Ero una piccola creatura nel cuore
Prima di incontrarti,
Niente entrava e usciva facilmente da me;
Eppure quando hai pronunciato il mio nome
Sono stata liberata, come il mondo.
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti.
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri.
Stupidamente sono scappata da te;
Ho cercato in ogni angolo un riparo.
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito.
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto.
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto.
Restituendomi
Al tuo abbraccio.
Mary-Elizabeth Bowen
Hecate la Strega
Trattiamo ora, tra tutte le divinità femminili del pantheon greco, una delle due più complesse, antiche e stratificate, nonché tuttora anche tra le più adorate ad attive. Il ruolo di Strega, quindi di divinità saggia ma oscura, tocca senza ombra di dubbio ad Ecate. Nel mito greco questa divinità ha una duplice paternità che può quindi far intendere il periodo estremamente lontano in cui ebbe origine. Si tratta infatti di una divinità pre-olimpica, risalente alla geneaologia titanide. Secondo Esiodo era infatti figlia di Perse ed Asteria. Questi due titani avevano come simbolo la luce, pertanto Esiodo richiama in Ecate il concetto di Signora delle Stelle e chiara erede al ruolo di Regina del Cielo. Dal momento, inoltre, che sempre secondo questo autore la madre Asteria era sorella di Leto, Ecate sarebbe a tutti gli effetti una parente diretta di Artemide, dea che rispecchierebbe poi uno dei suoi tre aspetti, ossia quello di "giovane" e che si ritroverebbe nel sincretismo lunare attribuitole da Porfirio nel suo Culto delle Immagini. A proposito della sua genealogia c'è, tuttavia, anche una tradizione differente, narrata dal filologo bizantino Giovanni Tzetzes nel suo Scoli a Licofrone, che vuole Ecate come figlia di Zeus e Ferea, a sua volta una delle figlie di Eolo, il dio dei venti. Rimasta gravida di Zeus, la madre rifiutò però la bambina che nacque e, abbandonatala presso un crocicchio, fu trovata da un pastore che la crebbe come fosse sua.
Ci sono molte zone d'ombra nel mito di Ecate, nella sua storia e nelle sue stesse origini. La prima è senza ombra di dubbio l'etimologia del nome, che ha alcune interpretazioni differenti. Letteralmente Hekátē in greco significa "Centinaia", e questa opzione sarebbe da richiamare al concetto delle sue molteplici forme e manifestazioni, ma secondo alcuni ci sarebbero anche altre interpretazioni oltre ad ekaton, e sarebbero ekati, che significa "a proprio piacimento" o anche ekatos, “saettatrice” o "colei che colpisce da lontano". Come ci fa notare Kerenyi nel suo Gli dei della Grecia: "Essa ci era ‘vicina’ in senso strettamente letterale. Infatti davanti alla maggior parte delle porte che davano sulla strada essa si ergeva quale Prothyraia, che portava aiuto - o crudeli vessazioni – alle puerpere, stava pure nei trivi, dove sorgevano le sue immagini: tre maschere di legno attaccate a un palo, oppure una statua trimorfa, con i tre visi rivolti nelle tre direzioni".
Anche sulle sue origini cultuali ci sono diverse possibilità prese in considerazione dagli studiosi. Sono in molti, infatti, a sostenere che si tratti di una divinità pre-indoeuropea, inglobata nel culto greco come Signora delle Streghe e come entità psicopompa, ossia in grado e con il compito di condurre gli spiriti dei morti nel regno dell'aldilà, pertanto in possesso del potere di viaggiare a piacimento negli inferi e in superficie. In questo ruolo era molto venerata in una regione della Grecia classica nota come Tessaglia. Questa provincia era temuta da molti proprio perché si riteneva che le sacerdotesse di Ecate fossero in possesso di poteri magici straordinari e terribili, di cui ci narra anche Apuleio nella sua opera più famosa: l'Asino D'oro.
Ad ogni modo la sua origine, secondo il parere di molti studiosi, sarebbe originaria della Caria, una regione dell'Asia Minore compresa tra la Ionia, la Frigia e la Licia e affacciante sul mar Mediterraneo e parte dell'Anatolia, l'attuale Turchia. Si tratterebbe in questo contesto della trasposizione di un'antica dea delle terre selvagge portata da popolazioni anatoliche e, in seguito, denudata del suo aspetto fecondo e fertile, di cui rimane traccia nel fatto che allattò Asclepio, e, solo in epoca tolemaica, resa la Oscura Signora dei fantasmi e delle streghe.
Ecate appare spesso nei miti, ma non ne esiste uno che in qualche modo le sia personale. In particolar modo la sua presenza è molto sentita nell'Inno Omerico a Demetra quando, in seguito al rapimento di Kore, fu l'unica che udì, assieme con la madre, l'urlo di aiuto della giovane mentre veniva strappata dall'abbraccio delle oceanine. E fu lei che suggerì a Demetra di rivolgersi ad Elio che tutto vede affinché potesse raccontarle cosa fosse avvenuto. Inoltre, per quanto contestato sia questo inno, Ecate si prende in pegno di controllare che il patto stipulato, secondo il quale Persefone deve rimanere negli inferi per tre/sei mesi all'anno, sia rispettato. Appare anche nella gigantomachia nella Biblioteca di Apollodoro, e viene rappresentata sull'altare a Zeus di Pergamo, datato II secolo a.C., mentre, triformis, quindi con sei braccia e tre teste, abbatte il gigante Clizio usando la spada, la lancia e la torcia, affiancata dal suo cane molosso. Ed inoltre, come abbiamo visto, viene citata nella Teogonia di Esiodo quando se ne descrivono i natali, narrati in versione differente da Tzetzes negli Scoli a Licofrone. Le altre apparizioni che ci sono giunte sono per lo più di contorno e riguardano sempre invocazioni in cui la si cita per questo o quel motivo, ma non veri e propri miti. La maggior parte di questi non fanno altro che descriverla come una dea spaventosa, sepolcrale, terribile e sempre accompagnata da una coorte di fantasmi che la segue, nonché preceduta dal raggelante latrato dei suoi cani infernali. Spesso riveste, quindi, il ruolo di dea infera. Tuttavia, prima di essere una divinità ctonia, signora dei fantasmi e della morte, Ecate era una divinità celeste, legata alle nascite e alle creature selvagge. È spesso rappresentata con un diadema di stelle o una luna calante sulla fronte. Questo stesso simbolo, soprattutto nel modo in cui è posizionato, ci richiama il luogo di provenienza, dato che è del tutto simile a quello di Hathor e che ritroviamo anche sul capo di divinità mesopotamiche, come Ishtar: il simbolo lunare a mezzaluna con le due punte verso l'alto. Questo tipo di luna è visibile in particolare in una precisa zona del mondo: l'attuale Turchia, dove sorge, ancora adesso, uno dei santuari più importanti di Ecate.
Possiamo riconoscere, e anzi isolare, quattro aspetti diversi di questa divinità: uno celeste, uno infero-stregonico, uno filosofico e lunare e uno magico-teurgico. Cerchiamo ora di analizzarli.
Nonostante la sua correlazione con i poteri ctoni ed inferi, Ecate era lungi dall'essere una dea sterile e mostruosa come ci viene rappresentata spesso. Le erano sacre la colomba, il cane, il cavallo e il serpente e svariati tipi di piante come i ciclamini, l'edera, il croco, la mandragora, il tasso, il pioppo nero e il salice, oltre che tutti i veleni. Ella, infatti, era ritenuta una dea herbana. Molte delle piante a lei sacre avevano connotazioni con alcuni suoi epiteti: la mandragora ad esempio è una pianta psicotropa la cui radice è uno degli ingredienti magici più potenti anche per la presenza al suo interno dell'atropina, un alcaloide ad alta tossicità che inibisce i recettori muscarinici, provocando così la paralisi dei muscoli con funzioni autonome e in alte dosi causa la morte. A giuste dosi è utilizzata per curare le disfunzioni erettili e in dosi più elevate per provocare l'espulsione del feto dall'utero. Il ruolo di Ecate, umanamente, era quindi anche quello di lasciare che la donna scegliesse se essere gravida o meno. Non preferiva la vita alla morte o la morte alla vita: era semplicemente una dea levatrice e ancora una volta era patrona del passaggio tra due stati diversi dell'esistenza.
Ad Ecate era sacro il salice, che era noto per essere una pianta sacra anche a Persefone, con cui sviluppò una forte affinità, anche perché faceva parte, insieme a lei, della triade divina che in un certo senso poi si ritrova a rappresentare da sola quando diviene trina e, come ci dice l'Inno a Demetra, "precedeva e seguiva Persefone", quindi letteralmente accompagnava la dea nel suo salire e discendere negli inferi. Proprio legato a questo fatto le era sacro il salice, che era ritenuto una pianta della sterilità e dell'aborto in quanto, come ci fa notare Alfredo Cattabiani nel suo: Florario e come esposto da Heiden nel suo articolo a riguardo, disponibile alla pagina relativa: "Il salice ha la particolarità di completare rapidamente la maturazione del frutto, provocandone la caduta che all'occhio inesperto può sembrare prematura, un aspetto che ha colpito molto gli antichi Greci: l'immagine era quella di un albero vivente uccisore dei propri frutti, simbolo della Madre che perpetuamente genera, per poi riprendere nel suo grembo i figli generati. Per questo motivo il salice fu sacro a tutte le dee madri, ma anche a Persefone, legame testimoniato dal dipinto di Polignoto a Delfi.
Anche se sacro alle dee madri, era pur sempre considerato un “distruttore di frutti”: l'iconografia lo voleva sia come glorificatore del grembo materno, sia come simbolo di astinenza sessuale e purezza, diventando quindi una pianta al contempo madre e vergine, germogliante e casta, vivente e morta. Molti autori del passato lo consideravano un rimedio per la lussuria e i bassi istinti, capace di sopire il desiderio sessuale a tal punto da assumere il nome ágnos, casto".
Ecate aveva sacro anche il croco, il ciclamino, l'edera e il tasso. Queste piante sono legate ad un periodo dell'anno particolare, ossia il momento oscuro. Il croco, come leggiamo anche nell'Inno Orfico a lei dedicato, era anche il colore del mantello che indossava: il giallo zafferano, mentre il ciclamino, come l'edera, riportano al concetto di "ritorno" alla vita, tipico di una divinità che può viaggiare attraverso il velo degli inferi senza farne comunque dimora. L'etimologia stessa del ciclamino deriva dal greco kyklos il cui significato è "ciclo". Non è quindi un caso che sia sacro ad una dea che presiede allo stesso ciclo vitale di ogni essere vivente. Ma oltre a questo, il ciclamino era ritenuta una potente pianta apotropaica, come ci suggerisce Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia. Allo stesso modo troviamo l'edera, simbolo dell'immortalità, essendo un sempreverde, il cui nome latino è edera helix, ossia "elicoidale", per i suoi tralci che richiamano la spirale, simbolo di morte e rinascita, dato che ha anche la peculiarità di crescere sui sepolcri. Ed in un tale contesto si inserisce anche il tasso, un sempreverde dalla forte velenosità, che cresce con facilità in zone dove si seppelliscono i morti e con cui si avvelenavano le frecce, da cui deriva il nome stesso della pianta, che deriva dal greco taxon, che significa appunto "freccia".
Ora, con tutti questi elementi vediamo come non sia difficile capire come Ecate rappresenti questo duplice simbolismo: la morte e la vita. E non disdegna nessuno dei due. È abbastanza similare al concetto di Cerbero, ritenuto di sua proprietà: il cane mostruoso non era a guardia del cancello degli inferi solo per impedire agli uomini di "entrare", ma anche per impedire ai morti di "uscire". Colei quindi che sta a guardia della morte è anche colei che sta a guardia della vita: se è patrona dei veleni e della stregoneria è sminuente pensare che lo sia solo per elargire morte e malefici, bensì è più logico supporre che abbia anche la funzione di proteggere da queste stesse diverse minacce e perché no, di favorire la guarigione, dato che le stesse sostanze che risultano fatali a certe dosi, divengono salvifiche ad altre.
