Ero una piccola creatura nel cuore
Prima di incontrarti,
Niente entrava e usciva facilmente da me;
Eppure quando hai pronunciato il mio nome
Sono stata liberata, come il mondo.
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti.
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri.
Stupidamente sono scappata da te;
Ho cercato in ogni angolo un riparo.
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito.
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto.
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto.
Restituendomi
Al tuo abbraccio.
Mary-Elizabeth Bowen
Oestara 2016
Un mattino, ci si sveglia. È il momento di ritirarsi dal mondo, per sbalordirsene. Un mattino, si prende il tempo per guardarsi vivere.
Ci sono giorni. Sono giorni.
Giorni in cui vorresti avere una scusa per non smettere di ridere. Giorni in cui pensi che l'arte duri solo dieci anni. Giorni in cui vedi i progressi degli altri ma rimani deluso delle loro scelte e pensi che sia ingiusto esserlo. Giorni in cui vorresti dare una festa per la prima volta nella tua vita solo per vedere quali sono le scuse per non venirci. Giorni in cui devi sforzarti per non tenere le braccia incrociate sul petto. Giorni in cui sei come uno di quei fiori penduli e anonimi di Salice Bianco. Dondoli e basta. E non ti frega un cazzo di come era tempo fa, quando dovevi correre e correre sempre.
Nella mia atipicità più volte ho riflettuto, nel corso degli anni, a questo evento; al fatto che non possiamo pretendere di piacere a tutti, ma che rincorrere la diversità è qualcosa che in alcuni momenti non possiamo fare a meno. Ma il significato profondo del rincorrere, di tutti quei giorni passati a travolgere le siepi tentando di balzarle, di tutti quei giorni fatti di precipizi troppo profondi da scalare, troppo ampi da saltare, così vasti che non se ne vede nemmeno la fine, è legato a due mandate al bisogno di felicità. Ricordo quanto fosse in salita la mia corsa quando ero adolescente, quando ogni canzone che ascoltavo sembrava dirmi che tutto faceva schifo e quanto sentivo il bisogno che fosse possibile avere un vaccino per la noia. Così che potessi iniettarmelo e smettere di sentirmi senza via di uscita. Ma ogni cosa passa, anche l'egoistica sensazione che nessuno sappia cosa pensi, cosa provi.
Poi ci sono i giorni in cui la neve si scioglie prima ancora di toccare terra, in cui le rose fioriscono prima ancora di sbocciare, in cui il mare urla quando si stiracchia sul bagnasciuga, lento e maestoso, fatto di onde e recessi e risacca. Ricordo di aver letto come nel 1947 un insegnante della Dovedale Primary School di Liverpool, una mattina pose una domanda ai bambini della sua classe: "Cosa vuoi fare da grande?". Uno dei bambini rispose: "voglio essere felice". Alla risposta del maestro, che interdetto, affermò che il bambino, che aveva setti anni all'epoca dei fatti, non aveva capito la domanda, questi rispose: "No. È lei che non ha capito la vita". Trentatré anni dopo, precisamente l'8 Dicembre, alle ore 18.45, un venticinquenne ex tossicomane ed integralista cristiano incontrò questo bambino, ormai adulto, davanti al Dakota Building, uno sfarzoso palazzo sulla 72ª strada, nell'Upper West Side di New York, dove abitava. Un fotografo immortalò questa scena, proprio mentre si stringevano la mano. Attese il ritorno del bambino, divenuto uomo, per quattro ore. Quando il bambino, ormai adulto, rientrava a casa insieme alla moglie per salutare suo figlio, alle ore 22.52, il venticinquenne lo chiamò per nome e poi sparò cinque colpi di pistola. Quattro di questi cinque proiettili andarono a segno e uno trapassò l'aorta. Morì alle 23.07. I soccorsi, per quanto celeri, non lo salvarono. Le sue ultime parole furono: "Oh cazzo mi hanno sparato". Mentre il bambino agonizzava all'ingresso, l'uomo si sedette a terra tranquillo e si immerse nella lettura de Il Giovane Holden.
