The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Claudiano: Il Ratto di Proserpina

Claudio Claudiano: Il Ratto di Proserpina
 

Proemio al Libro I
 

Chi primo escogitò la barca e solcando il mare, con rozzi remi agitò le acque; chi osò consegnare ai soffi malsicuri il suo tronco; questi con l’arte mostrò una via che la natura nega. Dapprima si affidò trepidante alle onde tranquille, sempre sfiorando la riva con rotta sicura; s’avventurò poi presto in ampi golfi lasciando la costa e cominciò ad aprire le vele al mite Austro. Ma quando crebbe l’impaziente ardimento e il cuore dimenticò la svigorita paura, egli, ormai libero, fa impeto all’Oceano e seguendo le stelle doma le tempeste egee e lo Ionio.
 


Libro I 
 

A narrare con canto audace i cavalli dell’infero seduttore, e le stelle affoscate dal tenario cocchio e il talamo tenebroso della regina degli abissi, i concitati pensieri mi spingono. Ritraete il passo, profani. Ecco, l’entusiasmo scaccia dal mio petto gli affetti umani e dal mio animo solo Apollo spira; già vedo che sulla vacillante sede il tempio si scuote e che la soglia diffonde fulgido chiarore, attestando la presenza del Dio; dalla profonda terra si ode un boato, echeggia il santuario cecropio ed Eleusi innalza le sante fiaccole. Stridono le serpi di Trittolemo, alzano il collo, squamoso costretto dal curvo giogo, e con placido corso si accostano al canto drizzando la rosea cresta. Indistinta nel triplice aspetto, da lontano Ecate sorge e insieme Iacco avanza leggero, adorno il capo di edera, e ammantandosi di partica tigre ne allaccia in nodi gli aurei artigli: il suo passo ebbro è sorretto dal tirso meonio. O Dèi, ai quali si inchina lo sterminato volgo inerte del vuoto Averno; voi, al cui fasto doniamo tutto ciò che muore nel mondo; voi, che lo Stige avvolge con lividi stagni; voi, tra cui scorre nebbioso il Flegetonte che spinge i suoi gorghi fumanti; disserratemi voi il luogo dei santi eventi e i segreti del vostro mondo: con quale fiamma Amore piegò Dite; per quale violenza l’altera Proserpina ebbe il Caos come dote; in quante regioni errò disperata sua madre in corsa affannosa; come ci furono date le messi e come la quercia dodonia e le sue inutili ghiande cedettero alle trovate spighe. Il Signore dell’Erebo un giorno avvampò di torva ira pronto a far guerra ai Superi, perché egli solo era privo di nozze e consumava sterili gli anni: era deciso ormai a non ignorare più il letto e le gioie di sposo e a godere del dolce nome di padre. Già tutti i portenti celati nel mortifero abisso corrono in branchi e schiere; contro il Tonante fanno lega le Furie, e Tisifone, avvolta di maligni colubri, squassa con sinistri bagliori la torcia e chiama all’esangue raduno gli armati spettri. Gli elementi, insorgendo in generale sommossa, avevano quasi infranto la regola, e la titanica prole spezzati i suoi ceppi stava per rovesciare la prigione e per rivedere la luce del cielo: allora il sanguinario Egeone, liberato l’ingigantito corpo dai nodi, con le cento braccia avrebbe respinto le folgori che lo assalivano. Ma interruppero le Parche la sfida e, atterrite per il mondo, al soglio e ai piedi del sovrano sciolsero l’austera canizie e con supplice pianto toccarono le ginocchia con la mano, al cui arbitrio ogni cosa è soggetta, la mano che regge l’ordine dei Fati, che trae i lunghi secoli dalle ferree conocchie. Per prima Lachesi con scarmigliate chiome così gridava all’aspro signore: «O arbitro potente della notte, principe delle ombre: tu che stanchi i nostri stami; che a tutto dai fine e origine; che riscatti la sorte di nascere con la morte; che guidi la vita e il suo termine (tutto ciò che, ove che sia, la materia partorisce, per tuo dono è creato, a te si deve e nei prescritti giri del tempo ritornano le anime nelle corporee membra), non dissolvere le garantite leggi di Pace che noi filandole dall’aspo; non sconvolgere i patti fraterni con intestina lotta! Perché innalzi empie bandiere? Perché schiudi la luce agli immondi Titani? Chiedila a Giove, avrai la sposa!» Disse, ed egli sentì rispetto e rossore delle