In quanto divinità celeste troviamo in Ecate una forte affinità con Giano Bifronte, che come lei era patrono dei passaggi. Giano, un dio italico dal duplice volto: uno barbuto e uno giovane, portava tra le mani una chiave che usava per aprire le porte solstiziali e un bastone, che serviva da guida. Ecate, in molte rappresentazioni, porta due torce tra le mani: simbolo di guida infera nell'oscurità della morte e, come viene nominata da Sofocle, è nota come Enodia. Questo epiteto non è nuovo ed esclusivo a lei, bensì lo si ritrova in molte divinità che si ritiene dovessero svolgere un ruolo apotropaico strettamente legato ai passaggi, come lo stesso Giano, per l'appunto, che Proclo, nel suo inno mette in relazione con Ecate:
Ad Ecate e a Giano
Salve, o madre degli dèi, dai molti nomi, dalla bella prole;
salve, o Ecate, custode delle porte, di gran potenza;
ma anche a te salve, o Giano, progenitore, Zeus imperituro;
salve Zeus supremo;
rendete luminoso il cammino della mia vita,
colmo di beni, stornate i funesti morbi
dalle mie membra, e l'anima, che sulla terra delira,
traete in alto, purificata dalle iniziazioni che risvegliano la mente.
Vi supplico, tendetemi la mano, e le divine vie
mostratemi, ché le desidero; la luce preziosissima io voglio mirare,
onde m'è dato fuggire la turpitudine della fosca generazione.
Vi supplico, porgetemi la mano, e con i vostri soffi
me travagliata sospingete nel porto della pietà.
Salve, o madre degli dèi, dai molti nomi, dalla bella prole;
salve, o Ecate, custode delle porte, di gran potenza; ma anche a te
salve, o Giano, progenitore, Zeus imperituro; salve Zeus supremo.
Quindi Proclo, così come anche Eschilo e Aristofane, pone sia Giano che Ecate come patroni delle porte e dei passaggi. Entrambi erano degli dei celesti. In questo modo possiamo considerare come Ecate, in un primo momento rappresentata come singola, ebbe un momento di duplicità nel suo ruolo di protettrice delle partorienti e dei defunti ed infine, come ci fa notare lo stesso Esiodo nella Teogonia, assume il ruolo di nume tutelare delle strade e viene posta a presiedere ai crocicchi, acquistando così il terzo volto, affinché possa guardare e proteggere ogni accesso e ogni via: sia quelli visibili che quelli invisibili. I suoi tre volti: umano, canino ed equino, rappresentano rispettivamente il suo aspetto di protettrice dei viaggiatori dei tre mondi: la terra, gli inferi e il cielo, in questo caso la luna, che secondo gli insegnamenti di Ippocrate, Senocrate identificò come legata all'inconscio, al lato oscuro e l'invisibile. Ecate quindi manteneva un legame con tutti i mondi e, in quanto psicopompa, proteggeva i viaggiatori che andavano e venivano da e verso questi mondi, mantenendoli separati e ponendosi così come intermediaria. E proprio come Giano, che aveva due volti, uno barbuto e uno effeminato, anche Ecate aveva una natura pseudo bisessuale, perché possedeva entrambi i poteri di generazione e distruzione, e come lui teneva tra le mani le chiavi che la rendevano così custode degli ingressi.
Ecate era in effetti una dea sepolcrale molto temuta, in quanto le si attribuiva il potere dei fantasmi, degli spettri e delle apparizioni infernali. Per quanto venisse convocata come soteira, quindi salvifica, soprattutto in epoca tarda era anche considerata infausta. Per l'incauto viaggiatore incontrarla poteva significare la morte, dato che rischiava di finire sbranato dai suoi cani infernali. A tal proposito, esattamente come ad Afrodite, ad Ecate venivano tributati sacrifici di cani neri, gli stessi mastini dagli occhi fiammeggianti che la accompagnavano nelle sue apparizioni, come ci racconta Lucano nel De Bellum Civile, Orazio nelle Satire e lo stesso Virgilio. Ciò nonostante, secondo quanto ci riporta Esiodo, deteneva il potere di realizzare i desideri delle persone che incontrava; una prerogativa che, prima di lei, spettava solamente a Zeus. A differenza, però, del suo potere mentale e distaccato, Ecate, specialmente nei Papyri Magici, oltre che nella letteratura più tarda, veniva invece rappresentata mentre apriva le porte degli inferi, mentre conduceva gli spiriti dei defunti da una parte all'altra, patrocinando quindi il vero e proprio transito dell'anima nei luoghi di confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. In quanto dea herbana e levatrice (come vedremo con la sua possibile connessione con l'egizia Heqet), svolgeva un ruolo escatologico legato alla nascita e alla morte, accompagnando l'anima umana in entrambi i loro viaggi più importanti: quello dallo stato sottile per giungere alla materia e quello dalla materia per tornare al sottile. La sua coorte di fantasmi non era, tuttavia, composta dalle anime dei defunti di cui lei aveva favorito il transito in modo completo, bensì dalle anime disincarnate di coloro che, durante gli ultimi momenti di vita, non erano riusciti, in qualche modo e per qualche ragione, a disgiungersi dal corpo fisico con successo. Si riteneva, quindi, che questi spiriti, non più in possesso della facoltà di transitare nel regno al quale sarebbero appartenuti in circostanze normali, si ritrovassero costretti a vagare con lei in giro per il mondo a precederla e seguirla nella sua coorte infernale e nelle apparizioni che concedeva a chi era così coraggioso, o bisognoso, da evocarla. La spiegazione eziologica di questi eventi, ben noti a chi ha a che fare con il traghettamento delle anime o, comunque, agli occultisti, è da ricercare nella consapevolezza di un periodo di "sospensione" in cui l'anima, distaccata dal corpo, rimane in qualche modo legata al mondo fisico prima di transitare nei regni più sottili. Il compito di garantire un passaggio sicuro a queste anime apparteneva a delle figure liminali al seguito della dea, chiamate, dai greci, anche daemones, che nel contempo, erano ritenuti anche in qualche modo entità infauste e che, per questo divennero "demoni". Per ottenere il favore di questi daemones, dato che sottostavano al potere di Ecate, era uso inserire, all'interno delle tombe, delle tavolette di argilla recanti vere e proprie maledizioni. In questo modo era possibile garantire che l'anima del defunto venisse condotta dall'altra parte senza rimanere bloccata. Su queste tavolette, affiancato alla maledizione, spesso appariva il nome di Hermes-Psychopompos, e ben più spesso e con il medesimo fine, quello della stessa Ecate.
Come ci giunge dai Papyri Magici, era pratica dei maghi, dei negromanti o dei teurghi (come lo è tuttora anche grazie agli insegnamenti giuntici da Cornelio Agrippa e contenuti nelle varie Clavis) fare uso dei daemones e degli spiriti disincarnati per ottenere i poteri atti a ricevere risposte o per attuare i propri scopi. La loro abilità di transito attraverso i mondi concedeva un potere immenso a chi sapeva richiamarli ed usarli per i propri fini. Nonostante ciò, in quanto sotto il dominio di Ecate, per ottenere il loro aiuto era necessario rivolgersi a lei e ottenere il suo favore e la sua collaborazione. Fu in questo modo, quindi, che il ruolo infero e ctonio di questa dea trovò la sua piena epifania nel suo aspetto di Regina delle Streghe e della magia; un ruolo che è confermato da molti autori, tra cui Apuleio, nel suo Asino D'oro, come abbiamo accennato precedentemente. In questa commedia il protagonista Lucio, in viaggio in Tessaglia, una regione della Grecia, con la scusa di cercare di scoprire il segreto della sua ospite, la strega Panfila, e per questo avvalendosi dell'aiuto della serva Fotide, invaghitasi di lui, finisce trasformato per errore in un asino. Prima di questi eventi, durante il suo viaggio, ebbe modo di udire una storia raccontata ad una cena che narrava del giovane e povero Telifrone, il quale, giunto a Larissa, nel cuore della Tessaglia, accettò, in cambio di una grossa somma di denaro, di fare la guardia al cadavere di un uomo, dato che tutti gli abitanti erano assolutamente certi che le streghe sarebbero giunte nottetempo a strappare a morsi alcune parti del volto del defunto per farne componenti di incantesimi, addormentando con alcune malie tutti i guardiani.
Anche Ovidio parla delle streghe tessaliche nelle Metamorfosi, dove Medea, le cui gesta fecero da fulcro per le opere di Euripide e Seneca, e che appare anche nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, si prodiga in una meravigliosa invocazione ad Ecate per acconsentire a Giasone di ritornare dall'Ade: "Mancavano tre notti perché la falce lunare si chiudesse in un cerchio perfetto. Quando la luna rifulse piena e con tutto il fulgore del suo disco si volse verso la terra, Medea uscì di casa indossando una veste sciolta, a piedi nudi e capo scoperto, i capelli sparsi sulle spalle, e nel cuore della notte, in quel silenzio di tomba, senza meta, sola si mise a vagare. Una quiete profonda assopiva uomini, uccelli e fiere. Non un brusio fra le siepi; tacciono immobili le fronde, tace l'aria umida; palpitano solo le stelle. E a loro lei tende le braccia, gira tre volte su sé stessa, tre volte spruzza i capelli con acqua di fiume, tre volte spalanca la bocca in grida lamentose e, caduta in ginocchio sulla dura terra: «O Notte,» invoca, «fedele custode di misteri; astri d'oro, che a fianco della luna vi alternate ai bagliori del giorno; e tu, Ecate tricipite, che della mia impresa sei conscia e porgi aiuto agli incantesimi e all'arte dei maghi; o Terra, che ai maghi procuri erbe prodigiose; e voi brezze, venti e monti, voi fiumi e laghi, dèi tutti dei boschi, dèi tutti della notte, voi tutti assistetemi! Grazie a voi, quando voglio, i fiumi tornano, fra lo stupore delle rive, alla loro sorgente; per incanto sconvolgo il mare in bonaccia, placo quello in burrasca, dirado le nubi e le addenso, allontano i venti o li sollecito; recitando le mie formule squarcio la gola alle vipere, dalla loro terra sradico e smuovo pietre vive, querce e selve, ordino ai monti di tremare, al suolo di muggire, alle ombre di uscire dai sepolcri. A me attiro anche te, Luna, sebbene i bronzi di Tèmesa t'allevino l'agonia; e anche il cocchio di mio nonno impallidisce ai miei sortilegi, e impallidisce l'Aurora con i miei veleni. Voi m'avete soffocato le fiamme dei tori, aggiogato all'aratro ricurvo i loro colli insofferenti; voi avete spinto gli esseri nati dal serpente a battersi fra loro, avete addormentato il guardiano insonne; eludendo la sua vendetta, avete rimesso l'oro alle città della Grecia. Ora occorrono filtri, perché la vita di un vecchio si rinnovi e recuperi la gioventù, tornando a fiorire. E voi me li darete. Non hanno brillato invano gli astri, non m'attende invano un cocchio aggiogato a draghi alati!»"
Ecate era quindi associata alle streghe, alle arti magiche e alle zone oscure dell'animo. In parte questo deriva dal fatto che fosse una divinità dei "passaggi" e che quindi fosse presente ed invocata nel contesto legato alla nascita tanto che in quello legato alla morte. Come già specificato si tratta di una dea "levatrice" e ostetrica e, allora come adesso, pressoché solo le donne svolgevano un servizio tale nei confronti di altre donne. Ecate veniva pertanto convocata dalle herbane che, nella loro profonda conoscenza dei rimedi naturali, detenevano l'immenso il potere di saper togliere la vita così come di favorirla. Esse conoscevano la sottile arte dell’irretire i sensi, del far espellere un feto non desiderato, dell’alleviare il dolore delle contrazioni, del favorire la dilatazione o facilitare il passaggio di una persona che soffriva. Segreti, questi, che ancora adesso vengono detenuti dagli erboristi e che sono poi passati alla medicina, che si serve di alcuni tipi di veleni, anche se sintetizzati, per scopi terapeutici.