Ci sono i giorni in cui penso a quel bambino e mi dico che avrei voluto essere io a rispondere così a quella domanda. Ma anche questa è una forma di invidia. Di quella invidia che io repello, rifiuto, che è quella degli sciocchi. mentre quando ero bambino io, ero costretto a subire le innominabili torture del catechismo (perché si faceva così), e mi fu insegnato in termini non così eclissati che essere pecore non è sbagliato, che la vera felicità stava nel fare le cose così come ti dicono di farle. Farsi troppe domande, cercare da solo le risposte, cercare di distinguersi, era una cosa non molto ben vista: causava guai. Dentro, la mia atipicità si ribellava, si impennava e io sentivo di voler fare il contrario esatto di ciò che ci si aspettava che io facessi, con il rischio innocente di far sì che chi mi conosceva infine si sarebbe aspettato il contrario di ciò che chiedeva, pertanto che divenissi prevedibile nella mia presunta imprevedibilità. Se per alcuni poteva apparire come una semplice forma di ribellione fine a se stessa, io sentivo di avere uno schema, un metodo nella mia follia: semplicemente avevo chiaro chi volevo essere e non accettavo che altri mi dicessero come dovevo comportarmi, come dovevo vestirmi, come dovevo parlare, cosa pensare. Nell'assurdità preferivo nemici veri, che ti sputano in faccia il loro disprezzo senza mezzi termini, che amici tiepidi che cercano sempre di essere d'accordo con te e di sostenerti e che ti permettono di fare errori madornali e insensati giustificandoti quando poi ti piangi addosso per l'assurdità delle cose che hai fatto e a cui non puoi porre rimedio. Sono anche quelli che ti danno un motivo per vivere e per combattere; quelli che ti fanno sentire orgoglioso di non essere come loro e che ti fanno capire come non vorresti mai diventare.
In un mondo perfetto la vita dovrebbe essere sempre leggera come una piuma e dovremmo sentirci liberi di vomitare, urlare e sputare senza alcun problema. Ma il guaio è che poi c'è sempre qualcuno che pensa di poterlo fare meglio di te e di dirti come dovresti farlo. Forse è per questo che sono atipico. Non tollero essere parte della massa. Mi fa sentire come una di quelle pecore del grande gregge, che non riuscivi a distinguere le une dalle altre. E quando a catechismo me ne parlavano come se fosse qualcosa di cui sentirsi felici, grati, pronti a seguire quel pastore che ci avrebbe condotto da qualche parte, senza poter decidere della propria strada, non riuscivo a provare proprio nulla. Io volevo essere al di fuori di quel gregge. Io volevo essere quello che se ne stava sulla collina ad oziare, masticando uno stelo di gliceria, facendo suonare l'erba come un'armonica a bocca e guardare dalla distanza il lento e riottoso andare e venire del grande gregge che nella sua totale ignoranza di sé non sa dove va, non sa dove viene condotto, ma ha occhi solo per chi lo conduce. A volte è un concetto di mero protagonismo. A volte è una presa di posizione talmente salda e radicata dentro me che è come un colpo incapacitante sferrato da un ladro di quindicesimo livello. A volte è come essere una Coca Cola con il tappo della Fanta, un kebab vegetariano, un libro dalla copertina rovesciata. Love me or leave me, dicevo sempre nelle canzoni che scrivevo e credo che lo dirò ancora, nelle canzoni che scriverò, se mai dovessi decidere di scriverne di nuove. In nessuno dei due modi in cui desideravo essere preso ho mai accettato la tiepidità: o mi accetti per come sono o mi lasci in pace. Non sono mai riuscito ad integrare dentro me il fatto di doversi attenere ad un modus operandi interamente incentrato sul compromesso con noi stessi perché non siamo in grado di accettare la nostra stessa natura e allora la storpiamo e la condizioniamo. Se lo scopo della vita è cercare di essere felici, allora dobbiamo capire prima cosa ci fa sentire in ordine con noi stessi, quali sono i nostri principi, qual è la nostra integrità e poi cercare di essere liberi muovendoci nei confini di quello che abbiamo stabilito essere ciò che siamo. La libertà è dentro, prima che sia fuori.