preghiere; si mitigò il duro cuore che pure non sa cedere: come quando con fragore di soffi Borea pesantemente si arma, di candidi ghiacci irto, e, ricoperto le ali di getiche brine, squarcia il mare e urlando devasta le selve e i campi, ma se ad ostacolo le bronzee porte Eolo gli pone innanzi, l’impeto esausto si dissolve e infranti gli uragani tornano alla catena. Allora comanda che si chiami il figlio di Maia perché riferisca adirate parole. Gli è presso l’alato Cillenio col petaso in capo e con la verga del sonno. Fermo sul disadorno trono egli siede, venerabile di tetro splendore. Il grande scettro è lugubre di fetida muffa e una mestissima nube contrista il capo divino. Freddo è il rigore della spietata bellezza, il rancore accresce maestà. Dalla bocca sublime così tuona (alla voce del tiranno la reggia cade in un silenzio atterrito; l’enorme portiere frena il triplo latrato, il Cocito serrando la sorgente del pianto s’arresta, si cheta l’Acheronte in acque ora immobili, si posano gli echi della riva flegetontea): «Arcade, nipote di Atlante, divinità comune agli Inferi e ai Superi, tu che solo puoi varcare le due soglie e che tratti i due mondi, rapido va’, solca i venti, porta i miei comandi al superbo Giove: “Quanti diritti avrai su me, fratello inesorabile? L’ostile Fortuna mi ha tolto con il cielo ogni forza? Se a me è sottratta la luce, anche il vigore ho perso e le armi? O vili e abbattuti ci credi perché non scagliamo saette ciclopiche e con fragori non inganniamo il vuoto etere? Non ti pare che basti se io, privo del dolce chiarore, ho subito il terzo danno dell’ultimo sorteggio, il mondo informe, mentre te allieta sereno lo Zodiaco e attorniano le Orse con molteplici stelle? Anche le nozze mi vieti? Nell’azzurro abbraccio la Nereide Anfitrite stringe Nettuno; te, dopo i fulmini stanco, accoglie Giunone nel consanguineo grembo! Narrerò le tue frodi con Latona? O con Cerere e con Temi potente? Ogni diritto tu hai di generare e te onora la fertile prole! Io invece oscuro, afflitto nella corte desolata, con nessun figlio consolerò gli immiti pensieri? Non fino a tanto mi adatterò alla pace! Giuro per il principio del buio e per gli inviolati pantani dell’orrenda palude, se respingi le mie parole, sconvolgerò lo spalancato Tartaro, scioglierò le antiche catene di Saturno, offuscherò di tenebre Sole e, rovinato ogni assetto, la lucida volta si confonderà col tenebroso Averno!» Aveva appena parlato e già il messo toccava le stelle. Il Padre ha udito la richiesta e ora riflette tra opposti pensieri chi sia colei che tali nozze accetti e scambi la luce con gli antri inferi. Finalmente ai suoi dubbi giunse un sicuro proposito. A Cerere ennense fioriva una diletta figlia, la sola, né Lucina aveva poi concesso un secondo parto, che il grembo, affaticato del primo, si era arrestato sterile. Ma lei superba su tutte le madri si erge e Proserpina le compensa il difetto del numero. La madre la cura, la segue: più amorosamente la severa mucca non bada alla vitellina che ancora non corre sui prati e che non ha piegato le tenere gemme della lunata fronte. La casta giovinezza era giunta all’età coniugale nel compiersi degli anni: una fantasia di nozze agita la delicata modestia e il desiderio trema di sgomento. Echeggia il palazzo di innamorati: contendono per lei Marte forte con lo scudo e Febo più capace con l’arco. Marte dona il Rodope, Febo presenta Amicle, Delo e l’altare di Claro; a gara qui Giunone, lì Latona la domandano nuora. Li sdegnò entrambi la bionda Cerere e nel timore d’un rapimento (l’ignara!) di nascosto affida alle sicule terre la sua gioia, dette da allevare la figlia a Lari infedeli, abbandonò il cielo e la confina nelle sicule terre confidando nell’indole del luogo. La Sicilia un tempo era congiunta all’Italia, ma il mare e le correnti mutarono la condizione. Nereo spezzò il confine vincendo e tra i monti disgiunti corse con le acque: breve distanza separa le due terre sorelle. Ora la tricuspide, strappata dal suolo compagno, dalla Natura è contrapposta al mare: di là Pachino respinge lo Ionio irato contro gli ostili