The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Yule 2014

Yule 2014

Vivere venti o quarant'anni in più è uguale. Difficile è capire ciò che è giusto e che l'Eterno non ha avuto inizio perché la nostra mente è temporale e il corpo vive giustamente solo questa vita. Ma se ti senti male, rivolgiti al Signore. Credimi siamo niente, dei miseri ruscelli senza fonte.

Vorrei poter avere il potere di conoscere ciò che mi riserva il futuro, anche solo per una breve sbirciata. Solo per sapere se nella lunga distanza le sofferenze che provo sulla breve avranno un corrispettivo, una maturazione, un'evoluzione differente. A volte perché credere che ci sia un motivo mi permette di andare avanti con più facilità. Vorrei poterlo avere anche solo per sapere che quel po' di serenità che una persona, ragionevolmente, cerca di riservarsi, sia infine una ricompensa per le difficoltà che mi si parano di fronte in continuazione.
Quanto fa male a volte il disinfettante. Soprattutto quando devi cucire le ferite delle persone che ami e che te le porgono mostrandotele, bianche come patate sbucciate. E devi sporcarti le mani del loro sangue e sentirlo scivolare solleticando, giù per i polsi, lungo gli avanbracci, e caldo e denso gocciolare dai gomiti; senti il pulsare del tuo cuore direttamente sulle tempie, come un tamburo sciamanico che ti indica la via, ma che quando giunge il momento non ti riporta indietro.
Vorrei credere che ci siano molte vie che potrei percorrere e che mi porteranno lontano, distante, e poter sognare ancora ciò che vorrei trovare, scoprire. Costruire soprattutto. Seminare e raccogliere. Perché tutti abbiamo diritto a delle possibilità, delle carte da giocare per poter perdere avendo la coscienza di essersi giocati, quanto meno, un paio di mani. E tutto solo per non ritrovarci come i fantasmi di Hogwarts alla festa di Halloween, quando passavano la lingua sul pesce marcio per provare la lontana impressione di sentire il sapore dei cibi.
E poi mi chiedo, come quando mi trovo su una scogliera e il mare che si infrange gettandomi addosso schizzi di spuma, come facciano i granchi a vivere in quella situazione di continua alta e bassa marea. A dover vivere nell'altalenante aspettare che l'acqua ti ricopra e poi ridiscenda e risalga e poi di nuovo e di nuovo. Forse è per quello che, come samurai, si sono costruiti quel carapace così resistente, perché hanno deciso di vivere sul confine, là dove la rabbia dell'emozione si manifesta con più forza. E sono sicuro che loro ringrazino, magari schioccando le chele, magari correndo sempre di lato per aggirare i problemi sulle loro zampette, come ringrazio sempre anche io, con le lacrime agli occhi. Ringrazieranno gli dei del mare perché tengano lontani bambini invadenti o pescatori avari. Ringrazieranno per le alghe e i piccoli pesci, per i molluschi e i gamberetti.
Non può essere per sempre, mi dico. E lo so come forse lo sanno anche loro. Ma quando il sole sorge e io mi sveglio da sogni oscuri, proprio come Gregorio Samsa, vivo nel timore di risvegliarmi trasformato in un insetto mostruoso. E come Kafka non ci spiega il perché, così io non riesco a capire, per quanto cerchi di trarne il senso, il motivo per cui a volte mi sento come se fossi pronto a cadere a pezzi.
