The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Drawing Down the Moon (Tirare giù la Luna)

 

Drawing Down the Moon (Tirare giù la Luna) Tra Mito e Magia: pratiche teurgico-estatiche della Wicca

Con il termine “Tirare giù la Luna” o “il Sole” a cosa ci si riferisce? Si parla di una pratica avanzata di invocazione che viene svolta all’interno di rituali lunari e solari della tradizione wiccan, quindi sia Esbat (pleni e novilunio) che Sabba, durante i quali l’Alto Sacerdote non chiama la Divinità a presiedere al rito mediante un’invocazione ad alta voce, ma la invita a “discendere” all’interno del corpo dell’Alta Sacerdotessa per parlare attraverso la sua bocca ed agire attraverso il suo corpo, e, per tradizione, anche per portare consiglio. La stessa pratica viene svolta anche al contrario, ossia il l’Alta Sacerdotessa chiama e fa discendere il Dio nel corpo dell’Alto Sacerdote. E’ definibile quindi un metodo di “possessione” volontaria da parte dei sacerdoti, che creano così un canale diretto tra loro e le energie divine tramite una trance semi-indotta.
La pratica del Drawing Down the Moon storicamente è da far risalire ad alcuni antichi rituali svolti dalle streghe elleniche dell’antica Tessaglia, una regione continentale della Grecia, le quali si ritenevano in grado di “comandare la luna” durante i loro rituali lunari all’aperto, sia che fosse nuova, sia che fosse piena.
Le streghe tessaliche solevano appunto dire: “Se volessi comandare la luna, lei discenderà; e se desiderassi segretare il giorno, la notte indugerà sovra il mio capo; e di nuovo, se volessi attraversare immantinente il mare, non necessiterei di alcuna barca, e se mi garbasse di volare attraverso il cielo istesso, sarei tosto alleggerita del mio peso”.
Delle streghe tessaliche si trovano ampie tracce nei miti greci. La stessa Medea, la famosissima incantatrice, moglie di Giasone, cui si sono ispirati Euripide e Seneca, e che è poi anche una dei personaggi delle Argonautiche di Apollonio Rodio, era una strega della Tessaglia.
Ne Le Metamorfosi di Ovidio troviamo, ad esempio, Medea alle prese con una complessa e meravigliosa invocazione alla triplice Ecate, rivelando la sua capacità innata di “attrarre la Luna”: “Mancavano tre notti perché la falce lunare si chiudesse in un cerchio perfetto. Quando la luna rifulse piena e con tutto il fulgore del suo disco si volse verso la terra, Medea uscì di casa indossando una veste sciolta, a piedi nudi e capo scoperto, i capelli sparsi sulle spalle, e nel cuore della notte, in quel silenzio di tomba, senza meta, sola si mise a vagare. Una quiete profonda assopiva uomini, uccelli e fiere. Non un brusio fra le siepi; tacciono immobili le fronde, tace l'aria umida; palpitano solo le stelle. E a loro lei tende le braccia, gira tre volte su sé stessa, tre volte spruzza i capelli con acqua di fiume, tre volte spalanca la bocca in grida lamentose e, caduta in ginocchio sulla dura terra: «O Notte,» invoca, «fedele custode di misteri; astri d'oro, che a fianco della luna vi alternate ai bagliori del giorno; e tu, Ecate tricipite, che della mia impresa sei conscia e porgi aiuto agli incantesimi e all'arte dei maghi; o Terra, che ai maghi procuri erbe prodigiose; e voi brezze, venti e monti, voi fiumi e laghi, dèi tutti dei boschi, dèi tutti della notte, voi tutti assistetemi! Grazie a voi, quando voglio, i fiumi tornano, fra lo stupore delle rive, alla loro sorgente; per incanto sconvolgo il mare in bonaccia, placo quello in burrasca, dirado le nubi e le addenso, allontano i venti o li sollecito; recitando le mie formule squarcio la gola alle vipere, dalla loro terra sradico e smuovo pietre vive, querce e selve, ordino ai monti di tremare, al suolo di muggire, alle ombre di uscire dai sepolcri. A me attiro anche te, Luna, sebbene i bronzi di Tèmesa t'allevino l'agonia; e anche il cocchio di mio nonno impallidisce ai miei sortilegi, e impallidisce l'Aurora con i miei veleni. Voi m'avete soffocato le fiamme dei tori, aggiogato all'aratro ricurvo i loro colli insofferenti; voi avete spinto gli esseri nati dal serpente a battersi fra loro, avete addormentato il guardiano insonne; eludendo la sua vendetta, avete rimesso l'oro alle città della Grecia. Ora occorrono filtri, perché la vita di un vecchio si rinnovi e recuperi la gioventù, tornando a fiorire. E voi me li darete. Non hanno brillato invano gli astri, non m'attende invano un cocchio aggiogato a draghi alati!».”