scogli, qui ruggisce il getulico mare e gonfiandosi batte il golfo Lilibeo, lì la bufera tirrenica, insofferente di freni, squassa Peloro che la contrasta. Nel mezzo l’Etna si leva da torride rocce, l’Etna, fragoroso ricordo dei trionfati Giganti, tumulo di Encelado che, incatenato la percossa schiena, soffia zolfo incessante dall’accesa piaga; quando scuote il peso dall’indomito collo, torcendosi a destra, a sinistra, ne è sradicata l’isola e malferme oscillano le città con le mura. Solo con lo sguardo è dato conoscere la vetta etnea, non calcarla col passo. Una sua parte frondeggia di piante, ma la cima da nessun colono è battuta. Ora spinge nativi vapori e con livida nube angufìtia e contamina il cielo, ora sfida le stelle con urti tremendi e alimenta i fuochi a suo danno. Ma sebbene arda e trabocchi di ignei torrenti, rispetta il patto con la neve: insieme alle braci si consolida il ghiaccio incurante del gagliardo vapore e protetto da misterioso gelo. Col compagno fumo la fiamma sfiora innocua le contigue nevi. Quali congegni scagliano i massi? Quale mai forza accumula rovine? Da quale fonte si versa l’infuocato torrente? Forse il vento, vagante per i serrati ostacoli, con impedita corsa infuria tra incrinate rocce mentre esplora il cammino, e cercando uno sfogo devasta coi discordi soffi le corrose volte; o il mare, spinto nelle viscere del sulfureo monte, ribolle per le costrette onde e avventa rupi. Allorché la vigilante madre qui nascose la figlia per difenderla, si avviò poi tranquilla alla patria frigia e a Cibele turrita, guidando i draghi dal flessuoso corpo che aprono le nubi con un aereo solco e bagnano il morso di inoffensivi succhi: una cresta copre la loro fronte, verdi disegni adornano il maculato dorso e il rosso oro sfolgora tra le squame. Ora con le spire fendono gli Zefiri, ora con volo basso sfiorano i campi. La ruota, scorrendo sulla grigia polvere, segna la terra e la feconda. Biondeggia di spighe la traccia e messi crescenti la ricoprono. Il frumento segue e indora il viaggio. Già l’Etna è alle spalle e la Sicilia intera si dilegua allo sguardo che fugge. Ah, quanto spesso la Dea, presaga del dolore, rigò di lacrime le guance! Quanto spesso volse gli occhi alla casa e disse: «Ti saluto, terra amatissima, che ho preferito al cielo: a te affido la gioia della mia vita e il dolce peso del grembo! Un premio adeguato ti destino: non subirai la marra né sarai sconvolta dal morso del duro vomere! Spontanei fioriranno i campi e tra buoi pigri ricco il colono ammirerà le generose messi!» Così disse e con i fulvi serpenti toccò l’Ida. Qui è la sede augusta della Dea e la sacra pietra del tempio venerando: un pino la ricopre di folto verde e senza che alcun soffio muova il bosco, tra i rami carichi di pigne intona acuti canti. Spaventosi sono lì i tripudi, in delirio geme il sacrario tra i suoni. In ululati si disfrena l’Ida, il Gargaro inchina le sue selve tremanti. Quando compare Cerere, i timpani interrompono i colpi, tacciono i canti, il Coribante frena la spada. Non più strepito di flauti e bronzi; i leoni abbassano la criniera ammansita. Lieta Cibele dai suoi antri accorre e accosta al bacio il turrito capo. Scrutando dall’eccelsa cima, Giove ha appena visto questi eventi e a Venere apre il segreto dei pensieri: «A te, o Citerea, dirò il mio nascsto proposito! Già da tempo è deciso che la candida Proserpina tocchi in nozze al re del Tartaro! Così Atropo impone, così ha cantato l’antichissima Temi! La madre è lontana, ora è tempo di concludere! Entra nelle terre sicule, e quando il giorno di domani scopra l’alba purpurea, spingi la figlia di Cerere a giocare negli aperti campi, armandoti degli inganni con cui sai accendere ogni essere e anche me! Perché sta in pace l’ultimo regno? Nessun luogo sia illeso, nessun cuore tra i morti sia freddo a Venere! Perfino la tetra Erinni provi quel fuoco e l’Acheronte e il rigido petto del fiero Dite si scaldino alle saette amorose!» Affretta Venere i comandi. Per ordine del padre, Pallade e colei che flettendo l’arco atterrisce il Menalo, si uniscono a lei. Al passo delle