Un tempo, quando si innalzavano torri ciclopiche per toccare il cielo e si scavavano tombe maestose per onorare chi ci aveva provato, i giorni e le ore della vita apparivano brevi come quelli che viviamo noi. Questa estate che viene e se ne va, questo inverno che ci stringe ora come una morsa. Non sento il sapore con i piedi, ma vorrei potermi trasformare, e smettere di sentirmi come quel giocattolo che Morgan chiese per Natale qualche anno fa e che quando ha voluto vendere su un mercatino io gli ho ricomprato: un Frankestein dalle braccia di gomma di nome Stretch Screamers che potevi tirare in direzioni diverse e che avrebbe emesso urla disumane. Perché lo feci? Forse ci vedevo una certa affinità. Così, come non avrei mai abbandonato un fratello o un amico, ho scelto di pagarlo due volte e dare a Morgan l'esorbitante corrispettivo di dieci euro per riavere per me un gioco che comprai per lui e di cui decise di non sentire più il bisogno. Lui fu felice, ovviamente. Con quei dieci euro non aveva nemmeno la più vaga idea di cosa farci, ma erano un tesoro inestimabile che ora se ne sta bello piegato e mollettato nel suo salvadanaio blu, in attesa di chissà quali occasioni speciali. Sto ancora cercando di insegnargli che le occasioni speciali vanno e vengono, ma l'obbiettivo per questi anni è anche il valore del risparmio.
Mi chiedo come siamo cresciuti, noi che siamo nati prima della pacchiana immondizia fluorescente degli anni ottanta, fatta di calzini color Uniposca, spalline ad angolo retto, tagli di capelli che sfidavano la forza di gravità, tute della Adidas acetate, canottiere sporche di sugo, zoccoli di legno, improponibili maglioncini legati sulle spalle, videogiochi nei bar; dominati dalla paura dell'invasione dei Terminator capeggiati da Arnold Schwarzenegger e del fatto che sarebbero arrivati a fare Rocky VI, incubo che hanno infine realizzato vent'anni dopo cercando di scongiurarne il terrore chiamandolo in modo diverso. Già, come siamo cresciuti, rincoglioniti da tette e culi di donne oggetto e battute sessuali idiote, gonfiando Big Bubble, dandoci appuntamento con gli amici in piazzetta, vedendo Michael J. Fox ed Henry Winkler come fossero giganti quando invece sono sempre stati due tappi. Mi chiedo come siamo cresciuti in quegli anni privi di mediazione, incollati davanti alla tv a vedere in diretta il Challenger che esplodeva in cielo, lasciando solo quel serpente cornuto di fumo bianco per ricordarcene, nella tragedia, quando quindici anni dopo in diretta vedemmo crollare il World Trade Center. Siamo cresciuti nella finzione dell'individualismo, del rimandare a dopodomani le decisioni che potevano essere prese due settimane fa, preoccupandoci solo dell'ora e dell'adesso. Bastava accendere la tv e vedere gente che cantava, che ballava, i comici che facevano i seri e i seri che facevano i pagliacci. Abbiamo finto che andasse tutto bene, demandando tutto ai nostri figli. Ma noi eravamo i nostri figli. E abbiamo imparato poco da quello che abbiamo visto perché eravamo troppo piccoli per ricordarci della paura e degli anni di piombo. C'eri o non c'eri. Non esistevano vie di mezzo. O eri un paninaro o eri un metallaro, o eri un punk o eri un dark. E dovevi rientrare in una di queste categorie come fosse una religione più che uno stile di vita. Pagavi le rate per avere un tv a colori con il telecomando e un videoregistratore dove registrare le puttanate che giravano sui canali Fininvest.
Ma come siamo cresciuti? Mi sembra di essere perduto in quello che Battiato chiama: l'Oceano di Silenzio. Come se gli dei degli anni ottanta fossero diversi da quelli attuali e ora tacciano. Li credevo invincibili: McFly che viaggia nel tempo, Fonzie che fa partire il Juke Box con un pugno, Sarah Connor che sopravvive a Terminator, Rocky che vince Ivan Drago. Poi sono cresciuto anche io, e la campanella della slitta di Babbo Natale ha smesso di suonare anche per me. Forse troppo presto. Non me la sono menata nemmeno molto e credo che per i miei genitori sia stato un gran sollievo. Ma dentro talvolta è come se non avessi più un cuore che conosce tutte le ragioni. A volte è come se dovessi reimparare tutto da capo, di nuovo; imparare a leggere e scrivere, a mettere gli accenti e gli apostrofi facendo sì che si distinguano e scoprire il significato e l'uso del punto e virgola. Come se avessi di nuovo bisogno di imparare a distinguere la luce dal buio, la paura dalla consapevolezza, l'amore dal possesso. L'Io dal Noi. Come se tutto ciò che si è sedimentato nel corso degli anni si sia risollevato, rimescolandosi di nuovo in forme diverse.