E sono quei giorni, che quando ti alzi ti sembra di avere la merda nelle scarpe, che quando ti guardi allo specchio vedi che sei vecchio. Quei giorni in cui un abbraccio è più salvavita di una cintura di sicurezza, in cui il pettine litiga con i tuoi capelli, in cui uno sguardo e un sorriso di qualcuno che ti ama possono risollevarti più che una crepe con la nutella. Jack Nicholson, in Easy Rider sosteneva che Tobe Hopper e Peter Fonda rappresentassero la libertà e che fosse proprio quello che faceva paura alle persone. La prima volta che vidi quel film non capii esattamente cosa intendesse. In seguito scoprii che gran parte del film non seguiva una sceneggiatura fissa, quindi molti dialoghi sono stati improvvisati e quando uscì quella battuta tutti e tre gli attori stavano davvero fumando marijuana. Ma nulla di tutto ciò poteva togliere qualcosa al significato che celava quelle parole. Le persone hanno paura di essere libere. Hanno paura di essere se stesse. Quando vedono qualcuno che rappresenta ciò che loro non riescono ad essere, lo condannano. Esistono antropologi improvvisati che potrebbero affermare con assoluta certezza e sicurezza che il motivo per il quale la cristianità è sempre stata così arrabbiata con il paganesimo e il motivo per cui ancora adesso le religioni semitiche cercano di distruggere e screditare le religioni che vivono con più leggerezza è proprio dovuto alla loro incapacità di fare la stessa cosa, vuoi perché i precetti della loro fede gli impongono diversamente, vuoi perché hanno gradi di moralità ben diversi dai nostri. In un mondo normale questo non dovrebbe toccarli, dal momento che se sono felici loro e siamo felici noi nessuno ne dovrebbe rimanere offeso, ma come ben sappiamo non viviamo in un mondo normale, pertanto nascono le ben note difficoltà.
E ci sono quei giorni, poi. Quelli in cui berrei solo Cuba Libre con una sottile fetta di limone che galleggia oziosa, in cui vado a cercare video di band anni '70 su youtube con uno spasmodico senso di appartenenza senza che io abbia poco più che sfiorato quegli anni; giorni in cui sento il desiderio di scrivere una canzone, di mangiare qualcosa di esotico, di comprendere il motivo per cui sembra che tutti i ristoranti giapponesi con formula all you can eat abbiano lo stesso senso che si potrebbe trovare nel fatto che nella Lemonsoda ci sia meno succo di limone di quanto ce ne sia nel detersivo per i piatti. Perché la noia è noia. Ma se ti travolge e non sai come uscirne e, come dicevamo, non esiste vaccino, ti può uccidere di più che un 1 di dado puro quando valgono i critici maldestri. E poi sì, cazzo, sono atipico. Lo so. Sono fatto così. E in una scala di atipicità che va da un minimo di 1 ad un massimo di 10, dove 1 è la persona più tipica e tradizionale che possiamo immaginare, quella che mette la cravatta ai matrimoni, che battezza i figli, che compra i pasticcini la domenica per andare a pranzo dalla madre, che fa il tifo solo per l'Italia ai mondiali, che non parcheggia sulle striscie gialle, che lava la macchina una volta la settimana, che non supera i cinquanta in città e che compra macchine Fiat di colore metalizzato, uno che al primo appuntamento con una ragazza la porta al cinema della parrocchia, che ride delle battute sessiste sulle donne, che ascolta musica italiana perché è senza pretese, che fa il compagnone con il suocero dopo il whiskino a pranzo, che va in vacanza a Formentera ad agosto e che non si fa tatuaggi perché ha timore delle cose che durano per sempre e dove 10 è la persona più atipica ed estroversa che possiamo immaginare, che fa tutto il contrario di tutto, che mette l'orologio sopra il polsino, che si fa un piercing all'appendice per vederlo solo in radiografia, che si decolora i peli del culo, che si sceglie l'epitaffio con un certo anticipo, che non pianifica un cazzo della vita perché sa che potrebbe morire domani, che si fa una vasectomia per evitare di mettere al mondo figli illegittimi, così atipico che confronto Luna Lovegood è Petunia Dudley. In questa scala io mi sento intorno al 7. A voltre credo di essere atipico per scelta. Alle volte credo di esserlo per osmosi di me stesso. A volte ritengo che sia una questione di principio morale. A volte mi rendo conto invece che non sono io ad essere atipico. È il mondo, tipico, che mi rende aspettualmente e concettualmente così. Come dice Salvatore D'Agostino: fare schifo, in una società che obbliga all'eccellenza, è un preciso dovere morale.