Dee la via risplende, come la meteora che nunzia di sinistro presagio vola e cade con sanguigno fuoco, fiammeggiante prodigio: con paura il marinaio, con certezza di danno la guardano le genti, che minacciosa apporta o bufera alle navi o assedio alle città. Giunsero al luogo dove splendeva la reggia di Cerere, solida per la forza dei Ciclopi. Si ergono aculeate le mura, ferrei gli stipiti, l’acciaio fissa gli immensi serrami. Altra opera con tanta fatica mai Piracmone costruì né Sterope; mai con tale vento ansarono i mantici, né di tanto sudore dalle esauste cervici si bagnò il fuso metallo. L’avorio circonda l’atrio, su bronzei architravi poggia la volta, l’ambra si innalza in erette colonne. Proserpina, ricreando la casa con canti gentili, un vano dono intesseva per il ritorno della madre. Qui con l’ago effigiava la vicenda degli elementi e la sede paterna: per quale legge la Natura madre divise l’antico disordine e i princìpi si disposero nei luoghi convenienti: il leggero è portato in alto, i corpi gravi cadono nel mezzo. S’accese l’etere, la fiamma scelse il cielo, fu liquido il mare, si librò la terra. Non unico era il colore. Nell’oro ella accende le stelle, sparge di porpora le acque. Indurì le spiagge con gemme, e i fili che disegnano fitte onde con perizia si gonfiano: puoi credere che l’alga sbatte sugli scogli, e che un rauco fragore corre per le assetate arene. Aggiunge le cinque zone. L’intermedia, oppressa dal calore, la disegna con trama rossa: desolato era il riarso confine e l’ordito era secco per la furia di Sole. Da una parte e dall’altra le aree della vita, che percorre un mite clima, adatto agli uomini. Nell’orlo estremo ella ritrasse le due piaghe irrigidite, di un infinito inverno ottenebra la tela e la contrista di gelo perenne. Dipinge inoltre il santuario di Dite, suo zio, e le oscure potenze a lei fatali. Non le mancò il presagio: di improvvise lacrime si bagnò il profetico volto. Al lembo del ricamo già cominciava a tracciare l’Oceano con le azzurre correnti. Ma al volgersi del battente, ella si accorge che le Dee le sono presso, interrompe il lavoro e cosparge di porpora il candido volto, arrossendo le serene gote. Di casto pudore splende la fiamma: non tale avvampa il nobile avorio se una donna lidia immerge nel succo sidonio. Il mare aveva accolto la luce, e l’umida notte spandendo sopore portava con la cerulea biga il molle riposo; già Plutone, esortato dal fratello, prepara il viaggio verso l’aria dei vivi. L’orrenda Aletto lega al timone i truci corsieri che si cibano dell’erba del Cocito, pascolano i neri prati dell’Erebo e bevendo alle putride pozze dello stagnante Lete, versano dalla soporosa lingua un’oscura bava d’oblio. Orfneo dall’occhio crudele, Etone più rapido della saetta, Nìtteo alta gloria dell’armento stigio, Alastore distinto dal segno di Dite, stavano aggiogati alla porta e orribilmente fremevano tesi alla gioia della vicina preda.
 


 Proemio al Libro II
 


Quando Orfeo, ormai ozioso, aveva assopito il canto rinunziando alla sua fatica a lungo negletta, rimpiangevano le Ninfe il piacere a loro sottratto, e i fiumi tristi chiedevano quei dolci suoni. Torna la ferocia alle belve e atterrita dal leone la vacca implora il soccorso della cetra taciturna. Piansero quel silenzio anche gli aspri monti e le selve che spesso scortavano la bistonia lira. Ma dopo che l’ Alcide, movendo dall’inachia Argo, col piede pacificatore toccò i campi di Tracia; e sovvertì le orrende stalle del sanguinario re spingendo i diomedei cavalli alla pastura, allora il cantore, lieto per il gioioso evento della sua terra, riprese le corde canore dell’abbandonata cetra e modulando col plettro sottile le impigrite minugie trattò con mano gioiosa l’eletto avorio. Non appena l’udirono, si calmarono i venti e i flutti e indolente l’Ebro si irrigidì nelle gelate acque; il Rodope protese le rupi assetate di canto, l’Ossa incurvandosi scosse da se le gelide nevi. L’alto pioppo discese dalla spogliata cima dell’Emo, il pino fraternamente trasse con sé la quercia compagna; l’alloro, sebbene avesse sdegnato l’arte del Dio