Anche Circe, l’amante delusa di Ulisse, che tramutò i suoi uomini in maiali, era una strega tessalica. Si riteneva infatti che questa terra settentrionale, pressoché ai confini del mondo, fosse popolata dalle più ferventi seguaci della Dea Ecate, la signora della magia, la quale donava loro il potere della metamorfosi animale.
Apuleio, nel secondo libro delle Metamorfosi, parla di loro in un racconto in cui Telifrone, un giovane e squattrinato viaggiatore, arriva a Larissa, una città nel cuore della Tessaglia, ed in cambio di una grossa somma di denaro accetta di fare la guardia al cadavere di un uomo, perché, nottetempo, era pressoché certo che le streghe sarebbero giunte a strappare a morsi parti del volto del defunto per farne componenti di incantesimi.
Dal momento che tutti i guardiani venivano addormentati con malie, era sempre difficile trovare volontari per quel lavoro e gli viene raccomandato di non chiudere mai gli occhi.
Così, impaurito ma avido, Telifrone accetta e, timoroso, passa la notte in compagnia del cadavere. Nel mezzo della notte una donnola entra dalla porta nella stanza dove si trova il giovane, ed egli, riconoscendola come una strega tessalica trasformata, tenta di scacciarla, ma questa gli lancia un incanto e lo addormenta. Svegliatosi al mattino il giovane trova il cadavere intero e inviolato e riceve molti onori oltre che i soldi pattuiti. Sta per allontanarsi quando scoppia una lite nel mezzo della strada lungo il corteo funebre in cui la moglie del defunto viene incolpata da alcuni parenti di aver avvelenato il marito. Grazie ad un incantesimo il cadavere viene risvegliato e conferma i fatti dicendo inoltre che Telifrone portava il suo stesso nome e quando le streghe hanno usato le loro malie per risvegliarlo dal sonno mortale e farlo camminare è stato lui ad alzarsi e non il defunto cui doveva far la guardia e a riprova di questo sostiene che le streghe l'abbiano privato di parti del volto sostituiti dalle stesse con pezzi di cera.
Sempre nella sua opera più importante, ossia l’Asino d’Oro (o appunto Le Metamorfosi) abbiamo menzione di queste temibili streghe e dei loro poteri; si svolse proprio a Ipata, in Tessaglia, l’evento che caratterizza la trama principale dell’opera. Nell’abitazione della strega Panfila, il protagonista Lucio seduce Fotide, la serva, inducendola a rubare alla padrona lo speciale unguento che questa utilizza per mutarsi nottetempo in un rapace notturno (strigi per l’appunto - come ci dice Ovidio nei Fasti – rapaci notturni che solevano stridere e da cui deriva il termine “strega”) e per volare da un uomo che stava cercando di sedurre. Fotide però commette un errore sciagurato, sbagliando unguento e trasformando il povero Lucio in un asino.
La storia poi si snoda attraverso una lunga serie di avventure in cui è coinvolto Lucio trasformato in asino (una serie infinita di pestaggi e torture fino al pubblico lubidrio); ironicamente, gli sarebbe bastato mangiare delle rose per poter tornare alla sua forma originale ma ogni volta che ne avvistava un giardino o non riusciva a raggiungerle o non avrebbe potuto rivelarsi come essere umano. Infine, Lucio riacquista con fatica l’aspetto umano e si vota al culto di Iside (signora soli-lunare della magia).