E ci sono i giorni in cui pensi che il tramonto non arriverà mai, in cui senti che essere padre è una figata da urlo, in cui ti commuove il sapere che ci sono persone che ti voglio bene e che sono vive, intorno a te, anche se lontane centinaia di chilometri. E ripensi ai tempi andati, a quelli ancora da venire, alle strade e i giorni e alle altre strade e agli altri giorni. E ringrazi la musa perché non si dimentica di te quanto tu a volte ti dimentichi di te stesso. Giorni in cui vorresti tirare palle di neve ai passanti, mangiare solo porcherie e saltare sul divano senza preoccuparti del terribile rumore che fa. Quando ero bambino, partecipai ad un viaggio a Scuola Natura in prima elementare (era il lontano 1985, quando il Drive In era al top). Questo stesso anno mio figlio, in quinta elementare, ha fatto la mia stessa esperienza ad Andora, con mia somma gioia. Fu la prima volta che dormivo fuori casa, lontano dai miei genitori. Ricordo che andammo a Pietra Ligure per una settimana, con l'esperienza nel dormitorio pubblico e tutto il resto. Una figata pazzesca. In spiaggia perdetti una macchinina della Hot Wheels, nera. La sabbia se la mangiò e magari è riemersa dopo anni e qualche altro bambino se l'è tenuta. Durante il nostro viaggio, avevamo a disposizione dei soldi che erano in gestione delle maestre che ci avevano accompagnato. Come è ovvio l'uguaglianza nella scelta dei regali da portare a casa era una prerogativa fondamentale. Ma non avevano fatto i conti con me. Un giorno di quella lunghissima settimana (da bambini il tempo scorre percettivamente in modo diverso), ci trovavamo in un negozio che vendeva piccole ceramiche ed oggettistica in terracotta. Per accordo le maestre decretarono che uno degli oggetti che erano presenti nel negozio sarebbe stato un regalo per i genitori (comprato con i loro stessi soldi - mumble mumble). La scelta cadde su dei vasettini di terracotta tondeggianti, poco più grandi di un pugnetto. Assolutamente inutili. Il terzo superiore, compreso di imboccatura, erano stati dipinti di giallo intenso. Anonimi, di poche pretese, ma alla portata di chiunque.
Io avevo sei anni. Portavo un taglio di capelli così idiota che adesso mi mangerei le unghie dei piedi in crosta al forno piuttosto di costringere Morgan ad andare in giro così e indossavo camicie che mi facevano sentire un internato psichiatrico. Ero magro al punto che vedevo le costole spuntare. Avevo appena smesso di portare le scarpe ortopediche per correggere i miei piedi piatti, così non mettevo altro che scarpe da tennis con il velcro (aaah gli anni '80) per recuperare il tempo perduto con quelle orrende cose nere con i lacci ai piedi; avrei donato un rene pur di non doverle metterle (e sì che mia madre avrà speso una fortuna per farmi camminare bene). Ero una schiappa a giocare a calcio e infatti inseguivo il pallone come un demente e mi facevano sempre fesso e in più non conoscevo i volti sulle figurine della Panini, al contrario dei miei compagni che passavano ore davanti a questi cazzo di album a contarle e dire: "ce l'ho, ce l'ho, ce l'ho". Io l'album che preferivo era quello del WWF, con tutti gli animali.