Il suo legame con le streghe, tuttavia, come spesso accade, rivestì Ecate di un alone malvagio, terribile, ed oscuro. I crocicchi, che le erano sacri in quanto dea dei viandanti, quindi protettrice delle vie, portarono, secondo Pausania, alla sua iconografia in forma triplice solamente nel quinto secolo. E proprio i crocicchi, dove si potevano trovare le sue statue che, in questo modo, potevano guardare in ogni direzione, più tardi divennero luogo di sepoltura per assassini, suicidi e praticanti delle arti magiche e, in seguito, il luogo preferito per le apparizioni del diavolo. Tuttora, in molti di questi antichi trivi, è possibile trovare statue della Madonna. Ma nel contesto demonizzato dal cristianesimo si celava ben di più che la semplice antipatia o "infernalità" per una divinità legata agli incantesimi, ai veleni e a alla magia. Ecate era anche la tutrice delle scelte. Lei non aveva solo la funzione apotropaica di proteggere i viaggiatori sulla loro via affinché non trovassero pericoli, ma, più sottilmente, quella di tutelare le loro scelte in quanto conoscitrice degli opposti. Ed è proprio il concetto di "scelta" che più di ogni altro prende senso nel ruolo di questa dea. Ecate infatti, come abbiamo visto, tiene tra le mani delle torce, nel pieno significato di "portare luce" nell'oscurità; un ruolo che troviamo anche in Demetra quando, nell'opera di Claudiano, decide di discendere a cercare la figlia rapita. E cosa vediamo quando ci troviamo di fronte ad una divinità che porta luminosità sotto forma di torce? Una dea che cerca la conoscenza nell'oscurità, non che la scaccia. Ecate appartiene all'oscurità come appartiene alla luce; conoscendo entrambi gli aspetti detiene, quindi, le chiavi per aprire tutte le porte spirituali e concettuali che chi la segue si troverà di fronte. Prendere, quindi, una via e non un'altra, scegliere un bivio e non un altro ad un crocicchio era comunque porsi di fronte ad una scelta che poteva determinare una rotta completamente diversa nel nostro viaggio. Posta con il suo sguardo triplice, questa dea proteggeva tutte le scelte, tutte le vie. Tutelava quindi il viaggiatore nelle sue stesse decisioni, ponendolo di fronte alla propria responsabilità ma tutelandolo nelle sue scelte, buone o cattive che potessero apparire, grazie al fatto che lei conosceva ogni cosa, guardando in tutte le direzioni. Ecate porta con sé la conoscenza del potere che deteniamo e che deriva dalla nostra scelta e ne diventa ispiratrice oltre che protettrice. È proprio questo uno dei motivi in cui si potrebbe ricercare il significato stesso della demonizzazione di un culto come quello di questa dea. Nel cristianesimo antico, occultante e oscurantista, "scegliere" significava allontanarsi dalla verità e la luce posta come unica via di salvezza. Il termine stesso "eresia", infatti, deriva proprio dal greco airesis, che significa "scelta". E chi veniva definito "eretico" correva il rischio di un triste destino. Inoltre, i crocicchi rappresentano l'incrocio di due vie, pertanto di scambio energetico, di incontro tra diversi flussi che formano, in questo modo, un nodo, un punto particolarmente potente. Non era insolito infatti trovare sepolti gli incantesimi a questi incroci. Ancora una volta vediamo come nulla è dato al caso, insomma.
C'è tuttavia un ulteriore aspetto della sua consacrazione agli incroci che è di sicuro da prendere in considerazione. I confini, come tali, sono i luoghi in cui esiste una sorta di "terra di nessuno". In antichità vi si ponevano pietre itifalliche note come "erme", le quali, secondo lo stesso Graves, portarono in seguito al culto orgiastico di Ermes, da cui deriva l'etimologia dello stesso nome. Queste pietre rappresentavano sia una minaccia che un segno di potere atto a dichiarare ai possibili invasori o valicatori del confine che chi vi abitava sarebbe stato pronto a difendere, virilmente, i propri possedimenti. Il fatto che queste porzioni di terreno fossero poste tra diversi reami, esattamente come i crocicchi non appartengano a nessuna delle strade che vi si incontrano, portò alla definizione di questi luoghi come se fossero al di fuori del tempo e dello spazio, quindi a tutti gli effetti confini tra i mondi. Se pertanto questi reami non si trovavano né nel piano visibile né in quello invisibile, stavano di fatto in uno stato intermedio, tra la vita e la morte, tra un reame ed un altro; una sorta di limbo popolato da fantasmi e creature spaventose. E, come abbiamo visto, divennero quindi luogo di sepoltura per streghe e parassiti della società, nonché luogo utile per incontrarsi con spiriti dei reami inferiori. Ai crocicchi era quindi possibile fare un patto con il Diavolo sia perché ritenuto nella cristianità qualcosa di simile ad un demone, un daemones, uno spirito comunicatore, ma anche perché, in un certo senso, i termini dell'accordo sarebbero stati contrattati in un porto franco.
Il terzo aspetto che caratterizza Ecate è la sua forte connessione lunare che si ritrova in molti autori greci, come Porfirio, Plutarco e Seneca. Tuttavia la sua associazione è decisamente tarda, seguente a quella della stessa Artemide, con la quale Robert Graves, nel suo I Miti Greci, sulla via dei Papiri Letterari Greci, la introduce appunto come triade lunare assieme con Selene, con cui Porfirio nel Culto delle Immagini spesso la fonde, usando indifferentemente un nome o l'altro. Questo autore, associando Ecate alla luna, creò in seguito anche una forte confusione tra questa dea e Artemide: "Ma, ancora, la luna è Ecate, il simbolo delle sue diverse fasi e del potere dipendente dalle fasi. Quindi il suo potere appare in tre forme: come simbolo della Luna nuova viene raffigurata con veste bianca, sandali dorati e torce illuminate. Il cesto che porta quando è alta, è il simbolo della coltivazione dei raccolti che lei fa crescere secondo l'aumento della luce. Di nuovo il simbolo della Luna piena è la dea dai sandali simili ad ottone. Oppure, come qualcuno potrebbe sostenere, dal ramo d'ulivo che porta, si può arguire che è di natura impetuosa. Dal simbolo del pioppo, qualcun altro potrebbe sostenere che sia produttiva e che una moltitudine di anime dimorano dentro di lei, come se fosse una città, dato che questa pianta è il simbolo delle città". Ma, come abbiamo visto, anche Graves mise Ecate in triade lunare con Artemide e Selene: "Le tre fasi della Luna si riflettevano nelle tre fasi della vita della matriarca: vergine, ninfa (nubile) e vegliarda. In seguito, giacché l'annuale corso del Sole ricordava anche il crescere e il decrescere delle sue forze fisiche (la primavera come vergine, l'estate come ninfa, l'inverno come vegliarda), la dea fu identificata con i mutamenti stagionali che segnavano la vita delle piante e degli animali, e dunque con la Madre Terra che all'inizio dell'anno vegetativo produce soltanto foglie e boccioli, poi fiori e frutta e infine si isterilisce. La dea fu identificata poi con un'altra triade: la vergine dell'aria, la ninfa della terra e la vegliarda del mondo sotterraneo, personificate rispettivamente da Selene, Afrodite ed Ecate. Queste mistiche analogie contribuirono a dare un carattere sacro al numero tre e la dea Luna fu simboleggiata dal numero nove quando ciascuna delle sue tre persone (vergine, ninfa e vegliarda) si manifestò in triade per dimostrare la sua divinità". Per quanto, a tutti gli effetti, l'unica triade divina di origine greca non ipotizzata è composta da Proserpina, Selene ed Ecate. Molteplici quindi sono i modi in cui possiamo vedere una triade divina e molto spesso, in seguito, con la nascita e la diffusione del neopaganesimo, questa dea, in quanto triplice, prese sempre di più l'aspetto di anziana strega dai capelli bianchi e grigi, sterile e assolutamente priva di compassione o nutrimento. Molte autrici cominciarono ad associare Ecate al momento della menopausa e il potere ctonio di questa dea, oltre che tutto il resto del bagaglio culturale che le apparteneva, fu oscurato dando più risalto al suo aspetto lunare calante ed oscuro. Ironicamente, in questo modo questa visione non fece altro che far emergere ancora di più la prima e più grande privazione che fu perpetrata a questa dea ad opera degli elleni, i quali diedero risalto al suo potere distruttivo più che a quello salvifico e rigenerativo che portava in buona misura con sé. Infatti, come si può constatare anche nella Teogonia, Esiodo la definisce chiaramente come una forma triade che regna sul cielo, sulla terra e sugli inferi. Fu così che a noi è arrivata prettamente la sua associazione alla magia, alla distruttività, all'oscurità e al lato espressamente infero. è tuttavia possibile ipotizzare che l'associazione di Ecate alla luna probabilmente deriva, ancora, dal suo aspetto di divinità tutelare dei confini e dei passaggi. A sostegno di questa ipotesi vorrei far notare che nella corrente filosofica del medioplatonismo si riteneva infatti che la luna fosse un punto mediano tra il mondo sensibile e quello intelligibile, secondo la teoria esposta nella Repubblica di Platone e, inoltre, che fosse anche un'entità che fungesse da mediatore tra i due mondi.
Nella visione lunare proposta da molti filosofi, Ecate svolge quindi sempre un ruolo di intermediaria che, da un punto di vista teurgico, rappresenta un forte simbolismo di medianità, come ci arriva anche dalla dottrina medioplatonica sopracitata. Questa natura di interconnessione e di transizione viene attribuita alla luna, da Plutarco, in uno dei suoi Moralia, in particolare il Platonicae quaestiones, dove sostiene che marchi il punto nel quale viene attuata una divisione sostanziale tra diversi reami e sostiene, inoltre, che sia natura anche dei daemones rivestire un ruolo transizionale. Un'ipotesi che ci giunge anche da Senocrate, il quale riteneva che esistessero tre diverse densità: gli dèi appartenevano alla prima, gli uomini alla terza e i daemones appartenevano ad entrambe queste nature. In questo schema, troviamo come la luna rivesta il ruolo centrale di connessione tra il primo e il terzo. L'aspetto di transizione tra i mondi pare, in effetti, l'unica reale connessione empirica tra Ecate e la luna. Ma dopotutto l'aspetto lunare di Ecate è decisamente tardo, risalente al primo secolo, due più tardi della lunarità di Artemide. In effetti il culto di Ecate, di origine pre-ellenica, con probabilità ci riconduce di nuovo ad una dea della terra e della fertilità, da qui il suo aspetto luminoso e oscuro. Il suo ruolo più accreditato è, quindi, ancora una volta quello che la affianca a Persefone e Demetra nel ruolo di Fanciulla e di Madre. In un contesto agreste Ecate anche nel mito trova il suo pieno ruolo, non solo aiutando la dea del grano a trovare la figlia perduta, ma anche prendendosi l'onere di accertarsi che il patto stipulato per il suo ritorno in superficie venga rispettato. Inoltre in questo sviluppa anche un rapporto molto particolare con la stessa Persefone che, una volta divenuta Regina degli Inferi, trova nella compagnia di Ecate un ottimo passatempo.