Le streghe tessaliche non godevano quindi di un’ottima fama, ma pare proprio che questa fosse ben meritata. Orazio mostrò timore degli incanti tessalici e in seguito anche Lucano definì quella regione una “terra dannata”. Platone, nel dialogo con Gorgia, nella ricerca del significato della retorica, le nomina di sfuggita, ma anche altri autori ne parlano, come Virgilio e Albio Tibullo. La spiegazione del mito del “tirar giù la luna” ci conduce infine al significato profetico e soprattutto infausto che veniva dato alle eclissi. In un tempo dove, come ci ricorda Robert Graves nel suo I Miti Greci, il potere matriarcale era pressoché assoluto, il mito della Luna che inghiotte il Sole, ossia le eclissi, donava un potere enorme al femminino sacro. “Quando il rapporto tra il coito e la gravidanza fu ufficialmente stabilito, e questa svolta di capitale importanza per la religione si rispecchia nel mito ittita di Appu il sempliciotto, la posizione dell'uomo migliorò sensibilmente e il merito di fecondare le donne non fu più attribuito ai fiumi e ai venti. La ninfa tribale, pare, si sceglieva ogni anno tra i giovanotti del suo entourage un amante, il re che sarebbe stato sacrificato alla fine dell'anno e che diveniva così simbolo della fertilità più che uno strumento del piacere della ninfa. Il suo sangue, sprizzando tutt'intorno, avrebbe reso fecondi i campi, gli alberi e le greggi, le sue carni erano fatte a pezzi e divorate crude dalle ninfe compagne della regina, sacerdotesse che portavano maschere di cagne, di giumente o di scrofe. Questa usanza fu poi modificata: il re moriva quando la forza del sole, con il quale il re si identificava, cominciava a declinare a mezza estate, e un suo gemello o supposto gemello diventava allora l'amante della regina per essere a sua volta sacrificato a metà inverno reincarnandosi, come ricompensa, in un serpente oracolare. Questi principi consorti potevano esercitare il potere esecutivo soltanto quando parlavano in nome della regina e ne indossavano le magiche vesti. Così si svilupparono i regni e, benché il Sole divenisse simbolo della fecondità maschile (un tempo la vita del re fu identificata con il suo corso stagionale), tali regni rimasero sempre sotto la tutela della Luna, così come il re rimase sempre sotto la tutela della regina, almeno in teoria, anche quando il periodo matriarcale era stato superato. Così le streghe della Tessaglia, una regione conservatrice, solevano minacciare il Sole in nome della Luna, dicendo che l'avrebbero fatto inghiottire dalle tenebre eterne”.
E così facevano in effetti. A loro bastava possedere le conoscenze dell’astrologia per riuscire a prevedere le eclissi di luna e di sole e poter così creare il prodigio della loro sparizione e usare questo potere per i loro fini. Infatti nel mito troviamo come Omero sostenga che l’eclissi sia una sorta di “morte” dell’astro stesso; ma per molti altri poeti come Pindaro o Mimnermo questo veniva “rubato”. E a rubarlo erano proprio le figlie di Ecate, le streghe tessaliche come Circe, Medea e Panfila, le quali tessevano incantesimi per attrarre la luna e tirarla giù dal cielo.
Questa stessa credenza o superstizione legata alle eclissi viene citata da Virgilio nelle Bucoliche, da Orazio nelle Epodi e anche da Albio Tibullo, il quale nelle sue poesie si sofferma a parlare di questi incanti che tentano di far discendere la luna dal suo carro e che l’unico modo per impedirlo è di suonare e fare baccano in modo da spaventare il mostro, l’entità, il drago che si sta nutrendo della luna.
Questo mito non è strettamente legato alla Grecia, ma trova similarità anche in altri luoghi del mondo. Gli aztechi ad esempio legavano le eclissi alla lebbra, ossia al concetto di “essere mangiati dagli dei”. Al momento dell’eclissi Metzli, la dea lunare, veniva divorata e risputata.
In termini ritualistici e magici, quindi, dove sta la differenza tra un’invocazione e un Drawing Down?