Beh insomma eravamo in questo negozio e la mia atipicità saltò fuori come un pupazzo a molla. Metto la mano sul cuore e pronuncio il sacro giuramento dei Lupetti: è la mera verità e non so spiegare perché fosse così, e non sapevo spiegarlo nemmeno allora. Io non volevo quel vasetto. Non che il vasetto in se stesso fosse brutto, chiariamoci. Anzi, era anonimo ma discreto. Semplicemente io volevo essere diverso dagli altri. Io non volevo far parte della massa, non volevo essere un pecorone. Mi impuntai su una piastrellina in terracotta, di quelle che si appendono; una roba che ancora adesso mi fa venire i capelli in piedi dalla sua bruttezza. Mi venne enunciato che il problema era che il costo era diverso. E in effetti era anche così, ma la verità era solo che naturalmente creavo un precedente. E i precedenti in una classe di bambini è qualcosa da preferire solo ad una inalazione di Virus T. Tenni duro quanto potei, data la mia tenera età, ma in realtà cedetti solo quando le maestre premiarono il mio distinguermi: fui il solo che andai a casa con un vasetto colorato di azzurro mentre tutti lo avevano giallo. Ma ciò non bastò a placare i miei compagni, che se la presero e notarono subito come una goccia di colore era caduta rigando la parte non colorata, ossia i due terzi sottostanti del vasetto e che di fatto il mio vasetto era imperfetto. Ma io me ne fregai, e davvero non mi importava nulla. Avevo qualcosa di diverso dagli altri e per me era abbastanza.
E quei giorni, assurdi, in cui quando entri in ascensore al mattino sei talmente bollito che ti dimentichi di schiacciare il pulsante per il secondo piano e devi aspettare che finisca tutte le prenotazioni prima di poter arrivare in ufficio. Giorni in cui ti placcano per i corridoi come linebacker dei Dallas Cowboys, in cui prima ancora di cominciare la giornata hai già sette problemi da risolvere. Giorni in cui il tipo che ascolta musica tzigana e ungherese e che ti salassa cercando di approcciare a discorsi pseudo spiritualisti, spacciandosi per teosofo senza sapere chi è Anne Besant ti investe con quel suo odore di vaniglia che arriva da quei suoi irritanti sigari. Giorni in cui vorresti solo avere la sedia a dondolo dell'ikea che hai deciso di comprare insieme con tua moglie, così, pronti via, solo per cullarti nell'odore dell'incenso, nel caldo purr purr delle fusa della micia sulle gambe e leggere distrattamente un libro di stregoneria mentre fuori il mondo continua a girare sul suo asse celestiale. Quei giorni in cui essere salmone non paga. E nel mezzo di uno splendido paesaggio irlandese, là sui colli dove i pozzi di Brid secernono acqua sulfurea dai pertugi e gli anfratti e le sacre spaccature nel corpo della terra, stendersi su un prato a sorseggiare idromele e a chiacchierare di pesci e piedi e poi pensare a come deve sentirsi un quadrifoglio in mezzo ai trifogli. Forse anche lui non viene capito, e viene snobbato, incompreso, condannato dagli altri trifogli perché si è voluto distinguere dalla massa, perché appena ha visto che tutti avevano tre foglie ha deciso di farsene spuntare un'altra, così che nel mezzo poteva essere diverso, non identico, non una copia indistinguibile dagli altri. Poteva essere quello con la maglietta fuori dai pantaloni, quello con il vasetto azzurro in mezzo ai vasetti gialli. E non è solo una questione di protagonismo o perché vuole essere al centro dell'attenzione. In parte forse, e sotto certi aspetti è così. Lo è perché semplicemente si sente così e per sempre si sentirà tormentato dal fatto che vuole crescere in mezzo ai trifogli pur rimanendo un quadrifoglio, e si sente di appartenere a quel prato come tutti gli altri e continuare la sua vita, ma altri lo vogliono strappare perché riconoscono che la natura ama la diversità, la disparità, l'anomalia, il caos e fa sì che non esistano due fiocchi di neve o due persone uguali ma sempre individualmente uniche. In antichità tutto ciò che era anomalo era ritenuto sacro e fortunato, come anche la disparità e la geometria apparentemente imperfetta era vista con un occhio di assoluto riguardo. E questo perché la natura ha sempre mostrato di amare l'imperfezione e di premiare la differenza e l'eterogeneità confronto all'omogeneità. Ma l'atipicità e la diversità rendono inquieti. Credo nella stessa misura in cui ad alcuni, come me, mette ansia l'ordinerietà, le regole imposte senza una motivazione valida secondo cui non è possibile fare altrimenti, il bisogno di stare negli schemi per paura delle conseguenze di chi potrebbe dire o pensare qualcosa, l'estetica come concetto superiore al senso di una scelta.