di Cirra, giunse anch’esso attratto dal canto di Orfeo. Con sollecita mitezza il mastino tratta la lepre tranquilla, fianco a fianco si accosta l’agnella al lupo. Amichevolmente giocano le gazzelle con la screziata tigre, i cervi non temono la criniera del leone. Egli cantava l’ostilità della matrigna e le imprese di Ercole e i mostri abbattuti dalla forte mano: come il bimbo ardito aveva mostrato alla sgomenta madre i serpenti strozzati, ridendo con fiero aspetto. «Te non atterrì né il toro che col muggito scuoteva le città dittee, né l’ira del cane infernale, né il leone destinato alla siderea volta del cielo, né il cinghiale, orgoglio del monte Erimanto! Tu hai sciolto la cinta dell’amazzone, con l’arco cogli le predatrici stinfalie, dall’occidente riporti le mandrie e abbatti le innumeri membra del tergemino pastore e torni tre volte vincitore di un solo nemico! Cadere non giovò ad Anteo, né all’idra ricrescere, né i veloci piedi poterono salvare la cerva! Si è estinto il fuoco di Caco, si è arrossato il Nilo per Busiride, il Foloe ha accolto il sangue dei nati dalle nubi! Te hanno ammirato i golfi libici, per te ha tremato Teti immensa, quando ti chinasti sotto il peso del cielo: ma più saldo si librò il mondo sull’erculea cervice e Febo e le stelle percorsero i tuoi omeri!» Tale il canto di Orfeo. Tu sei per me, Fiorentino, un secondo Ercole. Tu muovi il mio plettro, desti gli antri delle Muse intorpiditi da un lungo sonno e guidi in cerchio le soavi danze.
 


Libro II
 


Con i primi araldi della luce percosse le ioniche onde il giorno ancora velato: sul mare increspato vibra il bagliore e per l’azzurro giocano le vaganti fiamme. Già Proserpina, ardimentosa e dimentica della sollecita madre, per l’insidia di Venere si avvia alle valli irrorate (così vollero le Parche). Tre volte sui cardini funestamente stridettero le porte; tre volte gridò lugubre con tremendo rimbombo l’Etna conscio del Fato. Ma da nessun segno ella è trattenuta, da nessun prodigio. Compagne le sorelle si unirono al suo cammino. Lieta della frode e animata da tanto progetto, precede Venere e tra sé medita il rapimento imminente per forzare il tremendo Caos, per trascinare, vinto l’Inferno, gli asserviti spettri in grandioso trionfo. A lei i capelli si adagiano in arricciate ciocche, spartiti da una spilla idalia; una fibbia, fatica del marito, sostiene col diamante la purpurea veste. Dietro si affrettano la candida sovrana del parrasio Liceo e colei che con la lancia difende la rocca di Pandione, vergini entrambe: questa in luttuose guerre tremenda, l’altra temibile alle fiere. La Tritonia sul fulvo elmo porta scolpito Tifone che, nelle membra superiori estinto, in basso freme, morente e vigoroso in parte. L’asta che si erge tra le nubi con terrifica punta ha aspetto di albero; soltanto le fischianti teste della Gorgone ella cela con la piega del fulgido manto. Dolce è l’aspetto di Trivia e molto del fratello è nel suo viso: diresti che di Febo è la guancia, di Febo sono le luci, soltanto li distingue il sesso. Fiorenti sono le braccia nude; indocili si agitano i capelli ai soffi leggeri. è in ozio la corda del negletto arco, sulla schiena pendono le frecce. La veste gortinia si increspa sotto la doppia cintura scendendo fino al ginocchio, sul mosso tessuto Delo è vagante nel mare d’oro che la circonda. Tra loro la figlia di Cerere, ora orgoglio della madre e presto suo pianto, avanza nell’erba con passo uguale, né è da meno per bellezza o decoro: potrebbe sembrare Pallade, se avesse lo scudo e, con le frecce, Febe. Raccolta in alto la veste è fissata da un liscio diaspro. Alla destrezza della spola mai più felice rispose la riuscita dell’arte; in nessuna tela furono i fili così armoniosi, né spinsero i ricami a tale evidenza. Qui aveva fatto nascere Sole dal seme di Iperione e con esso Luna, diversa di forma, le guide dell’alba e del buio. Porge Teti la culla, tra le braccia consola i due piccoli anelanti e l’azzurro grembo splende del loro tenero incarnato. Col braccio destro sostiene il Titano malfermo, non ancora maestoso di luce, ne cinto il capo di