Nello stesso ruolo, vediamo anche come Ecate sia associata alle tre Moire, le guardiane del fato. Plutarco, nel De genio Socratis, descrive il viaggio sublunare di Timarchus, un millantato figlio di Socrate; questi ci parla dell'universo come diviso in quattro regioni, ognuna delle quali presieduta da una "detentrice delle chiavi", una delle sorelle del Fato, figlie della dea Necessità. La prima di queste regioni apparteneva alla vita, la seconda al moto, la terza alla nascita e l'ultima al decadimento. Ognuna di queste diverse zone era collegata alla seguente. Atropo deteneva le chiavi tra la prima e la seconda, Cloto quelle tra la seconda e la terza, e Lachesi quelle tra la terza e la quarta. Ma chi stava a guardia del quarto passaggio, relativo al decadimento? L’ultima porta era presieduta dalla Moira Forte. Ecate stessa era nota come "detentrice delle chiavi" e veniva appunto rappresentata con in mano questo simbolo iniziatico che le consentiva di avere accesso ai diversi reami, entrando ed uscendo a piacimento; un sincretismo che la legava appunto al dio italico Janus Bifrons, il guardiano del cielo, che aveva un volto barbuto e uno giovane.
Se Ecate, quindi, era definita anche una delle Moire, questo, come abbiamo visto nell’articolo a lei relativo, la lega all'aspetto sepolcrale di Afrodite, a cui non per nulla erano tributati cani neri come sacrificio, esattamente come alla Trivia. Anche la dea dell'amore, nel suo aspetto empio, era reputata come una delle sorelle del fato. Se quindi Cloto, la tessitrice, tesseva il filo, Lachesi, la misuratrice, ne decideva la lunghezza e Atropo, colei che non può essere dissuasa, lo recideva, Ecate, la forte, rivestiva il quarto aspetto, quello che collega la morte alla nascita e la vita alla morte: svolgeva pertanto il ruolo di passaggio tra i diversi reami. A questo proposito Apollonio Rodio ci fa il nome di questa quarta misteriosa Moira e la nomina Crateide, appunto, la forte, che dall'unione con Forco ebbe Scilla, il mostro marino che abitava una grotta su uno scoglio nell'attuale stretto di Messina. Ma secondo alcuni, ancora una volta, fu proprio Ecate a partorire Scilla.
Valutiamo per un momento il commento che la dottoressa Jenny Strauss Clay, esimia docente del Dipartimento di Classica dell'Università della Virginia, fa a riguardo del rispetto che il supremo Zeus porta a Ecate, sopra ogni altra, tanto che il passaggio dall'era titanide a quella olimpica non la toccò in modo particolare. La professoressa fa notare come, secondo lei, fosse la sua natura liminale e transizionale a rendere Ecate onorata da Zeus sopra ogni altra. Ora, abbiamo detto come si trattasse di una dea levatrice, di come patrocinasse quindi il transito dell'anima dall'oscurità alla luce e dalla luce all'oscurità, pertanto alla nascita e alla morte. Nello stesso ruolo di "Moira" a Zeus, che comunque aveva poteri supremi, non era permesso di accedere, come non poteva farlo con le altre tre. Quando Atropo tagliava il filo, nemmeno Zeus poteva opporsi al destino del suo malcapitato proprietario. Allo stesso modo, così come il Padre Celeste non aveva potere reale su Afrodite, che grazie alla sua cintura era una tentazione continua nonostante con lei non giacque mai, non aveva nemmeno reale potere sulla nascita e sulla morte, quindi del trapasso dei mortali, all'ingresso e all'uscita. Da un punto di vista antropologico, assumendo per certo che il rapporto tra atto sessuale e gravidanza fosse chiaro, per quanto una cultura religiosa fosse patriarcale e infondesse, pertanto, il supremo potere nelle mani di un dio mentale, ordinato, distaccato e celeste, privandolo ad una dea istintuale, caotica, sensuale e terrena, non aveva fisicamente il potere di determinare quando, come e se una donna dovesse mettere al mondo dei figli oppure no. Era noto che fosse conoscenza degli elleni e quindi delle popolazioni invasori a loro seguenti come il ciclo mestruale e quello lunare fossero strettamente legati, pertanto era possibile individuare i momenti fertili nella donna, ma, come non ci è possibile ora decretare e scegliere il sesso del nascituro anticipatamente, non lo era nemmeno all'epoca. Di conseguenza come non ci è possibile attualmente determinare a priori se una donna abortirà spontaneamente, mantenendo comunque, in ogni gravidanza, un periodo "a rischio", non lo era nemmeno allora. Se una donna partoriva un maschio o una femmina, se espelleva un figlio dal ventre prima del tempo o se partoriva un figlio morto o magari moriva di parto assieme al bambino, era una prerogativa e un confine dove nessun patriarcato, per quanto supremo, poteva interferire. Era il regno confinante patrocinato dalla quarta Moira, colei che decideva se il filo che Cloto tesseva, Lachesi misurava e Atropo tagliava dovesse esistere. Ecco, dal mio punto di vista, spiegato il motivo per cui Zeus onora questa dea sopra ogni altra. Non per nulla, infatti, Ecate, è una delle poche divinità che, in tutto il mondo greco, veniva menzionata con l'epiteto Megas, ossia "Grandi". A fianco a lei, non casualmente troviamo ancora Afrodite, Demetra/Kore, Artemide, Nemesi, Nike e Tyche.
Nella frammentaria opera in versi del secondo secolo chiamata gli Oracoli Caldaici, a presunta opera di Giuliano il Teurgo, troviamo la figura di Ecate comparire in un contesto molto diverso da quello che possiamo invece vedere da altre parti. Non è una dea oscura e infera, quanto meno non solamente, ma appare come una dea legata al concetto di comunicazione tra dèi e uomini. Il suo ruolo di dea liminale, legata ai passaggi di ogni genere, soprattutto se di tipo temporale, è l'eredità stessa della sua origine mediorientale e risalente all'antica Grande Madre anatolica. Ella poteva quindi viaggiare tra i mondi in assoluta libertà. Come ci fa notare Sarah Iles Johnston nel suo Hekate Soteira: "Ecate è maggiormente conosciuta da classicisti e storici di religione come la orrorifica patrona delle streghe. Ma dall'era Ellenistica in avanti, alcuni filosofi greci e romani la dipinsero in modo abbastanza diverso, attribuendole alcuni compiti, come infondere l'anima nel cosmo e far sì che gli uomini trovino in esso il loro posto, formando così il confine di connessione tra il mondo divino e quello umano, facilitando la comunicazione tra uomo e dio e infine portando alla separazione dell'uomo dalla sua stessa anima. Era celestiale e potenzialmente benefica, più che ctonia e minacciosa". Negli Oracoli Caldaici, quindi, Ecate è rappresentata più come quella che Platone, nel dialogo più famoso e ispiratore tra le sue opere, il Timeo, chiama l'Anima Mundi: ossia uno spirito universale che rappresenta e incarna la vitalità della natura come se fosse un unico essere vivente; il principio universale da cui ogni singolo organismo, dal più semplice al più complesso, trova la sua armonica epifania dato che, anche se in possesso di differenze e specifiche individuali ed uniche, rimane legato alla matrix divina da cui giungono e da questo Spiritus Universalis che lo tiene legato e in connessione con gli altri.
Ecate, quindi, nasce come una dea immanente, che permette agli uomini di entrare in connessione con il divino, fungendo ella stessa da ricettore e trasmettitore, ma senza mai muoversi dal suo posto, bensì essendo lei stessa quella stessa matrix divina che tiene unita l'umanità ai suoi dèi. Gli stessi Oracoli Caldaici sono stati scritti da un teurgo per teurghi, non da un teologo per teologi. La netta differenza che corre tra queste due dottrine dovrebbe già farci intendere come per capire la stessa Ecate fosse necessario, per chi desiderava parlare di lei, entrare in connessione con lei. Come ci fa notare Platone, nella Repubblica, il teologo è colui che compie un'indagine, che studia e che cerca risposte sulla divinità, mantenendosi comunque distaccato da essa. Il teurgo, invece, è colui che evoca la divinità attraverso la telestiké, ossia l'insieme di ritualistiche atte a convogliare il potere divino all'interno di un essere umano affinché, incarnato, parli in sua vece. È anche per questo motivo che spesso troviamo il nome di Ecate, nel neopaganesimo, affiancato alla pratica, appunto teurgica, del Drawing Down the Moon, di cui è possibile rintracciare le origini antichissime fino alla Tessaglia, la regione di cui abbiamo già parlato precedentemente in questo articolo, patria, secondo molti autori greci, di stirpi di streghe devote ad Ecate.
Se esaminiamo gli Oracoli Caldaici, ci troviamo di fronte ad una massa di informazioni di natura molto poco chiara e pertanto facilmente interpretabile in modi differenti. Tuttavia, il messaggio che è possibile cogliere studiandoli contiene una certa connotazione teurgica che ritrae una dea sostanzialmente differente dalla descrizione che emerge dagli altri autori, oltre che dagli stessi Papyri Magici, nei quali Ecate ci appare come una dea ctonia e terrificante. Dal punto di vista di un teurgo che la evoca, abbiamo in realtà a che fare con una dea benefica il cui scopo è quello di favorire e aiutare gli uomini mediante l'accrescimento della loro conoscenza e della loro evoluzione spirituale, la quale viene trasmessa grazie alle sue doti mediatiche. Per farlo si avvale degli Iynges, ossia delle entità il cui scopo è quello di fungere da tramite tra gli uomini e gli dèi, favorendo la trasmissione delle preghiere e delle richieste dei mortali verso i reami celesti e consentendo così la formazione di vere e proprie connessioni tra il mondo divino e quello terreno. Ecate era quindi anche una dea oracolare che rappresentava la sympatheia cosmica e lo faceva insegnando ai teurghi l'uso dei symbola. Questi symbola venivano quindi insegnati da Ecate attraverso i suoi "messaggeri", quelle entità mediatrici chiamate Iynges, emanate e dipendenti dalla stessa dea, i quali inducevano il teurgo ad uno stato di allineamento con il reame celestiale. Proclo, nel Theologiam Platonis, si riferisce al secondo ordine della filosofia platonica come alla "Triade Intelligibile ed Intellettuale": "Tali nature sono tanto Intellettuali quanto Intellegibili e, esse stesse possedendo capacità intellettuale, sono oggetto di intelligenza da parte di altre". Tuttavia, nelle Pitiche di Pindaro ci si riferisce ad esse come a degli oggetti fisici, ossia delle ruote d'oro dotate di un'impugnatura che venivano fatte ruotare in pratiche magiche e teurgiche. Insomma, per capire meglio cosa siano gli Iynges, è bene anche comprendere il ruolo dei Synoche e dei Teletarches. Partendo dal presupposto che gli Oracoli Caldaici sono un testo ermetico ed iniziatico con il presunto scopo di svolgere pratiche teurgiche, per una buona parte dei frammenti che ci sono giunti, e sulla base anche della ricostruzione che ne è stata fatta, si può tracciare una sorta di mappa di un processo di autocoscienza di un'entità chiamata Padre; un titolo che ricorre spesso nel testo. Nel momento in cui vengono introdotti gli Iynges subentra in toto un complesso sistema volto a cercare di ricostruire lo stesso processo nel teurgo che si rivolge ad Ecate con il preciso intento, appunto, che faccia da tramite tra l'entità superiore e l'essere umano. Lo scopo sarebbe infine quello di mediare una possibile via di consapevolezza e comprensione della manifestazione divina. Per ottenere questo risultato si fa uso di questi tre concetti: Iynges, Synoches e Teletarches, che svolgeranno il ruolo di "simboli" utili al teurgo per entrare in contatto con il divino, quindi per "mediare" tra il mondo intellettuale, ossia il regno del divino dove risiedono e prendono forma anche le idee, e quello sensibile, dove il teurgo esiste in quanto essere umano e dove risiede anche la sua coscienza, la sua concezione e tutta la sfera delle sue emozioni e percezioni. Come leggiamo nel terzo libro degli Insegnamenti magici della Golden Dawn, di Israel Regardie riguardo a questi tre simboli: "La loro funzione è, rispettivamente, quella di agire da enti di "iniziazione", "mantenimento" e "perfezionamento" del divino impulso creativo/concettuale da cui si origina il mondo intellegibile e che si sostanzia nel mondo sensibile. (...) Una più precisa descrizione del concetto può essere ricavata applicando le tecniche ermeneutiche delle dottrine magiche: il che è perfettamente lecito, perché non si deve dimenticare che tutta questa architettura ideale non aveva sottofondo esclusivamente religioso, ma era soprattutto uno schema destinato a illustrare una dottrina teurgica, ovvero una pratica magico-operativa avente come finalità l'ascesi mistica dello spirito verso le sfere superiori dell'Essere e la presa di contatto con gli enti che le popolano e sostanziano. (...) Nella letteratura greca il termine iynges si trova, per esempio in Eschilo, col senso di "incantesimo trascinante": ma è un significato successivo. Etimologicamente il vocabolo deriva da iugmos, che ha il senso di "grido, appello". I maghi d'un tempo, utilizzando il sistema delle corrispondenze naturali (ovvero facendo appello ai "sigilli" simbolici diffusi da Dio nella natura), avevano costruito uno strumento magico consistente in una ruota alla quale era legato un uccello chiamato Iynx per via del grido acuto e della capacità di ruotare il collo di 360 gradi. Meditavano sulla natura delle Iynges auto-ipnotizzandosi nell'osservare la ruota che girava. Venne anche costruito (ce lo testimonia Psello) uno strumento detto stròfalo o "trottola di hekate", costituito da una sfera munita di un perno, sulla quale era incastonato uno zaffiro, che veniva posta in rotazione con una sferza di cuoio. Osservando le figure disegnate dalla luce riflessa della gemma nel suo vorticare, si induceva una specie di stato catatonico nel quale si poteva fare chiarezza nella mente profonda, annullando i pensieri spurii per dar luogo alla contemplazione simbolica. Pratiche auto-ipnotiche del genere si trovano in infinite scuole magiche."
