, lotta contro se stessa, si falcia le gambe, si autoinfligge inutili punizioni psicologiche perché rispetta, di fatto, la teoria di Carlo Cipolla sulla stupidità: e non riconosce di aver fatto cose stupide nella propria vita, cercando così di sollevarsi, ma continua a ricadere nelle stesse idiote convinzioni. Magari aspettando che qualcun altro gli risolva i problemi. Problemi che, per quello che ho potuto constatare nella mia vita attuale, punteggiano il corso della nostra esistenza animica su un'asse immensamente lunga che si snoda lungo decine di migliaia di anni. Ma noi abbiamo la testa dannatamente dura. Così dura che non riusciamo a comprendere anche le cose più semplici e banali e dobbiamo provarle e riprovarle ogni singola volta, in decine di occasioni, senza riuscire a capire il basilare insegnamento che vi è alle spalle. E nemmeno così tanto celato. Un po' come quando devo fare i conti dei soldi.
Insomma, se una persona decide di capire a che livello è reputata la sua importanza su scala globale, parliamo ad esempio nel mondo, deve anche fare i conti con l'influenza che il suo grado di stupidità potrebbe porre su chi guarda a quella persona come ad un esempio, un leader, una meta. Ma di questo nessuno si preoccupa, perché vediamo il raggiungimento dell'importanza come un traguardo da cui guardare secondo un punto diverso; come una metamorfosi per innalzarci verso uno status alternativo a quello che rifiutiamo: come Madonna che per realizzare il suo obbiettivo di diventare famosa ad ogni costo fece l'autostop sull'autostrada indossando solo un paio di scarpe e una borsetta nera.
Ma l'importanza è concettualizzata sulla base di ciò che noi pensiamo di conoscere e soprattutto valutata secondo canoni che non hanno, davvero, alcun senso compiuto, nei termini finiti della vita; se non relativi all'espansione del nostro ego. Il che, a dirla tutta, non è nemmeno sto gran male. Purché si sappia discernere questa verità da quelle che tendiamo a non voler vedere: ossia che agiamo per noi stessi. Pertanto quando lessi di Zaphod e della sua esperienza nel Vortice di Prospettiva Totale, io lo odiai ancora di più. E non fu solo perché io sarei certamente rimasto schiacciato di fronte a quella fetta di torta, ma perché la sua tracotanza era irritante in modo imprescindibile dal fatto che fosse o meno la persona più importante dell'intero universo: lui non aveva uno scopo reale davanti a cui confrontarsi se non quello di essere, a prescindere, la persona più importante dell'universo. Perché, alla fine dei giorni, nel piccolo come nel grande, conta davvero la nostra presunta importanza nel mondo? Io credo di no. Quello che conta è l'esperienza che noi sappiamo cogliere dagli eventi della nostra vita. In termini umani è più importante quello che riusciamo a portarci dietro che quello che lasciamo. Perché ciò che lasciamo, che siano idee, castelli, opinioni, canzoni, libri scritti, saranno patrimonio di chi rimarrà e su di loro peserà sempre l'ardua sentenza di decidere cosa farne. E potrebbero bruciare i libri e abbattere i templi come già più volte hanno fatto, lasciando solo la polvere e la cenere, e comunque andare oltre e riscoprire ciò che è stato apparentemente dimenticato. E con loro anche i nostri nomi, o le nostre gesta e i nostri stessi volti andranno perduti perché le persone devono avere un motivo utile e valido per se stessi per stare al mondo e crescere ed evolversi. E poi cosa significa essere importanti? Da un punto di vista globale può essere, sopra ogni altra cosa, poter esprimere il proprio presunto potere sulla vita e sulla morte di milioni di persone al mondo. Ma alla fine non è assurdo che ci si ricordi di chi ha comandato la morte di migliaia di persone come Adolph Hitler, Vladimir Lenin, Iosif Stalin, Nicolae Ceaușescu, Napoleone Bonaparte ecc. Ma nessuno reputa importante ricordare di chi invece evitò che milioni, se non miliardi, di persone morissero; ad esempio Stanislav Evgrafovič Petrov. Nessuno sa chi è. Eppure è la persona che reputerei più importante della storia dell'umanità moderna perché fu colui che, grazie ad una razionalità e un coraggio non indifferente, si frappose da solo e con immenso successo, contro l'incredibile realtà di una guerra atomica il 26 settembre 1983, in pieno periodo di altissima tensione tra USA e URSS. E lo fece, semplicemente, decidendo di non obbedire agli ordini. Egli, infatti, si trovava nella camera dei bottoni in Unione Sovietica. Gli ordini che aveva dal Kremlino erano molto precisi: se il computer avesse segnalato un attacco nucleare da parte degli Stati Uniti sotto forma dell'invio di missili recanti testate atomiche, lui avrebbe immediatamente dovuto premere un pulsante per rispondere all'attacco. Quel giorno il computer segnalò l'ingiungere di un missile atomico, e poi un altro e un altro e un altro e un altro ancora. Ma lui si rifiutò di premere il pulsante perché rifletté che doveva esserci stato un errore di calcolo e che fossero falsi allarmi. Nessuna nazione avrebbe attaccato con solo cinque missili. Rischiava la fucilazione per insubordinazione, ma non premette quel pulsante.