Vorrei solo che mi dicessi che tutto andrà bene, che un giorno potrò riguardare alle paure e alle angosce attuali e pensare che sono stati errori di percorso, che sono stati solo incidenti, sassi che ti finiscono sotto le ruote della BMX. Vorrei che me lo dicessi da dietro lo specchio, da oltre quella cortina palpabile di buio che non riesco a strappare. Vorrei che le tue parole parlassero come i tuoi occhi, che così spesso mi guardano con confusione e paura. La stessa paura e la stessa confusione che ho visto altre volte nei volti di chi temeva che non avrebbe trovato un senso, come se fossi sulla spiaggia di Omaha e io, sotto una gragnuola di colpi, stessi cercando di raccogliere le mie viscere violacee impregnate di sabbia per rimetterle dentro, come raccoglierei le mele che sono rotolate fuori da un sacchetto della spesa. Perché io ci credo e voglio vivermela. Perché io so che ci saranno tempi diversi, perché credo che tutti debbano averne la possibilità, ma a volte, in momenti tardi e oziosi come questi, vorrei solo mettere la testa sotto il cuscino e inveire contro chi mi richiama all'ordine. E se proprio devo uscire, allora datemi qualcuno da incolpare, solo per sentirmi meglio, solo per poterlo prendere a pugni e sassate. Che sia un dio, che sia una persona, che sia tutta l'umanità.
Vorrei non sentirmi travolto, vorrei non dover alzare la testa sopra la superficie e gridare al cielo. Vorrei essere come quell'arcobaleno che se sta là, sospeso nel nulla, e non sa dove inizia e non sa dove finisce, e non si sa nemmeno se c'è, anche se tutti lo vedono. Vorrei solo essere sicuro di essere là, anche solo nell'incoscienza del dove sia il là. Anche solo per vedere le cose con distacco, curvato sopra il mondo a lasciare che fantasie e favole nutrano la mia storia. E vorrei essere con te, spendere del tempo a dirti che andrà tutto bene, che se esiste una verità universale, quella è dentro di noi e io so che è così.
E magari danze e balli, certo, perché no. Un ultimo sussurro soffiato nell'orecchio prima di dire addio ad amici e stelle, senza dire nulla che non sappiano già. E tutti questi milioni di momenti, splendenti come cristalli sospesi nel vento ed ognuno che ci parla di amore e musica, di vita e morte, di abbracci e pianti, e insieme fanno la consapevolezza falsata che noi abbiamo di chi siamo e chi abbiamo intorno. In quel bellissimo film, quando un padre parlava al figlio, gli diceva: "Posso dirti un'ultima cosa riguardo a Marte? Il che suona strano detto da uno scrittore di fantascienza, ma in questo momento, io e te, qui, formati interamente da atomi che sono stati parte di milioni di altri organismi prima di formare noi, seduti su questa roccia rotonda con un nucleo di metallo liquido, trattenuti da una forza che tanto ti turba che si chiama gravità, girando per tutto il tempo intorno al Sole a sessantasettemila miglia all'ora e sfrecciando attraverso la Via Lattea a seicentomila miglia all'ora, in un universo che potrebbe benissimo stare rincorrendo la propria coda alla velocità della luce e circondati da tutta questa frenetica attività, consapevoli del nostro stesso imminente decesso, che è un modo carino per dire che sappiamo che moriremo, ci aiutiamo l'un l'altro. Qualche volta per motivi di vanità. Qualche volta per motivi che non sei abbastanza grande per capire. Ma un sacco di volte tendiamo la mano e basta, e non ci aspettiamo nulla in cambio. Non è strano questo? Non è curioso? Non è strano abbastanza? Perché diavolo hai bisogno di venire da Marte?"