È pertanto tramite questi strumenti che il teurgo raggiungeva uno stato alterato di coscienza di tipo auto-ipnotico, in modo che potesse viaggiare oltre i confini del mondo sensibile, liberandosi delle concettualizzazioni e dei limiti delle sue percezioni, e raggiungere, infine, la vera essenza della divinità. Per ottenere questo stato doveva usare gli Iynges, il cui significato è stato tradotto anche come "ruota" e, per ottenere l'aiuto di questi strumenti, pertanto per alterare la propria coscienza, doveva, di contro, rivolgersi ad Ecate. Ma le cose erano comunque legate perché come era grazie alla dea che gli era possibile ottenere il potere di usare gli Iynges, così era grazie ad essi che poteva mettersi in contatto con lei affinché le desse istruzioni e metodi su come acquisire dentro di sé la coscienza e la consapevolezza dell'entità suprema che gli Oracoli chiamano Padre. Come ci fa notare Psello nel suo Commento sugli Oracoli Caldaici, il concetto di trasmissività di Ecate viene rappresentato come se si trattasse lei stessa della sympatheia cosmica, dato che ne controlla interamente il processo, consentendo al teurgo di superare l'enorme divario che separa l'uomo dagli dèi, e lo faceva attraverso questi stessi strumenti. Grazie al suono e al movimento che facevano, essi rappresentavano l'armonia cosmica e la musica stessa delle sfere.
Pertanto, il tipo stesso di magia che veniva svolta dai teurghi citati negli Oracoli Caldaici era di tipo simpatico, ossia basato sulla premessa e l’idea che mediante la manipolazione di un oggetto, a volte simbolico, un essere vivente o un altro oggetto simile o ad esso collegato possa esserne affetto. Questo metodo, indagato per primo da James Frazer nel suo Il Ramo D'Oro, trova accoglimento, a livello antropologico, anche nelle pratiche magiche di popolazioni presenti in ogni parte del globo ed è alla base di alcuni dei principi delle pratiche magiche in uso tuttora.
In questo concetto trova ampio spazio e spiegazione l'idea stessa di Ecate come Anima, riferita in particolar modo alla visione platonica espressa nel Timeo. Qualsiasi cosa esista sul piano etereo, quindi nel reame intellettuale dove dimorano gli dèi, ha una copia nel reame terreno e vice versa. E a permettere questa eco materiale del mondo noetico era la stessa Anima che risiede tra il macrocosmo e il microcosmo, mantenendoli connessi e tenendo unite le diverse parti di cui è composto. Secondo la filosofia platonica, l'Anima riceve l'idea noetica, quindi concepita direttamente dal pensiero, e la ritrasmette sulla sfera materiale. Come abbiamo quindi visto negli articoli dedicati ad Atena ed Efesto, l'idea si figura nel cervello (Atena) e si realizza nella materia (Efesto). L'Ecate caldaica come dea teurgica svolgeva questo ruolo, controllando la sympatheia cosmica. Come ci fa notare Ermete Trismegisto: "È vero senza menzogna, è certo e verissimo. Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una. E poiché tutte le cose sono e provengono da una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento".
Come ci fa notare Sarah Iles Johnston nel suo saggio Hekate Soteira: "La sua identificazione come dea delle streghe deve essere approcciata attraverso lo studio di quello di Signora dei Daemones, quindi al loro ruolo di entità liminali, che vagano tra i mondi e tra i diversi stati di esistenza. Erwin Rohde (nel suo Psyche. Seelencult und Unsterblichkeitsglaube der Griechen) disse: 'Quando un'anima entra in comunione con un corpo - alla nascita- Ecate è presente; là dove un'anima si separa da un corpo, ossia con la sepoltura, lei è lì'".
Identificata quindi in molti aspetti diversi, Ecate riesce, brillantemente, a mantenerli tutti in equilibrio antitetico dentro di sé. Nel contesto neopagano attuale, in cui ci muoviamo, Ecate è, assieme ad Iside, la dea più venerata e riconosciuta come "antica". È anche a causa di questo che il suo immaginario fu tramutato da una donna nel fiore degli anni con indosso una tunica bianca ad un'anziana dagli occhi fiammeggianti, vestita di nero, che riconduce poi ai diversi immaginari delle streghe nelle favole come quella di Hansel e Gretel e di Biancaneve. Il suo triplice aspetto teriomorfo di cagna, giumenta e serpente riporta ad aspetti ctoni di trasformazione. Lo stesso Cerbero, che anticamente veniva citato in possesso di cinquanta teste, venne ridotto ad averne solo tre come la sua padrona. Ma è proprio il concetto trasformativo che dovrebbe essere più soggetto a ricerca da chi si interroga sul mito per trovare una risposta e un nuovo modo di approcciare al proprio cammino. Ecate porta con sé la trasformazione, attraverso la scelta e attraverso il potere stesso di cui è investita: quello della magia e degli incantesimi, il cui primo effetto e scopo è proprio quello di alterare la percezione del sé. Non per nulla era spesso legata anche ad Apollo, il quale entrò in possesso di un epiteto oscuro come Hekatos quando raccolse l'aspetto oracolare dell'antica Gea, la signora dei serpenti, infera e ctonia.
L'aspetto trino che vediamo nella teriomorfia di Ecate, secondo alcuni, riconduce all'aspetto trino del concetto lunare cui è associata e che è stato, per primo identificato da Robert Graves, che sviluppò l'idea dai Papiri Letterari Greci. C'è da dire in effetti che questo autore aveva una certa attitudine a vedere triplici aspetti in molte divinità, ma di questo lato trino è rimasta una forte traccia nel culto neopagano, che vede questa dea legata al terzo aspetto lunare relazionato alle diverse età della donna. È anche per questo che la non provata "anzianità" di Ecate ha cominciato ad emergere. Ella diventa così la "luna calante" e l'aspetto oscuro e degenerativo, pertanto legato al legame infero e al subconscio nonché alla fase umana della menopausa. A prescindere dal fatto che uno dei difetti che riscontro sempre nei movimenti neopagani, per quanto ne faccia parte, sia quello di non preoccuparsi di andare a fondo alle informazioni che si trovano ma di prendere la prima fonte come autorevole e riciclare le notizie come se fossero giornali vecchi. A prescindere dal fatto che esotericamente una persona è libera di rappresentare una divinità come meglio crede, c'è da far luce sul tempo e sulle influenze che autori come Seneca e Plutarco portavano con sé, e che vedevano nella luna un ruolo intermediario tra i regni; mettere quindi Ecate in relazione con questo contesto deve essere stato di una semplicità disarmante. Con questo non voglio dire che questa relazione non funzioni, ma sulla base del simbolismo più antico e sulle rappresentazioni meno recenti trovo una più facile affinità con una triade di dee legate al risveglio della natura (come Kore e Persefone) che ad un concetto di fase lunare correlato ai diversi stadi della vita di una donna, concetti che sono stati sviluppati solo in questo secolo con la ricerca e la riscoperta del femminino sacro.
Per quanto, quindi, questa dea abbia origini oscure e luminose assieme, attualmente, come dicevamo, è molto adorata e presa in seria considerazione nell'ambiente e nel culto neopagano. Tuttavia, come spesso ho visto capitare, è stata associata ed interpretata in modo non del tutto consono. È infatti possibile isolare due punti, del tutto attuali, che non sono originari della dea stessa, quanto meno nel suo aspetto più antico. Il primo è il suo aspetto anziano, come spesso viene vista. In realtà Ecate non veniva mai rappresentata come una vecchia rugosa come adesso viene anzi vista. Questa visione e questa interpretazione è solo da ricondurre all'antichità stessa della dea. Esiodo ci dice, appunto: "Ed ella (Asteria) concepì e generò Ecate, a cui Zeus figlio di Crono rese onore sopra ogni cosa. Le diede doni stupendi, per governare insieme la terra e l'ostile mare. Ella ricevette il dominio anche del cielo stellato". Ecate era quindi l'unica divinità che non sottostava al giudizio di Zeus, perché in qualche modo era Signora delle Stelle e del Cielo prima che lui assumesse il supremo ruolo di Padre Celeste.
È anche in questo contesto che si installa la visione "anziana" di Ecate: ella protegge le donne e riveste un ruolo di levatrice che è consono alle dee anziane che hanno visto "la vita e la morte" e che, come lei, sono guardiane dei passaggi in entrambe le direzioni: entrando ed uscendo dal mondo fisico. Come abbiamo spesso menzionato, in un culto del femminino la dea che elargisce è anche colei che toglie. Vedere quindi una divinità legata alla vita come anche una divinità legata alla morte è esotericamente, escatologicamente e mitologicamente consono e frequente. In questo contesto vediamo come, secondo la Dottoressa Jenny Strauss Clay nel suo The Ekate of the Teogony, Ecate sarebbe quindi onorata da Zeus in quanto dea dei confini, dei passaggi e patrona, come Giano, dei luoghi di transito: che siano i portali tra la vita e la morte o i crocicchi stessi dove si trovavano le sue statue trivie in modo che potesse proteggere ogni accesso con il suo sguardo. Ecate, però, non soltanto accompagna gli uomini nella morte così come li accompagna alla vita e fa, in un certo senso, da "spola" tra questi due mondi, essendo presente in entrambe le occasioni, ma funge da vera e propria fautrice della comunicazione tra i reami e pertanto tra gli dèi e gli uomini.
Arriviamo quindi al secondo punto che non è originario della dea stessa (per quanto comunque presente): la sua manifestazione trina. Ecate è spesso rappresentata con tre volti: a volte umani (giovane, madre, veneranda) e a volte con forma animale (cane, cavallo e serpente). Ma questa pare sia un'interpretazione relativamente recente, risalente circa al quinto secolo. In iconografie più arcaiche questa dea era invece rappresentata in forma singola. Lo stesso Lewis Richard Farnell, archeologo e storico delle religioni del secolo scorso, nel suo The Cults Of The Greek States asserisce che: "La testimonianza lasciata dai monumenti sulle caratteristiche e il significato di Ecate è altrettanto ricca di quella trasmessa dalla letteratura, ma solo nel periodo più tardo essi esprimono la sua natura molteplice e mistica. Prima del quinto secolo è quasi certo che fosse spesso rappresentata come una singola forma, come ogni altra divinità, ed è così che la immaginò il poeta della Beozia, perché nulla nei suoi versi allude a una divinità dalla triplice forma. Il monumento più antico è una piccola terracotta trovata ad Atene, con una dedica a Ecate, in una scrittura tipica del sesto secolo. La dea è seduta su un trono e ha una corona attorno alla testa; non ha nessun tratto o caratteristica distintivi e l'unico valore dell'opera, che è chiaramente di un tipo comune ed è degna di menzione solo per l'iscrizione, è che prova come la forma singola fosse quella originale e che ad Atene era conosciuta prima dell'invasione persiana".