E cazzo, aveva ragione. Furono cinque falsi allarmi.
Io avevo cinque anni e, incosapevole, stavo celebrando il compleanno di mio fratello, che compiva diciassette anni, bigiava a scuola ed era il mio grande idolo immortale. Frequentavo l'ultimo anno di scuola materna, portavo quelle camicie odiose che mio padre mi faceva indossare e che avrei voentieri fatto saltare in aria come l'incredibile Hulk, la mia R era molto più pronunciata ed ero innamorato di una compagna che si chiamava Serena Coletti, ma che amava il mio migliore amico: Marco Di Bella, il quale le regalò anche un anello di fidanzamento. E noi eravamo amici perché correvamo alla stessa velocità e disegnavamo entrambi molto bene. Non portai mai rancore per quel loro amore. L'ho sempre presa con una certa filosofia. Quando ero a casa io giocavo sempre con i Masters. Di lì a due anni li avrei dimenticati in spiaggia al mare, facendomeli fregare tutti quanti e avrei pianto ettoliti di lacrime su quella perdita enorme. Alle quattro vedevo sempre Bim Bum Bam, dove Paolo Bonolis era ancora simpatico e Licia Colò era bellissima. Se Petrov avesse obbedito agli ordini, probabilmente tutta la mia vita, e la vostra e quella di miliardi di persone con noi sarebbe stata diversa. E ok, non avrei perduto i Masters, perché magari avrei dovuto preoccuparmi di altro. Sempre se fossi sopravvissuto. E ok, con un po' di fortuna non ci sarebbero stati Max Pezzali, Matteo Salvini e Gigi D'Alessio e, magari nemmeno Justin Bieber o le Spice Girls; magari non avrei dovuto sopportarmi le paranoie della mia professoressa di Educazione Artistica delle superiori che non coadiuvava bene la sua sindrome aornica con la sua possibile omosessualità, non avrei magari dovuto mangiare della gran merda per cercare di farmi accettare dei miei suoceri per quello che ero, ma per molti altri aspetti la mia vita sarebbe stata davvero infelice. Forse sarei morto prima di diventare abbastanza grande da avere il coraggio di baciare una ragazza, non avrei mai studiato esoterismo, non avrei mai tenuto tra le braccia mio figlio, non avrei mai avuto la possibilità di trovare qualcuno che è capace di farmi sentire davvero vulnerabile e che per questo merita tutto l'amore che posso dare. In termini universali, umani, mondiali questo è essere davvero la persona più importante, perché concede ad altri una possibilità di essere, di esistere, di amare, di scegliere un modo di morire. Forse alcune di queste cose mi sarebbero mancate, ammesso che avrei avuto modo di conoscerle. Percui, cazzo. Grazie Stanislav. Grazie.
Mi piace pensare che, nella sua analoga situazione, avrei saputo mantenere l'esatto sangue freddo, il medesimo raziocinio; la capacità di capire l'immensa differenza tra ciò che doveva fare e ciò che era giusto fare. E saper anche prendere la decisione più saggia. Ma siamo onesti, mi sarei cagato addosso. Il peso del mondo sarebbe stato troppo terribile da sostenere, non avrei avuto le spalle abbastanza larghe. E forse non le avrebbe avute nemmeno Jack Burton. Pertanto, Zaphod, a mio avviso sei e rimani un supponente, un arrogante e un esteta, ma inconfondibilmete un coglione. E a dirla tutta Petrov ha una testa e due braccia soltanto, mentre tu hai una testa e un braccio in più, ma questo non è che ti abbia aiutato poi molto. Pertanto Zaphod Beeblebrox 0, Stanislav Petrov 99999. And the winner is...