adulti fulgori: mite è ritratto nella prima età e nei vagiti esala delicato fuoco. A sinistra la sorella sugge l’offerta del glauco petto e alle tempie è segnata di piccole corna. Così elegante Proserpina esulta. Mentre avanza, le Naiadi la accompagnano e la stringono in amichevole giro, quelle, o Criniso, che popolano le tue fonti, e il Pantagia che trascina massi, e il Gela che da’ nome alla città; quelle che la pigra Camarina in paludosi stagni nutre, e le onde aretusee e lo straniero Alfeo. Ciane spicca in tutta la schiera: quale lo stuolo delle Amazzoni dai lunati scudi trionfa quando la guerriera Ippolite guida il candido drappello, dopo aver devastato in battaglia il settentrione, o che abbiano sterminato i biondi Geti o spezzato con le scuri termodontiche il Tanai indurito dal gelo; o quali le meonie Ninfe che l’Ermo nutre, a Bacco rinnovano le feste e percorrono la paterna sponda bagnate d’oro: gioisce nella grotta il Dio fiume e generoso versa la traboccante urna. Dalla verde sua cima Enna, madre di fiori, osserva il sacro corteo e parla a Zefiro che siede in una valle appartata: «O amabile padre della primavera, che in corsa gioiosa domini per i miei campi e sempre fecondi l’anno di incessanti brezze, guarda il convegno di Ninfe e gli eccelsi germogli del Tonante che si degnano di scherzare nei miei prati! Accostati, ti prego, e sii propizio! Fa’ che nel frutto ogni virgulto maturi, sì che la fertile Ibla mi invidi e ammetta che i suoi giardini sono vinti! Ciò che Pancaia trasuda nei turiferi boschi, ciò che da lungi promette l’odoroso Idaspe, ciò che l’immortale alato tra gli ultimi abitanti raccoglie, cercando la sua nascita dall’attesa morte, tutto infondi nelle mie vene e con vento benigno scalda i miei campi! Sia io degna di esser colta da mani divine e si adornino le Dee di questi fiori!» Così parlò. Quello scuote le ali madide di fresco nettare e con fertile brina feconda le zolle. Per dove vola, lo segue il purpureo aprile. La terra gonfia partorisce verdure, si spalanca la vòlta del cielo sereno. Egli di sanguigno splendore impregna le rose, di nero i giacinti e dipinge le viole di tenero indaco. Quale partica cintura, laccio su principesco seno, svaria mai di tante gemme? Quali lane si mutano tanto nelle preziose schiume della caldaia assira? Meno belle l’uccello di Giunone dispiega le ali, né così si adorna il giovane inverno quando l’arco in cielo screzia l’iridata corona e con curva linea un umido sentiero verdeggia tra le spezzate nubi. La bellezza del luogo supera i fiori. Incurvandosi in breve dosso e alzandosi in dolci declivi la pianura si fa collina; dalla viva pietra le sorgenti con mobile corso lambiscono il rorido prato. Con l’ombra dei rami un bosco mitiga l’ardore di Sole e al culmine dell’estate si assicura il fresco: l’abete adatto alle onde, il comiolo pronto alla guerra, la quercia amica di Giove, il cipresso riparo di tumuli, l’elce piena di lavi, l’alloro che vede il futuro; qui trema il bosso ricciuto nella sua fitta chioma, lì striscia l’edera e il pampino avvolge gli olmi. Non lontano un lago (i Siculi lo chiamarlo Pergo) si estende e, cinto da una frondosa corona di boschi, si offusca alla riva; nel mezzo invece accoglie lo sguardo, le acque chiare per gran tratto accompagnano la vista sotto i limpidi flutti e svelano i lontani segreti del lucido fondo. Qui discende la schiera e scherza per i prati fioriti. Citerea le esorta a raccogliere: «Andate, sorelle, finché l’aria stilla rugiada ai primi raggi, finché Lucifero a me caro bagna i biondi campi, guidato dall’umido corsiero!» Così dice e coglie il simbolo del suo pianto. Le altre compagne allora si sparsero per le diverse balze: le crederesti uno sciame pronto a raccogliere il timo ibleo, quando i capi lasciano il cereo alloggio, e il mellifero esercito, calando da un vuoto faggio, ronza tra le erbe prescelte. Spogliano i prati della loro gloria: una congiunge i gigli alle cupe viole, l’altra di morbida persa si adorna, questa incede fiorita di rose, questa candida di ligustri. Te anche colgono, Giacinto, afflitto nei dolenti tuoi