Ma io credo che essere felici sia essere liberi di essere chi vogliamo.
Ci sono poi quei giorni, quando guardi fuori dalla finestra e ti rendi conto che solo ieri il pruno era pieno di fiori e ora sono tutti a terra. E pensi che in fin dei conti l'analogia è semplice e diretta: la rosa che sboccia oggi domani appassirà. E giorni in cui hai così poca voglia di alzarti che anche solo quei cinque minuti di sonno sembra che possano cambiare tutto lo scorrere della tua vita. Razionalmente sai che sono solo cinque minuti, che non valgono un cazzo, ma sai anche troppo bene che il tempo e la sua percezione sono due variabili e non due costanti, soprattutto quando sono in relazione tra loro. E quei giorni in cui a pranzo qualsiasi cosa ti annoia, in cui vorresti avere una tasca in più così che oltre le mani potessi infilarci anche la testa e andartene in giro ancora più stravaccato. Giorni in cui quella stanchezza primaverile ti fa sentire come ricotta salata spalmata su una fetta di pane tostato. E poi i giorni in cui, come una febbre, sei dominato da un regime totalitario, come un dito puntato contro il tuo cuore, uno sguardo torvo. Ricordo quando, qualche anno fa, ero immerso nel completamento della collezione di Gormiti per mio figlio. Una sorta di guerrieri alieni divisi in due fazioni e legate agli elementi che chi, come me, ha vissuto gli anni '80 ricondurrà facilmente agli Exogini. La ricerca spasmodica del Sommo Luminescente era una questione che andava oltre al solo principio e desiderio di completare una collezione. Era una vera e propria cerca: era una questione iniziatica. Era il mio cazzo di Ramo D'Oro con cui avrei placato gli dei inferi. Lo cercavo come un pazzo. Non fate quella faccia: non si trovava su e-bay e non si poteva ordinare sul sito della Giochi Preziosi (credete forse che non ci abbia pensato? che dilettanti!). Si trattava infatti della versione mini-gormiti, quindi non acquistabile se non per mezzi peculiari.
Il problema era che si nascondeva quel bastardo. Quel tipo di serie si trovava nelle patatine dei Gormiti, negli ovetti dei Gormiti e nei distribuitori automatici, ovviamente, dei Gormiti, ad un prezzo ragionevole di circa un euro cad. Ormai li avevamo tutti, ci mancava solo lui; e guarda caso era proprio quello più bello e desiderato. Appariva come una sorta di paladino vendicatore di colore dorato con la spada infuocata al posto del braccio destro, le ali angeliche e il volto coperto da un elmo completo che gli nascondeva il viso. Insomma, il Signore della Luce! Io per indole preferivo il suo acerrimo avversario: Obscurio, ma come si sa io ho sempre preferito i cattivi. Hanno uno stile più fico: mettete Skeletor o Hordak contro He-Man o Man-at-arms e capirete cosa intendo. Nella nostra ricerca però, la mia atipicità venne a galla e si manifestò in una rabbiosa rivincita della mia infanzia che, con la nascita di mio figlio, si era risvegliata completamente. Pertanto, la visione era questa. Situazione tipica: un bambino desidera il pacchetto di patatine per trovarci dentro un gormito (obiettivamente le patatine di quel tipo non erano diverse da tutte le altre e anzi erano anche meno in quantità al suo interno). Punta il dito e chiede a suo padre di comprarglielo. Anche mio figlio faceva così. Situazione atipica: un padre desidera rendere felice suo figlio ma si rende conto che se vuole, è capace di fare meglio di lui. Ha i mezzi. Io ho i mezzi per essere peggio di mio figlio. Me ne rendo conto. Lo so. Ed è un cazzo di dramma.