Nell'esclusione c'è l'accettazione del sapere che l'arte è parte di quella espressione che viene utilizzata da chi non ha ancora imparato a vivere e che è in attesa di qualcuno che si degni di insegnarla. Seduti ad aspettare, a credere di aver costruito castelli quando invece sono solo stuzzicadenti poggiati in equilibrio uno sopra l'altro. E lo sai che è perché ti hanno insegnato che per riuscire a risolvere una delle tante equazioni della tua vita devi poterti muovere, ma hai sempre la sensazione di essere rimasto fermo, immobile, di non essere riuscito nemmeno a convincere un cazzo di neurotrasmettitore a uscire dal suo cazzo di neurone. Quanta frenetica attività, già; potevo sentire il Bardo in Cina con qualche click e, se accordatisi con gli orari, potevamo anche vederci come se fossimo uno di fronte all'altro. Tutta questa comunicazione rapidissima ma, ancora, ci preoccupiamo di quello che diciamo? Ci preoccupiamo di ascoltare quello che le persone ci dicono? O siamo troppo preoccupati a sparare informazioni tutt'intorno, come centrifughe. Ci preoccupiamo di conoscere quello che noi stessi abbiamo dentro? Ci preoccupiamo di capirlo, di nutrirlo? Quando poi lo facciamo ci voltiamo e i passi, come impronte di sangue nella neve, scompaiono in lontananza, nella tempesta che abbiamo affrontato, arrancando. Allora, forse non siamo stati davvero fermi. I passi li abbiamo fatti, uno dopo l'altro, uno dopo l'altro.
So che un giorno molto vicino mi chiederai di andare. So che io non potrò trattenerti perché è giusto che tu vada, perché è una tua scelta, perché è il tuo destino. So che soffrirò a vederti andare via, ma so anche che sarà l'inevitabile scorrere della vita. So che quando verrà il momento le difficoltà saranno più ardue, spinose, che potrebbe essere più difficile che tu possa credermi quando ti dirò che saprò cosa starai provando. Ma so anche che se non costruirò quel qualcosa ora che ne ho la possibilità, ora che sento di averne la forza e il desiderio, la mia clessidra scorrerà veloce e io non potrò più rincorrere i giorni e le ore e danzare e gridare e ridere come se nulla fosse, ma sentirò premere il bisogno di avere qualcosa su cui potrò contare. E se lascerò che quei giorni vadano senza che io abbia coltivato un giardino, allora sentirò il dolore dentro premere come quando mi posi la testa sul petto, poco sotto lo sterno e mi stringi le braccia intorno alle costole. Solo che non sarà una rinascita, ma una lenta morte.
Lo so, li sento che mi inseguono, vogliono me, la mia energia, la mia carne, le mie viscere, ma devo fare conto su ciò che sono e su ciò che posso essere. Su ciò che posso ottenere da chi mi circonda, dall'aiuto che arriva da loro. Non ho alcun posto dove rifugiarmi. E comunque sarebbe come fuggire da me stesso, e come dice Freccia: "Da te non ci scappi neanche se sei Eddy Merckx". Ma poi sento il glaciale rumore del coltello che descrive quell'arco nel buio e che mi affonda nel muscolo di una coscia, trapassando il quadricipite e lo sento mentre mi incide il femore. Chi ha tra le mani quel coltello? Perché la sua lama non mi provoca alcun dolore se non quella sognante sensazione di abbandono? Come quando qualcuno ti picchia violentemente e, dopo il primo colpo, quando la sorpresa ti fa ancora oscillare, percepisci il mondo come ovattato, subacqueo, dondolante, come se ti trovassi su una barca, abbandonata a se stessa nell'Oceano del Silenzio, e senti le unghie degli affogati che raschiano le assi sul fondo, sotto i tuoi piedi, e le loro lingue violacee che passano sui cirripedi ancorati allo scafo, il loro bilioso richiamo che ti invita a fermarti, ad unirti a loro, nel disfacimento e nella sospensione. Ad ogni salita una caduta, ad ogni picco un abisso. Come lacrime nella pioggia, sì. Come lacrime nella pioggia.