Ecate ebbe alcune figlie e alcuni figli. Secondo Kerenyi, nel suo Gli dèi della Grecia, "prendeva parte alle questioni del cielo, della terra e del mare ma non divenne mai una dea olimpica. Era strettamente legata alla vita delle nostre donne e con ciò anche alla vita di noi uomini, in modo che sembrava inferiore alle spose e alle figlie di Zeus. D'altra parte la sua sfera di sovranità - e in particolare il mare dove si svolgevano i suoi amori primordiali - era così immensa che l'Olimpo non avrebbe potuto contenerla. Quando essa non vagava per le strade, dimorava nella sua grotta. Così faceva anche sua figlia Scilla, spaventoso mostro marino". Così, appunto, come Scilla, anche altri dei suoi figli e delle sue figlie portarono con sé un forte aspetto ctonio e mostruoso, come capitava a Gea, a segno, come lei, dell'antichità di questa dea che la riconduce a un aspetto decisamente più archetipico e legato al suo aspetto immanente. Sue figlie erano anche le Empuse: come ci narra Aristofane nel Le Rane, una di esse appariva "grave, crudele che variamente mutasi, alcuna volta è bove, mulo, donna bellissima". Come ci fa notare Graves nel suo I Miti Greci: "I sozzi demoni chiamati Empuse, figlie di Ecate, hanno natiche d'asino e calzano pianelle di bronzo, a meno che, come taluni vogliono, esse abbiano una gamba di asino e una gamba di bronzo. è loro costume terrorizzare i viandanti, ma si può scacciarle prorompendo in insulti, poiché all'udirli esse fuggono con alte strida. Le Empuse assumono l'aspetto di cagne, di vacche o di belle fanciulle e, in quest'ultima forma, si giacciono con gli uomini la notte o durante la siesta pomeridiana, e succhiano le loro forze vitali portandoli alla morte". Ma la stessa Empusa in realtà pare fosse solo un altro dei nomi della stessa Ecate. Ad ogni modo questi demoni femminili erano ritenuti responsabili della seduzione degli uomini e della copula con essi per generare altri mostri. Questo ci riconduce a Lamia, amata da Zeus, a cui partorì dei figli che però caddero sotto lo sguardo geloso di Era che se ne vendicò; per il dolore divenne orrenda e terribile e cominciò a rubare nottetempo i bambini alle altre madri, inghiottendoli. Questa concezione non pare decisamente essere di origine greca, bensì mesopotamica e ci riporta chiaramente ad un demone femminile molto noto e presente nella cultura pre-ebraica: Lilith, che si sosteneva avesse l'abitudine di introdursi nottetempo nelle case degli uomini per sedurli, giacere con loro e partorire degli ibridi. Questi demoni, nella cultura ebraica, erano noti come Lilim e come ci fa notare Graves: "venivano raffigurate con le natiche d'asino, poiché l'asino simboleggiava la crudeltà e la lussuria. Lilith («civetta») era l'Ecate cananea e gli Ebrei, fino al Medio Evo, portarono amuleti per proteggersi dai suoi attacchi. Ecate, la vera padrona del Tartaro, calzava un sandalo di bronzo (i sandali d'oro erano prerogativa di Afrodite) e le sue figlie, le Empuse, ne seguirono l'esempio. Si potevano trasformare in cagne, in vacche o in belle fanciulle poiché la Cagna Ecate, essendo uno dei membri della triade lunare, si identificava con Afrodite e con Era dagli occhi bovini". Il suo "calzare un sandalo di bronzo" richiama chiaramente il simbolismo dell'alterazione deambulatoria propria di chi appartiene a reami diversi, così come Ermes ed Efesto, un contesto che ci chiarisce molto bene Carlo Ginzburg nel suo Storia Notturna - Una Decifrazione del Sabba, in cui l'autore sostiene che il concetto stesso del dio claudicante riporta ad un forte aspetto iniziatico legato al mondo infero, come Ermes, che viene rappresentato con un piede calzato e uno nudo. La deambulazione squilibrata porta ad uno stacco nella percezione del proprio corpo e per questo rifiutata perché asimmetrica, pertanto ritenuta inumana e relegata ad un concetto di duplice natura.
La Ecate cananea, come abbiamo visto, è Lilith, il cui nome significa "spirito del vento". Insieme con lei è citata spessissimo la sua associazione al rapace notturno, la civetta, e il termine stesso richiama l'aspetto di adescatrice per un'abitudine tipica di questo rapace notturno, il quale, quando veniva utilizzato dai cacciatori per attrarre i passeriformi, utilizzava un metodo composto da battito di ali e ammiccamenti che risultava irresistibile per la preda. Lo stesso animale, in seguito, prese quindi un'accezione negativa e infausta che, nella cultura ebraica, venne paragonata alla natura volubile della donna. A questo dobbiamo anche il termine streghe, dal momento che deriva proprio da strigi, che significa "rapace notturno" e, come ci narra Ovidio: "Si dice che strazino i fanciulli ancora lattanti e pieno di sangue tracannato abbiano il gozzo. Hanno nome di strigi: causa del nome è che sogliono di notte orribilmente stridere". Da questa associazione delle strigi con il vampirismo troviamo traccia anche nella Torah, dove si fa divieto assoluto di "bere il sangue", come del resto ci viene specificato anche nel Levitico, dove si legge: "Non mangerete sangue d’alcuna specie di carne, poiché il sangue è la vita d’ogni carne; chiunque ne mangerà sarà sterminato", pertanto berlo significava offendere il Signore perché implicava il nutrirsi del dono supremo che è stato elargito all'umanità. Lilith, in quanto demone tentatore, era quindi anche un demone-vampiro. La condanna stessa del vampiro a vivere una non-vita nutrendosi della forza vitale degli esseri viventi è da ricondurre proprio a questo aspetto di violazione della legge biblica.
Ma Lilith nasce davvero come demone tentatore? Nel contesto ebraico, in diversi libri, soprattutto nella tradizione cabalistica di esegesi dei testi biblici e solo perifericamente nel Talmud, vediamo come si trattasse in realtà della prima moglie di Adamo, creata da Yahwéh, come lui, dall'argilla. Tuttavia, riguardo a ciò che accadde nel giardino dell'Eden sono presenti versioni molto contrastanti tra loro. Secondo alcune di esse Lilith e Adamo passarono un lungo periodo di armonia prima di cominciare a litigare, secondo altre invece i due non persero tempo e cominciarono immediatamente e beccarsi. Ad ogni modo pare che all'uomo fosse stato in qualche modo riservato un trattamento speciale che poneva la sua donna in una condizione non solo di inferiorità, nonostante fossero stati comunque creati dalla stessa sostanza, ma di vera e propria subordinazione; una legge "non specificata" che venne stabilita moralmente quando Yahwéh decretò che sarebbe stato Adamo a dare il nome ad ogni animale, ad ogni pianta, frutto, fiore e che ognuna di queste singole cose sarebbe stata a sua completa disposizione affinché egli potesse assoggettarla a proprio piacimento. Nei riguardi della compagna questo "assoggettamento" si rispecchiava in molti aspetti: negli atti sessuali l’uomo pretendeva di stare sempre sopra, privandola quindi della libertà sessuale, inoltre imponeva il potere elargitogli dal padre a proprio piacimento, e nelle dispute Adamo, in quanto creato per prima, aveva la tendenza ad imporre il proprio volere. Come ci sovviene dall'Alfabeto di Ben-Sira, di autore anonimo: «Ella disse 'Non starò sotto di te,' ed egli disse 'E io non giacerò sotto di te, ma solo sopra. Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono fatto per stare sopra.»
Per questi e, probabilmente, altri motivi, Lilith decise di abbandonare il giardino dell'Eden ribellandosi apertamente, in questo modo, alla legge divina imposta dal suo creatore. Invocò così il nome dell'Ineffabile, ottenendo le ali e con esse la capacità di volare via dal giardino dell'Eden, e con il loro ausilio si recò nel deserto nei pressi del Mar Rosso, dove incontrò dei demoni, tra cui Asmodeo, avendo da loro dei figli: i Lilim. Per questo fu maledetta ed esiliata per sempre.
Adamo si rivolse quindi al suo creatore lamentandosi del comportamento dichiaratamente insubordinato della sua compagna e questi decise di mandare tre angeli a cercarla: Senoy, Sansenoy e Semangelof. Quando questi la trovarono, ingiunsero a Lilith di tornare sui suoi passi minacciandola di morte, ma ella asserì che, avendo ormai avuto rapporti carnali con le entità demoniache, non aveva alcuna intenzione di tornare sui propri passi e che inoltre era immortale, pertanto le loro minacce erano di fatto fasulle. I tre angeli, forse rendendosi conto che usare l'inganno non avrebbe sortito alcun effetto, minacciarono Lilith di uccidere i suoi figli e lei li supplicò di lasciarli vivere. In cambio della loro clemenza avrebbe garantito che i figli dei discendenti di Adamo sarebbero stati salvi dalla sua influenza qualora fosse invocata su di loro la protezione dovuta dai loro tre nomi. Tuttora i bambini ebraici, prima della circoincisione rituale, portano un braccialetto con incisi i nomi dei tre angeli a protezione dal demone Lilith.
Dio creò quindi Eva dalle feci di Adamo (evento che in seguito venne mediato con la creazione dalla costola), affinché non fosse solo, rendendola a questo modo la perfetta emanazione dell'uomo, sottomessa e subordinata a lui. Lilith, non avendo mai mangiato dall'albero della conoscenza come fece invece Eva, non fu mai colpita dalla mortalità. Tuttavia, come possiamo leggere nello Sefer ha-Zohar, i piani di Dio per lei non sono certo finiti, dato che "Quando l'Altissimo, santificato sia il nome Suo, causerà la distruzione dell'empia Roma, e la muterà in rovine per l'eternità, ivi Egli invierà Lilith, e lascerà che infesti tali rovine, poiché ella è la rovina del mondo."
Nonostante, come abbiamo visto, spesso ci si riferisca a lei come alla prima moglie di Adamo, ci sono testi ebraici che la vedono creata da dio nei primi giorni, assieme ai demoni e ai genii, o altri in cui, dato che rifiutò di tornare al Giardino dell'Eden, Dio la punì gettandola nell'Abisso.
Al di fuori quindi del mito ebraico, che è chiaramente più tardo, Lilith era però in origine una dea babilonese che deriva da un corrispettivo Sumero e Accadico e che appare nell'episodio dell'Albero di Huluppu, in cui la dea Inanna, al principio del tempo, trovò un salice sradicato dalle rive dell'Eufrate, dove era cresciuto, e trascinato a riva. La dea decise di portarlo ad Uruk e di piantarlo nel proprio giardino sacro con l'intento di farlo crescere per farne il proprio trono e il proprio letto nuziale. Dopo che furono passati dieci anni giunse quindi il momento di tagliarlo, ma in quella Inanna si accorse che tre creature vi avevano fatto dimora. Sulle cime vi aveva fatto il nido l'uccello Anzu, tra le radici vi si era annidato un serpente che non poteva essere incantato, e la vergine oscura, Lilith, si era insediata nel tronco. Dopo averli implorati senza successo, e quindi comprendendo che i tre intrusi non se ne sarebbero andati tanto facilmente, Inanna chiese aiuto ai fratelli e solo Gilgamesh rispose alle sue suppliche. Giunse con la sua scure enorme e con essa colpì violentemente il tronco, uccidendo il serpente, facendo fuggire l'uccello verso le montagne e distruggendo così la dimora di Lilith, la quale "volò verso recessi selvaggi e inabitati".