Quando un officiante effettua un’invocazione ad una divinità, non lo fa prettamente da solo, bensì la invoca grazie all’ausilio di tutti i partecipanti al rito, risvegliando l’energia divina dentro ognuno di loro grazie alla sua capacità ed esperienza e grazie anche alle parole e al potere usato. Non per niente effettuare le invocazioni a piena voce ha un impatto e un effetto totalmente differente che farle in silenzio. Non è quindi solo l’invocatore in se stesso che chiama la divinità, ma l’allineamento degli astanti al rituale. Nel caso del Drawing Down the Moon abbiamo invece una sorta di induzione alla trance da parte dei sacerdoti che risvegliano/canalizzano le energie della divinità invocata direttamente nel/i corpo(i) del proprio partner ritualistico. Ma il lavoro non è semplice e diretto, bensì contiguo e simultaneo; l’invocazione in questo caso avviene in modo parallelo. Il sacerdote invoca la Dea e le chiede di discendere nella sacerdotessa, mentre, tramite le parole stesse del sacerdote, lei libera le proprie sensazioni e apre i propri canali chiedendo alla Dea di disporre del proprio corpo come tramite. Ma in realtà, il Sacerdote che invoca sulla Sacerdotessa sta facendo il lavoro minimo necessario, perché sta solo “aiutandola” a risvegliare la Dea dentro di sé.
E’ come la pratica ipnotica: un qualsiasi ipnotizzatore serio affermerà che lui “aiuta le persone ad auto ipnotizzarsi”, non ipnotizza di fatto nessuno. Nel medesimo modo, possiamo definire il Drawing Down the Moon come una pratica semi-ipnotica, o per usare un paragone sciamanico, il Sacerdote svolge il ruolo del tamburo mentre la Sacerdotessa diviene in effetti il viaggiatore. Il tamburo aiuta ad indurre la trance, ma chi deve viaggiare lo fa indipendentemente.
Spero sia ben comprensibile quindi che non si tratta di una pratica da svolgere molto alla leggera e, se effettuata in coppia, richiede una certa attitudine e una certa intimità spirituale e ritualistica con la persona con la quale si svolge. Questo perché (ammesso sempre che riesca e che chi lo fa abbia una certa pratica, altrimenti rimaniamo sempre nell’ordine del mumbo jumbo) non solo l’energia che si coinvolge è decisamente superiore a quella che normalmente si potrebbe percepire nel cerchio anche durante un’invocazione, ma è più duratura e ha effetti collaterali (se vogliamo chiamarli così) decisamente differenti. In quel dato momento (se svolto in modo corretto) l’energia divina, scorrendo dentro il corpo dell’officiante si accende come benzina toccata da una fiamma, e la persona diviene una corda tesa tra il mondo materiale e quello immateriale.
A livello ritualistico, parole e induzione allo stato alterato di coscienza rimangono esperienze di cui non mi sento di parlare in quanto vissute in modo personale. Quello che è certo è che i canali aperti durante questo tipo di pratica teurgica permettono la comprensione di cose che normalmente ci sarebbero oscure, come anche l’esperienza profetica e divinatoria o la dimensione artistica accentuata e la comparsa dapprima inspiegabile di desideri stravaganti per il nostro comune senso comportamentale, come provare un imbarazzante ed incontenibile desiderio sessuale, sentire il bisogno di danzare in modo sfrenato, cantare a squarciagola, ridere, urlare, piangere senza alcun motivo. Alcuni (come anche Phyllis Curott nel suo Il Sentiero della Dea) sostengono di aver percepito anche un cambio del tono di voce nell’officiante cui è stato fatto un Drawing Down e la percezione visiva di un cambio fisico nell’aspetto (altezza, colore degli occhi). Niente che possa comunque essere confutato con certezza e che rimane in ogni caso nella sfera delle “sensazioni”.