Come amo il tuo sorriso. Guardarlo mi permette di non sentire il dolore per qualche secondo, di sentirmi pieno di coraggio, destinato a grandi cose. Mi permette di avere fiducia, di sentirmi pronto ad affrontare qualsiasi cosa. Anche quando mi sembra di essere inconsistente, e quando se chiudo gli occhi vedo solo farfalle, a milioni, che dall'oscurità, tutte assieme, si dirigono verso la luce e poi spirali verdi e gialle e, come acqua che scorre verso l'alto sfidando la legge di gravità, ecco miliardi di riflessi che mostrano il mondo nelle sue forme e nelle sue essenze. Spuma e montagne e nuvole e braci. Il cuore che brucia dentro, come incandescente. E brucia tanto che a strapparmelo mi ustionerei la mano. Cosa rimane di noi che siamo quelli che non siamo? Quando ad un tratto scopri che non è reale ciò che pensi e non è reale ciò che senti, ma che tutto è dovuto a fattori biochimici che misurano dalla lunghezza delle dita, al pallore delle gote, dalla tua viltà, alla stanchezza cronica e, nel profondo, anche quel tuo grande bisogno di sentirti libero di amare senza nessun contrordine, ma solo come sai fare, come puoi.
In quei punti del mondo, là dove la marea sale a reclamare intere parti di spiaggia, mi domando sempre se quei reami appartengono alle acque o alla terraferma, o se se li contendono ogni giorno, come un tiro alla fune su scala universale, e chi vi abita vive sempre in uno stato intermedio, paludoso, sul confine. Come gli aironi. Perché in quei punti di sospensione, come dice Battiato, nella sinusoide tra Sesso e Castità, trovo la mia dimora. Seduto su uno scoglio, ad osservare giorno e notte l'ascesa e la discesa, i flussi ed i reflussi, con il vento salmastro che mi trasforma in una statua di sale, con il sole beffardo che rincorre la luna, ma troppo luminoso per vedere che anche di giorno lei è lì. Riesco a sentire il contatto delle alghe secche e ruvide e quel sapore che ti rimane dentro, sotto la pelle, quell'odore che ti si infiltra tra le pieghe più profonde, come sabbia che rimane aggrappata ai capelli quando ti stendi a fare l'amore sulla riva. Sento il rumore che preannuncia una venuta, che traccia la delimitazione di quel singolo confine immaginario, che scava a fondo, con mani impazienti, divorando anche la roccia come fosse torta di mele. E mentre taglia sento i suoi occhi addosso, penetranti, come lucciole rabbiose che, baluginando nel buio per un singolo istante, si credono capaci di splendere costanti come stelle. Sento i suoi denti mentre mastica la mia anima, mentre mi penetra tra i pori della pelle, annegando in ogni anfratto, passando sopra a fiori bellissimi e sconosciuti con stivali da rapace, vedo le sue mani tese, come artigli, a chiedere ancora di più, ancora di più, ancora di più. Perché io non sono solo ciò che sono. Perché non siamo solo ciò che siamo. E cosa rimane delle favole, dei tramonti, delle tetre paure che mi accompagnavano la notte quando non riuscivo a dormire, delle lugubri fantasie su mostruose entità che abitavano acquattate l'oscurità sotto il mio letto? Le cerco, le cerco disperatamente. Mi snervo ad inseguirle, tracciandone il fetido percorso fin nelle loro luride tane, strisciando sulla pancia, trascinandomi sui gomiti, per vedere dove sono andate a cacciarsi, perché le rivoglio al loro posto. Perché mi appartengono, perché sono parte di me. Perché senza di loro io sto male. Perché senza di loro io vedo che ciò che è reale è reale. E l'amore non è una cazzo di scatola di cioccolatini ma è sia un uncino che ti artiglia dentro e che non ti lascia più, sia un seme che mette radici nelle profondità dell'anima e che fa sbocciare un fiore al centro del cuore. E come dice il grande Pablo: potranno anche recidere tutti i fiori, ma non potranno mai fermare la primavera.