Da un punto di vista mitografico babilonese, Lilith era una dea delle tempeste, della malasorte ed era associata spesso alla malattia e la morte. Il suo forte aspetto distruttivo venne condannato dalla società patriarcale e venne, così, in seguito inglobata nel mito ebraico dopo l'Esilio di Babilonia, ossia la deportazione in massa dei giudei di Gerusalemme; questo periodo si colloca, presumibilmente, sotto il regno di Nabucodonosor II, pertanto dal settimo al sesto secolo a.C. Secondo alcuni studiosi il grosso del mito ebraico contenuto nella Bibbia fu steso durante questo periodo di instabilità.
La demonizzazione di Lilith, pertanto, sarebbe seguita a questo evento catastrofico per i giudei, che individuarono in lei l'incarnazione della tentazione del maligno. Ritenendo l'uomo pieno di virtù e pertanto incorruttibile, questa visione patriarcale tendeva a sopprimere l'istinto sessuale che pervade e domina l'essere umano sin dal principio del tempo e relegava il desiderio che esso provava nei confronti di qualsiasi donna che non fosse la legittima moglie non più una cosa naturale, bensì una tentazione ed una colpa della stessa. Fu così che nacque il demone tentatore che assuefaceva gli uomini per giacere con loro e partorire creature mezzo sangue.
Dal momento che stiamo parlando di un periodo particolarmente distante nel tempo, il grosso errore in cui si rischia di incappare è quello di ritenere che le immagini di Lilith su tavolette sumere che troviamo su internet siano realmente da attribuire a lei. Questa sovrapposizione, nata dopo il ritrovamento del rilievo di Burney nel 1930, risalente al 1800 a.C., ha portato a ripetuti errori di valutazione che condussero ad un dibattito particolare a riguardo, tuttora non concluso, su quale dea o demone venne rappresentato su quel rilievo, trovato nell'attuale Iraq. Pare che questo evento si verificò a causa di un errore nella traduzione dell'antica Epopea di Gilgamesh. Roberto Sicuteri, autore del libro Lilith, La Luna Nera, fa un perfetto esame della rappresentazione accadica raffigurante l'immagine di Lilith e solo erroneamente associata a questa dea, ma in realtà, pare, rappresentante Ishtar/Inanna/Ereshkiegal: "Si tratta di una figura ibrida disposta in piedi, frontalmente, tiene le braccia aperte, flessi i gomiti verso i fianchi, in atto orante, le mani aperte, dita unite. Il volto ha un’evidente conformazione rotonda, ben delineati occhi grandi e naso regolare. La bocca è atteggiata ad un vago sorriso, con un fremito imperativo, di sfida sensuale; tutta l’espressione fa presagire la modalità plastica greca arcaica: impenetrabile, severa, potente e ineffabile. L’acconciatura dei capelli è impressionante, secondo lo schema mesopotamico o protoassiro: dalla nuca partono quattro serpenti sovrapposti a formare un cono, ove le teste drizzate con evidente posizione fallica, convergono a mo’ di scriminatura. La simbolica ricorda la Kundalini emergente nella realizzazione totale, nonché le figure gorgonidi. Dalle spalle di Lilith scendono, schiuse e divaricate, due ali nettamente scolpite. L’energia umana sembra concentrata proprio nelle spalle e nel petto, dove i seni si protendono ampi e molto rotondi con evidente, fosca funzione seduttiva. Assieme al volto, sono questi i tratti che conferiscono alla figura una notevole qualità lunare. Il corpo è robusto, molto femminile sino all’ampio bacino e al pube. Le gambe, a mano a mano che si assottigliano verso i ginocchi perdono la plasticità femminile e si fanno animalesche, potenti; anziché piedi, ci sono orrendi poderosi artigli di avvoltoio con unghioni che spuntano dalle spaventose dita rugose. I malleoli tozzi e legnosi fanno pensare alle terminazioni rugose della cute di elefanti e rinoceronti! La disposizione degli artigli è simmetrica, spiovente, con un accento di dominio; tutta l’energia possente sembra affluire e scaricarsi sulle bestiali zampe che posano sul corpo di una belva bicefala, pare una leonessa, accovacciata. Nelle mani, Lilith tiene due pentacoli che ricordano vagamente i due segni geroglifici della Bilancia, scettri di potenza, iniziazione e giustizia. Ai lati, in basso, un poco sovrastanti la belva a due teste, sono disposti due orribili volatili, scolpiti alla maniera protoassira, la cui testa ricorda l’aquila o la civetta o i felini egizi; sono in posizione frontale, immobili, le zampe unite, rigide, in tutto simili a quelle di Lilith. Sono bestie vigilanti che conchiudono la rappresentazione. La scultura è inscritta in un triangolo equilatero, i cui vertici inferiori sono la testa delle due belve e il vertice superiore è nella testa di Lilith; la scansione geometrica si fonde con quella numerica, dove abbiamo i numeri – a iniziare dalla base verso l’alto – 4, 2, 3, 1, espressi dalla composizione dei corpi e delle teste; Lilith rappresenta l’Uno assoluto che domina su 2 belve grandi e 2 piccole, e per due volte si forma il 3. Pensiamo che non sia casuale, questo ordine, bensì esprima un significato cabalistico. Tutta la figurazione del bassorilievo è carica di energia aggressiva concentrata e vibrante nella staticità veramente agghiacciante. L’espressione di Lilith sostenuta da quella dei musi bestiali, è demoniaca, infera". A parte il concetto di esame di una figura che è, di fatto, un'altra dea, e il fatto che non posa le zampe su una bestia bicefala ma su due leoni posizionati uno a fianco all'altro e con il muso rivolto verso chi guarda, c'è un altro aspetto da prendere in esame: i due simboli che tiene in mano. Sicuteri li paragona a "due pentacoli che ricordano vagamente i due segni geroglifici della Bilancia". In realtà potrebbe trattarsi di due "Shen", simboli di origine misteriosa ma presenti sia nelle raffigurazioni arcaiche egizie, sia che in quelle mesopotamiche; si tratta di un cerchio che sovrasta una linea retta, a simboleggiare il ciclo della vita che non ha inizio e non ha fine. Se, invece, si trattasse di Inanna, potrebbero rappresentare uno dei sette Me: il regolo e il filo della misura.
Incuriosito e non convinto, tuttavia, della spiegazione di Sicuteri, per cercare di capire a fondo cosa tenga tra le mani Lilith/Inanna ho svolto alcune ricerche riguardo ai simboli astrologici, chiedendo a due diverse astrologhe che, a loro volta, si sono rivolte ad altrettanti insegnanti. Da questa ricerca è emerso che innanzitutto la suddivisione nelle dodici case zodiacali è opera di Teodosio e risale quindi al II secolo d.C., pertanto ogni possibile associazione con la bilancia e i suoi significati è di sicuro seguente di almeno duemila anni al momento a cui è fatta risalire la tavoletta. Inoltre, i simboli astrologici così come li conosciamo hanno un'origine greca. Originalmente pare esistessero dei simboli astrologici sumeri, andati però perduti, che vennero inglobati o comunque ispirarono la conformazione greca degli stessi lasciando più tracce di originalità in quelli più semplici che in quelli più complessi. Questo creerebbe una possibile connessione tra ciò che tiene in mano la dea o il demone rappresentata in quella tavoletta e il simbolo della bilancia. Tuttavia non sono ancora state trovate prove certe che i simboli astrologici dei dodici segni siano di origine sumera, mentre è pressoché certo che abbiano origine in Grecia. Inoltre è oltremodo curioso e fuori dall'ordinario che una popolazione che riteneva Lilith una sventura e una portatrice di morte e malattia la rappresentasse su una tavoletta votiva. Oltretutto molti simboli richiamerebbero anzi una visione di dea-uccello nota come "Artemide Alata" o comunque, la Potnia theron, la Signora degli Animali che ritroviamo anche sul Vaso François, un oggetto unico e di inestimabile valore risalente al 530 a.C., opera di un ceramista e un ceramografo greci che lasciarono la firma sulle decorazioni. Questo soggetto era molto in voga nel settimo e nel sesto secolo in Grecia ed è possibile trovarla spesso mentre tiene tra le mani leoni come fossero gattini. A giudicare, pertanto, dai simboli presenti sul rilievo di Burney, è lecito supporre che si tratti di una dea legata alla natura più che ad un demone legato alla malattia. Nonostante tutto ciò, il lavoro di Sicuteri è profondo e completo, solo basato su fattori archeologici non chiariti.
Tuttavia, in qualsiasi modo decidiamo di vedere questa dea, né i popoli sumeri né quelli babilonesi la reputavano benevola. La radice stessa del nome Lil richiama il vento e le tempeste, nonché il concetto di "spirito", e faceva parte di una terribile triade di demoni aerei, tra cui si poteva contare Ardat-Lili e Lilu, che si riteneva responsabile delle tempeste, dei venti, delle malattie, ma soprattutto del piacere dei sensi, ispirando negli uomini sposati i desideri carnali durante il sonno, inducendoli in incubi sessuali nel quale si sarebbero perduti. Insieme con Ardat, Lilith rappresentava la figura femminile di tipo predatorio, ed era ritenuta responsabile delle morti bianche, degli aborti spontanei, delle febbri e malattie infantili che potevano portare ai decessi in età prepuberale.
È possibile osservare, quindi, come Lilith rappresenti, sopra ogni altra cosa, l'araldo del cambiamento nello status sociale delle culture mesopotamiche, per quanto esacerbata, mantenendo in sé i connotati precedenti. Un cambiamento che si è in seguito diffuso in pressoché tutto il mondo conosciuto. Là dove prima si onorava un aspetto della Dea madre come sia feconda che sensuale, quindi con un duplice potere di creazione e magia dovuta alla seduzione affiancata alla procreazione (un connubio che troviamo in parallelo in Afrodite), in seguito, ossia con l'espansione della cultura semitica, viene esaltato l'aspetto procreativo condannando quello seduttivo in quanto venne ricondotto alla donna un potere totalmente genuino e non elargitole da un dio creatore e maschile. Lasciare un potere seduttivo ad una donna senza condannarlo e renderlo impuro implicava il lasciarle la capacità di decidere da sé quale partner fosse il più giusto per se stessa, pertanto permetterle di conservare una libertà di movimento e di azione che sarebbe stato del tutto antitetico al concetto cultuale stesso legato ad una figura divina maschile priva di macchia e non soggetta ad alcuna tentazione. Questa "scelta" del partner è in realtà un bisogno riproduttivo di tipo biologico, in quanto determina la ricerca di un buon partito che possa garantire una prole sana e forte ed è la stessa che induceva gli uomini a scegliere in moglie donne giovani e in buona salute. È pertanto da ricercare in questo contesto lo smisurato odio che Lilith prova per gli uomini e i bambini. Privata di ciò che era un suo diritto e una sua potenzialità, ossia la scelta di un partner e il desiderio o meno di mettere al mondo un figlio, la dea qui si trasforma in un aspetto demoniaco, ciò che vediamo anche con Demetra che si trasforma in una Erinni, una dea della vendetta. Le rimane quindi il potere, rifiutato dal patriarcato mesopotamico, di essere seduttrice e le viene quindi elargito in un aspetto distruttivo, da cui l'uomo è costretto a difendersi tramite scongiuri e simbolismi che la tengano alla larga. Nella visione ebraica la sua rabbia è strettamente legata all'esilio e a ciò di cui è stata spogliata: perciò uccide i figli delle donne, strappandoli dal loro ventre, e li divora, succhia il sangue agli uomini e ruba il loro seme. Distrugge la vita distruggendo il simbolismo di cui è stata privata.