Una cosa che posso accertare e che ho riscontrato è che spesso queste esperienze, soprattutto per quanto riguarda i momenti di assoluta lucidità, hanno una durata molto breve e seguono a loro volta baratri di emozioni inverse e la tetra sensazione di aver avuto l’opportunità pressoché unica di vedere tutto in modo assolutamente chiaro e realistico (il nostro ruolo, il nostro motivo stesso, la nostra posizione di fronte alla vita e agli Dei) e che questo sia sfuggito come sabbia tra le dita, senza che ci fosse possibile fare assolutamente niente per trattenerlo a noi. Una consapevolezza stessa perduta e solo sfiorata, insomma. Rimane quindi la coscienza di aver avuto a portata di mano una grandissima opportunità di capire qualcosa, di averla capita con una facilità strabiliante, ma di aver in ultimo perduto il concetto principale di ciò che si è capito, insieme alla sensazione di aver perduto un grandissimo dono e che questo dono non possa essere agguantato mai più. Un po’ come diventare ampiamente savi e poi perdere di colpo tutta la nostra saggezza, la quale, sparendo, lascia dietro di sé un segno del suo passaggio: un grande senso di vuoto. In modo ulteriore c’è anche la “fuga” dei ricordi quando si vive questa esperienza. E’ come se i momenti di vita vissuti in quello stato alterato di coscienza andassero a deteriorarsi mnemonicamente con una velocità quadrupla in confronto al normale e rimembrarli ci riporta ad uno status sognante, come se non potessimo essere certi di ciò che abbiamo detto, fatto, come se non fossimo realmente padroni delle nostre scelte che però, in quel momento, ci paiono assolutamente chiare. Per chi lo ha provato, è un tipo di sensazione che viene indotta similarmente anche da alcune sostanze psicotrope, che però, vorrei sottolineare, non trovano alcun ruolo nella pratica del Drawing Down the Moon, quanto meno in quella che conosco io e nei riguardi di ciò che ho sempre letto sui libri autorevoli del settore. Non posso permettermi di parlare però a nome di tutti in quanto non so se esistano in effetti tradizioni che prevedono o favoriscono l’uso di sostanze psicotrope durante i rituali per favorire il Drawing Down the Moon, come ad esempio ne possiamo trovare in pratiche similari di tipo sciamanico.
Il potere risvegliato da questa pratica porta ad un vertiginoso innalzamento dell’energia presente nel cerchio magico tracciato e permette ai partecipanti che vi sono all’interno di entrare in questo modo in connessione con la divinità, sia attraverso le parole dei sacerdoti, ispirate dalle divinità (o se vogliamo, per via diretta), sia per via del canale che si crea con la divinità entro loro stessi. Si potrebbe quindi poeticamente tradurre il Drawing Down the Moon come l’accordo iniziale che permette a tutti quanti di cominciare a cantare in coro in perfetta armonia.
Secondo la tradizione Gardneriana, su cui mi baso per lo più, dal momento che è il punto più antico a cui possiamo risalire se vogliamo usare il termine Wicca, in seguito alla declamazione della vera e propria invocazione che permetterà all’energia della divinità di emergere (e non discendere nel vero senso della parola, dal momento che si parla di immanenza) nel corpo della Dea/Sacerdotessa incarnata, viene svolto il “quintuplice bacio”, che altro non è se non un riconoscimento e un saluto di benedizione alla Dea/Dio e non, come ho sentito dire da alcuni sciamannati, una pratica sessuale! Questo rituale richiama il mito scoperto sulle tavolette di argilla di Nippur, in Mesopotamia e intitolato La Discesa di Inanna; mito che narra della discesa della Dea negli inferi per far visita di cordoglio alla sorella Ereshkigal, unita alla scena iniziatica di Villa Pompei, come spiegato nel mito raccontato da Gerard Gardner nel suo Stregoneria Oggi e che ci riporta al mistero iniziatico dell’affrontare la morte e di accogliere dentro di sé la magia del rinnovamento attraverso il ciclo amore-morte-rinascita.
Proprio come divinità della Morte, durante il quintuplice bacio il sacerdote tocca con le labbra i cinque punti sacri del corpo della Dea/Sacerdotessa invocando la benedizione della Madre partendo dal piede destro, quello sinistro, le ginocchia, il ventre, i seni e la bocca.
Da notare che in alcune tradizioni, ho notato che lo svolgimento del quintuplice bacio e del Drawing Down sono eseguiti nell’ordine inverso, mantenendo però lo stesso identico potere e simbolismo. Personalmente nella mia pratica prima effettuo l’invocazione e poi il saluto/benedizione, ma è una visione personale che può essere benissimo contestata.
Quello che conta è che questa pratica è infine paragonabile ad un perfetto specchio del connubio magia-religione, che è poi quello che la Wicca incarna, e per questo trova uno spazio fondamentale nella ritualità tradizionale con il suo bagaglio di esperienzialità estatica e teurgica.