fiori, e te, Narciso; ora gemme di primavera, un tempo fulgidi giovani. Tu nascesti in Amicle, l’Elicona generò Narciso. Te uccise il deviato disco, l’amore del fonte illuse quello: oscurando il capo, te il Delio piange, piange quello il Cefiso troncando le canne. Colei che è speranza della Dea delle Messi, più delle amiche arde del vivo desiderio di raccogliere. Ora lieti canestri di vinchi intrecciati riempie di agreste bottino; ora fiori congiunge ignara incorona sé stessa, fatale segno di nozze. Perfino la regina delle armi e delle trombe ristora con lievi fatiche il braccio con cui travolge le schiere dei forti e abbatte le solide porte e le mura; depone la lancia e con inconsuete ghirlande dona mitezza all’elmo: ingentilito il ferreo apice, si dilegua il marziale rigore e il cimiero fiorisce di quieti colori. Neppure colei che con i cani insegue le uste sul Partenio, disdegna la schiera e agli sciolti capelli dette soltanto il vincolo di un’imposta corona. Mentre per i campi onestamente così si rallegrano, ecco improvviso echeggia un fragore, cozzano le torri e sulle incerte basi tremano le città e si sovvertono. La causa è ignota. Solo la Dea di Pafo comprende l’oscuro disastro, e pur sgomenta di terrore ne gode. Già per gli opachi anfratti il re delle anime sotto la terra cercava una strada e con i possenti cavalli calcava il gemente Encelado: le ruote solcano le immense membra, nelle oppresse spalle pena il Gigante reggendo la Sicilia, e Dite debolmente tenta di scuotersi e ostacola il cocchio con le stanche serpi. Corre l’impronta fumante sul sulfureo dorso. Come furtivi i soldati si dirigono contro il nemico ignaro e sotto le fondamenta del perforato campo valicano le mura ormai cinte dall’occulto passaggio: vittoriosa la schiera balza su nell’ingannato fortino, imitando i terrigeni eroi; così il terzo erede di Saturno con l’errante cocchio esplora le solitarie latebre, desiderando uscire al fraterno mondo. Nessun accesso è aperto, da ogni parte si oppongono rocce e trattengono il Dio con la loro mole compatta. Non tollerò l’indugio, e sdegnato colpisce le rupi , con lo smisurato scettro. Ne rintronarono le sicule caverne, Lipari ne è sconvolta, stupito il Dio forgiatore lascia i suoi fuochi, tremando il Ciclope abbandona il fulmine. Il tuono, l’udì chi dal gelo alpino è circondato; chi in te nuota, o Tevere non ancora cinto dai trofei latini; e chi guida nel Pado un tronco di ontano. Quando la laguna del Peneo stagnante, racchiusa tra rocce, occupava la Tessaglia e vietava di lavorare i campi sommersi, Nettuno spinse col tridente gli opposti monti e, battuta dall’energico colpo, la vetta dell’Ossa balzò via dal ghiacciato Olimpo; dalla barriera si slanciano le acque e, aperto il varco, torna così il fiume al mare, la terra ai coloni. Appena, domata da quel braccio, la Sicilia ruppe il potente vincolo e fu separata dall’immensa voragine, un improvviso spavento apparve in cielo: gli astri mutarono le leggi del cammino, l’Orsa si bagnò nell’Oceano a lei vietato, la paura incalzò il tardo Boote, Orìone rabbrividì, Atlante si fece pallido udendo il nitrito. L’oscuro fiato occulta lo splendore del cielo; ma il mondo atterrì i cavalli nati a pascersi in eterna caligine: mordendo il freno s’arrestano attoniti in quel mondo più bello e girando l’asse tentano di tornare al tremendo Caos. Poi, quando ai fianchi avvertirono la frusta e appresero a tollerare Sole, piombano più veementi di un fiume dopo la bufera, più rapidi del giavellotto: quanto non vola neppure la saetta del Parto, il furore dell’ Austro, il lieve pensiero della mente agitata. Di sangue è caldo il morso, il pestifero alito guasta l’aria, corrotto dalla bava si infetta il suolo. Fuggono le Ninfe. Sul cocchio è rapita Proserpina e chiede aiuto alle Dee. Già Pallade scopre il volto della Gorgone, la Delia rapida dirige la freccia, e allo zio si oppongono: le spinge alle armi la comune verginità e le esaspera l’offesa spietata del rapimento. Egli è come un leone che afferra una giovenca, vanto della stalla e della mandria, e ne trae con gli artigli le viscere e sulle