Nella mitologia cristiana e giudaica, Lilith appare in modo molto marginale, ma nell'astrologia, così come nella psicologia analitica, è stata presa in considerazione come l'aspetto distruttivo della donna e legato, soprattutto, alla rivincita sul maschile, nonché associata anche alla fase della Luna Nera, ossia il momento astronomico in cui il nostro satellite si trova nel punto più lontano dalla terra. In realtà, a livello mitologico, Lilith non è mai stata associata propriamente alla luna ma riveste comunque un ruolo di Signora Oscura e mantiene dentro sé concetti decisamente distruttivi.
Lilith però non riveste un ruolo fondamentale nel sincretismo con Ecate, che invece è determinante e che troviamo in un'altra divinità di origine egizia. Si tratta di Heqet, dea della fertilità, della vita e dell'abbondanza, nonché ritenuta la dea ostetrica del pantheon egizio. Questa divinità era spesso rappresentata come teriomorfa, quindi con il capo di rana. La dea aveva queste sembianze per due motivi. Il primo era che, dopo le esondazioni del Nilo, i campi rimanevano pieni di rane, pertanto l'associazione tra questo anfibio e la fertilità divenne oltremodo semplice. In secondo luogo gli egizi ritenevano che ogni cosa venisse generata dal loro fiume sacro e a tal proposito avevano notato come le uova di rana germinassero nelle sue acque trasformandosi da girini ad adulti. L'associazione con il liquido amniotico fu altrettanto semplice. Inoltre l'osservazione delle rane che emergevano dal limo del Nilo già adulte favorì anche la formazione dell'intuizione teologica di una generazione spontanea, suggerendo quindi un legame con il ciclo vitale di vita-morte-rinascita in cui Heqet trovava un ruolo centrale.
In una forma di sincretismo non è però facile identificare queste due divinità, soprattutto per l'assenza oggettiva di prove archeologiche che possano in qualche modo legare Ecate ed Heqet se non per via dell'assonanza del nome. Inoltre, a parte in un Inno presente nei Papiri Letterari Greci in cui è Ecate affiancata a Selene ed Artemide e dove viene chiamata Phroune, che significa "rana", non pare avere altre connotazioni oggettive con questo anfibio. Tuttavia, se perdiamo del tempo per esplorarle un po' più a fondo, notiamo come, nonostante le profonde differenze che le caratterizzano, hanno dei forti lati in comune. In primis, così come Ecate, anche Heqet aveva una connessione con i passaggi, sia alla morte che alla vita. Nel Medio Regno, le sacerdotesse di questa dea svolgevano il ruolo di ostetriche del tempio. Si riteneva infatti che Heqet patrocinasse le fasi terminali del parto e che spesso, durante le doglie, le donne indossassero amuleti apotropaici a lei sacri, che la rappresentavano come una rana seduta su un fiore di loto.
Nel frammentario Papiro Westcar, noto per il nome dell'avventuriero britannico che lo portò fuori dall'Egitto nel 1824 e risalente alla V dinastia, si narra delle vicende di Khufu, il faraone grecizzato in Cheope a cui pare sia dedicata la Grande Piramide. Nelle sue pagine, scritte con uno stile narrativo molto fiabesco che pertanto cominciano con "C’era una volta il re delle Due Terre, Khufu, giusto di voce", si può leggere una parte in cui Heqet, camuffata da danzatrice, appare come una delle quattro divinità inviate da Ra per accelerare e favorire il parto della regina madre Ruddedet. Giunta al suo fianco, l'assiste nella nascita di tre figli, che regneranno, in seguito, sulla quinta dinastia. In questo contesto, il suo ruolo è specificatamente quello di aiutare la partoriente, mentre Iside dà il nome ai bambini, Meskhenet tesse profezie a loro riguardo e Khnum, il marito di Heqet, garantisce per loro una buona salute. Oltre a ciò ci perviene come nei Testi delle Piramidi sia presente mentre assiste il faraone durante il suo viaggio celeste, dato che, grazie alla peculiarità delle rane di saltare con abilità, rappresentava la capacità del re di superare le difficoltà nel viaggio verso il Duat.
In quanto dea della fertilità, Heqet era, prima di ogni altra cosa, associata alle ultime fasi della gravidanza e in questo contesto spesso veniva rappresentata con in mano dei coltelli, che probabilmente erano legati sia alla chirurgia, in cui gli egizi avevano una nota abilità, sia al concetto del taglio che separa l'anima dal corpo e il corpo dall'anima. Nonostante la maggior parte dei papiri in cui si parla di lei sia risalente al Regno Medio, alcune sue statue sono state fatte risalire a periodi anche predinastici, inducendo quindi gli egittologi a constatare una reale antichità di questa dea.
Heqet era ritenuta la figlia di Ra e, nei Testi delle Piramidi, la vediamo pluralizzata come colei che conduce il Ka del defunto verso l'orizzonte, e anche dello stesso Ra attraverso la notte, affinché potesse ricondurre il Sole nel suo movimento celeste al suo sorgere. Questa "conduzione" del Ka richiama una sorta di aspetto psicopompo di Heqet, per quanto sia sminuente associare il "Ka" egizio solamente all'anima, dato che riveste un ruolo più ampio e articolato. Non per nulla, infatti, troviamo come gli dèi abbiano tanti Ka quanti sono i loro aspetti. In questo contesto, quindi, questa dea non riveste esclusivamente un ruolo di accompagnamento del defunto, ma anche degli dèi nei loro diversi viaggi. Nello stesso tempo, così come suo marito Khnum plasma il corpo del nascituro e si occupa, come abbiamo visto, della sua salute, Heqet alita il Ka al suo interno, permettendo quindi alla vita di esistere. Ma è insieme a suo marito che questa dea plasma la vita stessa dalla creta, usando i pugnali con cui può scolpire le forme.
Se si tratta, quindi, di una dea che favorisce le nascite alitando nel corpo lo pseudo corrispettivo egizio dell'anima occidentale, svolgendo quindi un ruolo di ostetrica, come nel Papiro Westcar, Heqet svolge anche un ruolo infero, soprattutto per la sua capacità di resurrezione, come osservò lo stesso Plinio il Vecchio. Come è possibile assumere anche in alcune versioni del mito di Osiride, pare che sia stata proprio lei ad alitare di nuovo la vita nel dio dopo che fu fatto a pezzi e dopo che rimase, in qualche modo, legato al regno dell'aldilà. Per questo motivo nei rituali funebri le statuette di Heqet in forma anfibia erano ritenute propiziatorie affinché il defunto potesse trovare lo stesso destino di Osiride una volta completato il suo passaggio.
Pertanto, così come Ecate funge da tramite tra il regno Sensibile e quello Intellettuale, e così come favorisce, essendo lei stessa la Anima Mundi, la comunicazione tra gli dèi e gli uomini, in qualche modo è possibile trovare la stessa cosa in Heqet, dato che è proprio lei che alita il Ka nel corpo appena plasmato da Khnum e, non appena è nato, con i suoi coltelli recide i legami dell'anima, consentendole di esistere nel corpo; con gli stessi coltelli giunge a tagliarli di nuovo, come Atropo, quando la vita termina, consentendo quindi al Ka, attraverso di lei, di tornare a vivere nel regno dell'aldilà.
Come abbiamo potuto constatare, Ecate ed Heqet condividono almeno due aspetti su quattro: ossia il concetto infero e quello di comunicazione e di anima universale. Tutti gli aspetti più tardi e conseguenti di Ecate non si ritrovano in questa dea, quindi l'associazione lunare risalente al primo secolo e il suo ruolo di regina delle streghe rimangono aspetti strettamente legati alla dea anatolica. In questo possiamo ipotizzare che il concetto platonico espresso nel Timeo e che viene ripreso anche negli Oracoli Caldaici abbia integrato con una spiegazione più greca una visione che gli egizi avevano interpretato in modo più semplice e diretto. Tuttavia, per quante assonanze filosofiche e mitologiche possiamo trovare, chi cerca prove archeologiche di una possibile correlazione tra Ecate ed Heqet rimarrà certamente deluso: al momento non ne siamo in possesso. Tutto ciò però, non può e non dovrebbe assolutamente limitare la nostra ricerca a riguardo.
Possiamo infine asserire che il grosso insegnamento iniziatico ed escatologico che ci porta Ecate, con i suoi sincretismi, è legato, ancora una volta, non solo alla sopravvivenza e al viaggio dell'anima al di là del regno della morte, ma anche e soprattutto alla liberazione dai bisogni dovuti alla propria esistenza, mettendo l'iniziato in grado di deviare il corso stesso del proprio destino, senza sentirlo come qualcosa di definito ed inviolabile, ma percependo la vita come un luogo di passaggio e di trasformazione - pertanto di magia - attraverso il quale ci è possibile cambiare noi stessi privandoci dei pesi dovuti dalla nostra società e dal nostro costume; rendendoci liberi, così, di cercare e porre la nostra somma volontà sopra ogni altra cosa e lasciando che sia l'airesis, la scelta, a determinare chi siamo. Diventa chiaro, quindi, come riesca, in questo contesto e dal punto di vista cristiano e monoteista, a prendere un aspetto terribile e infero, quasi demoniaco. Un ruolo che, in seguito, da un punto di vista gnostico, venne attribuito a Lucifero e ai demoni che, in qualche modo, criticano il regno di Dio in quanto, contrariamente a quanto predica, non concede all'essere umano una vera scelta del tutto arbitraria, ma solo un'eternità di tormenti in alternativa a ciò che viene imposto dal dogma di fede. E chi faceva una scelta contraria era un eretico: ossia uno che aveva, appunto, fatto una scelta.
Ecate non è quindi solamente una dea delle streghe, come non è solamente una dea lunare, cosa che in realtà potremmo forse azzardare che le sia stato associato solo di riflesso. Non è nemmeno solo una dea infera: lei presiede ai passaggi, qualsiasi essi siano. È presente alla nascita sotto forma di levatrice, è presente alla morte come traghettatrice delle anime disincarnate, è presente dinanzi al teurgo quando evocata per svelare i sommi misteri ed è pertanto tramite tra i mondi. Come abbiamo visto, il suo aspetto demoniaco, così come la coorte di fantasmi, spettri e demoni che la segue non fa altro che risaltare la sua appartenenza ai luoghi di transito e alle zone che segnano i confini tra diversi reami. Diversamente da Ermes, con il quale comunque ha un forte legame, al punto che è spesso visto come il suo amante, che al contrario suo svolge un ruolo più "diplomatico", Ecate non porta un bastone con i nastri a segnalare la sua immunità araldica, ma porta delle chiavi che le consentono di entrare ed uscire e di viaggiare da e attraverso i mondi.
L'insegnamento di Ecate è quello di determinare da sé il proprio destino, di prendere consapevolezza del fatto che non è sensato aver paura di prendere una decisione, di fare una scelta, anche se le possibili (e non probabili) circostanze attuali ci pongono di fronte ad ostacoli che riteniamo di non essere in grado di superare. Tutto ciò che ci capita, ogni strada che decidiamo di prendere, ogni singolo giorno, sin da quando apriamo gli occhi al mattino fino a quando li chiudiamo la sera, è sotto il suo sguardo vigile ed è sotto la sua benedizione. Nessuno di noi affronta nulla, in determinati momenti della propria vita, che non sia in grado di affrontare. Se non fosse così non noteremmo gli ostacoli, così come un infante ed un ubriaco non hanno percezione del pericolo. Dal momento che prendiamo atto di ciò che riteniamo essere in nostro potere fare o non fare, prendiamo coscienza delle nostre possibilità e, di conseguenza, delle scelte che abbiamo a nostra disposizione. Camminiamo sempre e comunque su confini tra i mondi, quando siamo svegli, quando dormiamo, quando viviamo e quando moriamo, così sopra, come sotto, nella eterna ricerca di ciò che ci possa far sentire colpevoli o consapevoli, completi o integri. Per citare Barker: "Ricordo, profezia e fantasia - il passato, il futuro e l’intermezzo di sogno che li separa - sono un solo paese, che vive un giorno immortale. Saperlo è Saggezza. Usarlo è l’Arte."