E a tal proposito troviamo un interessante parallelismo nel libro Oracoli Caldaici di Michele Psello, curato da Silvia Lanzi, che cito: “I teurghi usavano infatti chiaramente dei medium ed usavano una tecnica per farli cadere in trance; presumibilmente attraverso atti rituali quali il far loro indossare una veste speciale. Il medium veniva definito docheus "colui che riceve" oppure con il termine più antico di katochos "colui che è tenuto sotto", mentre il termine meson, l'equivalente letterale greco di medium, è effettivamente proposto in un luogo da Gamblico, ma respinto come troppo presuntuoso. Un docheus in trance parlava con la voce di un dio o di un'entità, rivelandone la sapienza, alla presenza di un sacerdote (iereus) sotto la compulsione da parte di un evocatore (kletor). Essi, tramite incantesimi, obbligavano il dio a entrare nel corpo dell'uomo.
Nella pratica teurgica del Drawing Down the Moon abbiamo pressoché gli stessi ruoli. Un iereus, sacerdote aiuta la sacerdotessa, docheus, a cadere in uno stato di trance estatica dove la divinità parla attraverso la sua bocca e agisce attraverso il suo corpo. E per l’appunto il rituale tradizionale prevede, in seguito, il decanto della “Charge of the Goddess”, o “Incarico della Dea”, momento toccante in cui la Sacerdotessa, carica dell’energia invocata dentro lei, parla con la voce della Dea. La versione originale e più antica della “Charge” è quella risalente al Vangelo di Aradia, il contestato “grimorio” che la strega toscana Maddalena avrebbe donato all’antropologo Charles G. Leland durante un suo viaggio nel nostro paese alla ricerca delle radici della stregoneria italiana.

Quando io avrò lasciato questo mondo,
Di qualsiasi cosa abbisognate,
Una volta al mese,
Quando la luna è piena,
Venite in un luogo deserto,
Nella selva, tutte insieme,
E adorate lo spirito possente
Di mia madre Diana; e colei che voglia
Apprendere la stregoneria, e ancor non abbia
Penetrato d'essa i più profondi segreti,
Mia madre gliel'insegnerà; i segreti
Di tutte le cose ancora sconosciute.
E così, dalla schiavitù sarete liberi:
Liberi in ogni cosa voi sarete!
E in segno di tale libertà
Nudi vi mostrerete, uomini e donne.
E questo fino a quando
L'ultimo degli oppressori non sia morto.
E celebrerete il rito
Del cero di Benevento,
Estinguendo le luci;
Quindi appronterete
Una cena a tal guisa.


In seguito, Doreen Valiente ne creò una versione ancora usata e che rispecchia un punto chiave della pratica Wiccan. Questo testo è stato estrapolato direttamente da Eight Sabbath for the Witches di Janet e Stewart Farrar, tradotto da Cronos e Gabriel e pubblicato su internet.
Il Gran Sacerdote: "Ascoltate le parole della Grande Madre; lei che anticamente era chiamata fra gli uomini Artemide, Astarte, Atena, Dione, Melusine, Afrodite, Cerridwen, Dana, Arianrhod, Iside, Bride e con molti altri nomi ancora.
La Gran Sacerdotessa dice: "Quando avrete bisogno di qualcosa, una volta al mese, e meglio se quando la luna è piena, allora voi vi riunirete in qualche luogo segreto e adorerete lo spirito di me che sono la Regina di tutte le streghe. Allora vi riunirete voi che desiderate imparare tutte le arti della stregoneria, e tuttavia non avete ancora raggiunto i suoi segreti più profondi; a voi io insegnerò cose che sono ancora sconosciute. E voi sarete liberi dalla schiavitù; e come segno che siete realmente liberi, sarete nudi nei vostri riti; e danzerete, canterete, banchetterete, suonerete musica e farete l’amore, tutto in mia lode. Perché mia è l’estasi dello spirito, e mia altresì è la gioia sulla terra; perché la mia legge è amore verso tutti gli esseri. Mantenete puro il vostro più alto ideale; tendete sempre verso esso; che nulla vi fermi o vi faccia deviare. Perché mia è la porta segreta che si apre sulla Terra dell’Eterna Giovinezza, e mia è la coppa del vino della vita, e il Calderone di Cerridwen, che è il Santo Graal dell’immortalità. Io sono la graziosa Dea che dona il dono della gioia al cuore dell’uomo. Sulla terra io dono la conoscenza dello spirito eterno; e oltre la morte, io dono la pace, la libertà e la riunione con coloro che sono dipartiti. Né io richiedo sacrifici; perché vedete, io sono la Madre di tutto ciò che vive, e il mio amore si riversa sulla terra."