Chi può sapere cosa è giusto? Chi può sapere se è giusto saperlo? Quando accarezzi un sogno non vuoi che sia irrealizzabile, anche se la paura ti domina e ti scuote, e ti fa perdere il controllo, anche se la rabbia ti lacera e se hai così tanto timore di cominciare a piangere perché sai che potresti non smettere più. Perché non siamo solo ciò che siamo. Da qualche parte, in quel grande buio, i petali si schiudono; la perla immortale si libera del suo involucro il cui destino è quello di marcire. L'essenza sopravvive alla concupiscenza, ma esiste grazie ad essa, così come il passero sa sempre che l'inverno potrà segnare la sua fine, ma non migra come la rondine. Lui resiste, stoico, patendo la fame e il freddo. La rondine se ne andrà in vacanza in Africa, ma il passero sarà il primo a veder sbocciare i bucaneve, i crochi e le primule.
Ma è davvero questo? Come un sinistro sussurro proprio dietro l'orecchio, un dito gelido che ti sfiora il tallone, un alito di vento che richiama il tuo nome e che ti fa capire che non è mai esistito un momento, un singolo istante, da quando sei su questa terra, in cui anche una piccolissima parte di te non ha provato paura. È anche solo abbastanza il fatto di essere vivi e provare la gioia della consapevolezza del lasso di tempo che ti separa dal non esserlo più. E quando tutto questo prende senso, si ricalca nella sua stessa forma anche la divisione, la separazione che è insita in ciò che è terreno: per i monoteisti Dio lassù e noi abbandonati qui, sempre e solo nel mezzo, oscillando per la vita sul confine che scinde la beatitutine dalla dannazione. Troppo infimi, troppo impuri, troppo corrotti per anche solo comprendere ciò che è l'affermazione di un verbo che fu creazione, e quando sfiorati, anche solamente, dalla bellezza dell'universalità dell'amore, ci tendiamo come le corde di un arco. E il suo segreto, in fondo, sta proprio nella sua forma essenziale: l'amore che ti conforta e ti fa sentire al sicuro. Quello che nessuno vorrebbe mai abbandonare. E anche se sappiamo che c'è un tempo e un luogo per qualsiasi cosa, per chiunque, come diceva quel grande poeta (o come si sospetta, poetessa) che scrisse il Qoelet, sentiamo continuamente, dentro, il timore dell'abbandono, della separazione che ci fa precipitare al suolo come fiori appassiti, volteggiando da immense altezze prima di toccare terra; un dolore che riconosciamo fin dal nostro primo respiro: quando ci viene tagliato il cordone ombelicale e, nella totale inconsapevolezza e dimenticanza del perché ci capita e di ciò che ci aspetta, affrontiamo un mondo abbagliante e rumoroso, sporco e puzzolente, dove dobbiamo cercare di ricostruire noi stessi, lentamente. E l'unico desiderio che noi abbiamo, uscendo dall'oscurità, è quello di non dovercene separare, perché sentiamo quella mancanza in modo più doloroso di un'amputazione, ma in tutto il lasso di tempo in cui lottiamo alla luce del sole, dobbiamo imparare le leggi che vigono sotto il suo sguardo che splende su chiunque, buoni o cattivi, ricchi o poveri, vittime o carnefici. Il dolore della separazione è così forte che sviluppiamo l'irrazionale paura di doverlo riaffrontare di nuovo, e in questo modo rifuggiamo dall'abbraccio che ci aveva accolto, perché come esseri separati, all'esterno, vediamo in esso tutta la sua manifestazione mancata. Come un sapore che non riusciamo a ricostruire nemmeno mentalmente, percepiamo di nuovo la tenue sensazione dell'abbandono ad un abbraccio che non è mai passione, ma solo accoglienza, amore incondizionato e conforto. Immenso, bellissimo, senza pari.
Non c'è nulla di realmente umano in questo. Ne possiamo manifestare solo la pallida ombra. Ma, dentro, tutti lo conosciamo a menadito e vi aneliamo il ritorno, dall'inizio alla fine della nostra vita. Da un capo all'altro del mondo. Da un capo all'altro di noi stessi.