Vedete, il problema è che in una situazione tipica, un padre normale si fermerebbe a comprare un pacchetto quando si trova per caso al supermercato infilandolo con uno sbuffo nel carrello, e nel momento della delusione per non aver trovato quel maledetto Sommo Luminescente, direbbe al figlio: "È andata così; lo troveremo la prossima volta". Ma io non sono tipico. Oh no. Per un cazzo. Il problema è proprio quello. Io non mi fermo: io faccio di queste cose una droga. Io andavo a svuotare il banco delle patatine dei Gormiti per innalzare le probabilità di trovare il Sommo Luminescente. Io schiaccio le probabilità sotto il tacco, entrando dal tabaccaio che aveva fuori la macchinetta che li distribuiva negli ovetti di plastica trasparente e lanciando un'offerta stimata su quanti possibili Gormiti ci fossero nella macchinetta per portarmi a casa l'intero blocco, contrattare sul prezzo e sperare che siano più del costo che ho dovuto affrontare per averli. Io ho i mezzi per essere peggio di lui, per arrivare là dove nessun padre è mai giunto prima, vestito in pigiama di tutto punto assieme ad un amico vulcaniano che sa alzare solo un sopracciglio e promettere "lunga vita e prosperità". Fino al punto che talvolta è stato lui a fermare me, a dirmi: "Ne ho già tanti di Gormiti". Cazzo. Ne aveva tanti sì. Ma avrei dovuto essere io a doverglielo far notare, non lui.
E poi ci sono quei giorni, in cui ti domandi se quella del bambino che rispondeva al maestro che non aveva capito la vita fosse solo una leggenda metropolitana. Quelli in cui ti chiedi che bisogno c'era che i Metallica facessero un live con l'orchestra, perché i Kiss hanno annullato l'ultimo tour o pubblicato un album come Carnival of Souls, o perché i capelli hanno così fretta di separarsi dal tuo cuoio capelluto, quelli in cui pensi che alla fine una reunion con vecchi amici potrebbe farti più piacere e pensi a cosa potresti dir loro dopo anni che non vi vedete, o se l'asbesto ha davvero le carattersitiche enunciate dal grande mago. I giorni in cui vorresti davvero avere una macchina del tempo; e non per tornare a cambiare chissà che della tua vita, ma per andare a Woodstock a sentire Jimi Hendrix cantare All Along the Watchtower, o per tornare al 1986 e comprare "L'Alba dei Morti Viventi" di Dylan Dog quando è uscito in edicola. E mica per rivenderlo a sessanta volte il suo prezzo, ma solo per averlo a memoria del fatto che non sai mai cosa potrebbe diventare importante per te finché il tempo non modella i tuoi desideri.
E poi quei giorni, in cui essere un quadrifoglio in un prato di trifogli è difficile quasi quanto essere una particella di sodio. Ma sai che non puoi abnegare te stesso e sai che non lo fai per un qualsiasi motivo di appartenenza o di etica, ma è perché non puoi e non riesci ad essere diverso e se ti sentissi come un appartamento che non puoi chiamare casa e come un malato di BIID decidessi di ritrovare la tua integrità e di farlo strappandoti quell'unica foglia che ti rende diverso, non cambierebbe assolutamente nulla, perché è dentro che sei diverso, non fuori.
E senti di cambiare ogni giorno fuori, un passo per volta. Ma dentro sei come un diamante. Sei per sempre.