Il Gran Sacerdote dice: "Ascoltate voi le parole della Dea delle Stelle; lei, nella polvere dei cui piedi danzano gli abitanti dei cieli, lei, il cui corpo abbraccia l’universo intero.
La Gran Sacerdotessa riprende: "Io, che sono la bellezza della terra verdeggiante, e la candida luna fra le stelle, e il mistero delle acque, e il desiderio nel cuore dell’uomo, chiamo le vostre anime. Alzatevi e venite a me. Perché io sono l’anima della natura che dà vita all’universo. Da me tutte le cose procedono e a me tutte le cose devono infine ritornare; e di fronte al mio volto, amato dagli Dei e dagli uomini, lasciate che il vostro io divino più profondo sia avvolto dall’estasi dell’infinito. Che la mia adorazione risieda nel cuore che gioisce; giacché tutti gli atti di amore e piacere sono rituali a me consacrati. E perciò che in voi ci siano bellezza e forza, potere e compassione, onore ed umiltà, gioia e venerazione. E voi che pensate di cercarmi, sappiate che il vostro ricercare e anelare non vi porterà alcun vantaggio se ignorate il mistero: che se ciò che cercate non riuscite a trovarlo dentro di voi, non lo troverete mai fuori da voi. Perché vedete, io sono stata con voi sin dall’inizio; e io sono ciò che è conquistato alla fine del desiderio."
La pratica dovrebbe appunto essere svolta all’aperto, con l’astro in pieno fulgore e ovviamente, in plenilunio. L’energia della luna in principio veniva colta tra le mani mettendole a coppa intorno alla sfera luminosa della luna e poi fatte discendere verso la Sacerdotessa. In seguito, l’introduzione della stessa nella tradizione Gardneriana e, di conseguenza, anche in quella Alexandriana, Seax e a cascata in tutte le altre che hanno trovato consono inglobarla nella loro pratica proviene probabilmente dalla tradizione della New Forest appresa da Gardner stesso da Dorothy Clutterbuck e dalle streghe della coven di cui faceva parte.
Da notare che nel richiamo della Dea e del Dio da parte dei sacerdoti mediante il Drawing Down the Moon non è previsto alcun ancoraggio ad una divinità in particolare, ma che la diversa forza divina convocata con questa pratica teurgica porta una diversa percezione da parte dei sacerdoti stessi (sia colui/colei che chiama/aiuta – sia colui/colei che riceve) dell’energia scaturita dalla sua discesa.
Invocare pertanto Ecate in luna nuova porta ad una diversa consapevolezza, ad una percezione diversa e ad un diverso “effetto boomerang” se vogliamo, che far discendere Demetra o Artemide in luna piena. Questa stessa energia (e – benché veramente minima - esperienza di tale) mi fa infine dissentire (e qui sono sicuro che alzerò discussioni) con chi afferma con assoluta certezza che l’asserzione di Dion Fortune: “Tutte le Dee sono la Dea” si riferisca ad un principio energetico comunitario delle stesse, diverse divinità, giungenti da ogni parte del globo e da ogni tempo e che sia applicabile come un assoluto.
Diciamo che, a mio avviso – opinabilissimo – c’è un tempo per la teosofia e la teologia e un tempo per la pratica magica e teurgica e che, per quanto queste due cose siano comunque indissolubilmente legate come rami di salice (in quanto siamo esseri pensanti che percepiscono, vivono e condividono il divino in quanto parte dello stesso), talvolta la pratica di alcune delle cose che vengono lette e condivise a livello teorico diviene essenziale per poter avvalorare le teorie che si sentono nostre.
Qualcosa di simile lo troviamo anche nelle pratiche teurgico estatiche di altre tradizioni, vicine per aspetto ritualità alla “possessione”. Nella pratica Voodoo ad esempio, le sacerdotesse di Ezili vengono possedute dal Loa dell’amore e della bellezza e danzano in modo sensuale e frenetico e in seguito non si ricordano assolutamente nulla di ciò che è avvenuto loro.
Questa stessa pratica di possessione, come ci ricorda Andrea Romanazzi nel suo: Il Ritorno del Dio che Balla, deriva dal deicidio operato dagli uomini nella visione di un dio arboreo sacrificato che si vendica prendendo possesso del suo stesso uccisore cavalcandolo come una giumenta. “Ma la punizione è in agguato, l’onta al dio non si lava facilmente: ecco che molte tradizioni, quando ad esempio un mietitore si ammala, giustificano l’evento affermando che “il cavallo bianco gli passa vicino”, o ancora che “ha la cagna bianca”, oppure, e questo è il riferimento più esplicito, che “la cagna bianca lo ha morso”. Siamo di fronte a un rituale di possessione, una cerimonia nel corso della quale gli adepti incarnano entità sovrannaturali. È in questo momento che avviene la discesa di un demone-genio nel corpo del posseduto; il “malato” diviene giumenta del dio che lo incarna, un termine dai risvolti anche erotici, una “cavalcata” che spesso si intrinseca nell’atto sessuale mimato dalla danza e dai furibondi movimenti. È l’esser-agito-da, e l’unione con l’entità può concludersi con il suo allontanamento (esorcismo) o con la sua complicità (adorcismo)”. E per l’appunto la pratica di possessione da parte nel Voodoo è nota come “essere cavalcati dai Loa” e ben spesso comincia in tenera età, divenendo una assoluta quotidianità per la vita delle sacerdotesse che ne vengono coinvolte. Una questione del tutto simile la troviamo anche nelle pratiche estatiche di danze sacre, come la danza del ventre o la trance dance o anche, per tornare all’antica Grecia troviamo la stessa Sibilla, che aspirando i miasmi vulcanici profetizzava come oracolo di Apollo e parlava posseduta dalla divinità stessa.
In questi casi abbiamo quindi un vero e proprio caso di “possessione”, come avviene anche nei riti induisti che prevedono la discesa di Kali nel corpo dei suoi adepti. Una “possessione” che, come tale, può essere causata da un adorcismo, ossia un rituale svolto da un sacerdote esterno o dallo stesso padrone del corpo in questione, mediante il quale si invita uno spirito, un’entità (angelica – demoniaca), una divinità stessa (o un suo esponente - messaggero), di prendere possesso del corpo fisico di un soggetto per un tempo limitato; quindi in un certo senso “consensuale”. Nel caso invece di una possessione “non consensuale” abbiamo il rituale di bando opposto, riconosciuto ed utilizzato dalla Chiesa Cattolica di Roma per allontanare e liberare il corpo di un individuo dall’entità (per lo più malvagia e di origine demoniaca) che ne ha preso il possesso legandosi alla sua anima e portandolo a patire enormi sofferenze e costringendolo ad atti contrari alla sua stessa morale. Possiamo quindi riassumere che la pratica del Drawing Down the Moon, come anche quella relativa ai Loa, e le danze o i combattimenti trance-estatici, la trance profetica (come quella della Sibilla), il rapporto ipnotico-medianico ottenuto dalla coppia iereusdocheus, la discesa di Kali nel corpo di esseri viventi nel credo induista, quindi l’adorcismo eccetera, sono spesso associabili e facilmente riconducibili al fenomeno delle possessioni (anche demoniache).
Come abbiamo visto in definitiva, la possessione altro non è che il fenomeno mediante il quale si ritiene che una divinità o un’entità o uno spirito (nel caso dello spiritismo) possa prendere possesso del corpo di una persona e agire al suo posto, pro o contro la sua volontà. Ecco che qui troviamo un altro parallelismo per il quale concluderei con una domanda che possa permetterci di riflettere sulle origini stesse del divino come eggregore: come mai quando noi pagani ci ritroviamo invasati da una divinità, qualsiasi essa sia, tendiamo a ritenerlo più facilmente un onore, un segno di grande santità, un’esperienza estatica e mistica con la quale ci riteniamo benedetti e invece i cristiani chiamano un esorcista?