spalle, sui fianchi sfoga la ferocia; si erge bruttato di denso sangue, scuote i ricci della criniera e sprezza la vile ira dei pastori. «Tiranno di una torpida gente, pessimo tra i fratelli - esclama Pallade - quali Eumenidi con aculei e empie fiaccole t’hanno aizzato? Perché abbandoni il tuo regno e osi violare il cielo con l’infera quadriga? Hai le deformi Dire, hai le altre divinità del Lete, e le lugubri Furie, degne delle tue nozze! Vattene dalla casa del fratello, lascia l’altrui retaggio, parti contento del tuo buio! Perché confondi la vita con i sepolcri? Perché straniero calpesti il nostro mondo?» Così gridando, percuote col truce brocchiere i cavalli frementi di slancio, li trattiene con il rotondo ostacolo da cui, fischiano le gorgonie idre, e con le protese creste li incalza. Al colpo si libra la lancia e fronteggiandolo illumina l’oscuro cocchio; e l’avrebbe percosso, se Giove dall’alto etere non avesse vibrato il pacifico volo di una rossa saetta, riconoscendosi suocero. Tra nubi squarciate echeggia l’inno imeneo e le fiamme attestano il connubio. Deluse si ritraggono le Dee. Piangendo depone l’arco la figlia di Latona e disse queste parole: «Ricordati di noi, addio! La soggezione al Padre ci ha impedito il soccorso, né possiamo difenderti contro di lui! Siamo vinte, sì, da un decreto più forte! A tuo danno cospira il genitore e al popolo silenzioso sei affidata, né rivedrai le sorelle che ti desiderano, né il coetaneo coro! Quale sorte ti ha strappato all’alto e contrista il cielo di tanta afflizione? Ora non mi piace più cingere di reti le tane del Partenio, né portare la faretra: audace sbavi dove vuole, il cinghiale, senza rischio urli il feroce leone! Finite le cacce, le cime del Taigeto, il Menalo per te gemeranno, e a lungo sarai pianta dal Cinto desolato! Anzi, tacerà perfino il delfico santuario di Apollo!» Frattanto Proserpina è trascinata dal volante carro, sparsa i capelli al vento, e nei lamenti si percuote le braccia alzando vani singhiozzi alle nubi: «Perché non hai scagliato, padre, contro me le saette forgiate dai Ciclopi? Questo hai voluto, assegnarmi alle ombre crudeli, scacciarmi del tutto dal mondo? Non c’è amore che ti pieghi? Nessun affetto di padre è in te? Per quale delitto ho acceso tale ira? Io non alzai insegne nemiche agli Dèi, quando Flegra infuriava di impetuosa rivolta; non per mia forza il ghiacciaio dell’Ossa sostenne l’Olimpo nevoso! Che sacrilegio ho tentato? In quale delitto associata, sono bandita esule nell’immane abisso dell’Erebo? O fortunate tutte, coloro che altri seduttori rapirono! Godono almeno del nostro Sole! Ad un tempo la verginità a me è negata e la luce, col cielo mi tolgono il pudore; lascio la terra e sono condotta schiava a servire il sovrano infernale! O fiori amati a mio danno! O trasgredite avvertenze di mia madre! O espedienti di Venere, compresi tardi! Madre, ahimè, se nelle frigie valli dell’Ida l’aspro flauto con canto migdonio ti avvolge, se abiti il Dindimo ululante di mutilati sacerdoti e guardi le estratte spade dei Cureti, soccorrimi in questa rovina, raffrena l’ossesso! Arresta le briglie funeste del truce rapitore!» Da tali parole e dalle belle lacrime è vinto lo spietato e sente il fremito del primo amore. Allora asciuga il pianto col ferrigno mantello e con calme parole consola quel mesto dolore: «Cessa, Proserpina, di torturarti l’animo in pensieri funesti e in vana paura! Avrai un regno più grande, né subirai le nozze con uno sposo di te indegno! Io sono prole di Saturno, a me obbedisce la macchina del mondo, per l’immenso vuoto si estende il mio potere! Non credere di aver perduto la luce: abbiamo altri astri, altre orbite, vedrai un chiarore più limpido e più ammirerai l’elisio Sole e i pii abitanti; là è l’umanità più nobile, vi soggiorna l’aurea stirpe e noi possediamo per sempre ciò che sulla terra fu meritato una sola volta! Avrai morbidi prati; tra soffi più dolci esalano fiori perpetui, quali non dà neppure la tua Enna! In un bosco opaco c’è anche un albero prezioso che piega i rami fulgenti di verde metallo: l’albero sarà consacrato a te, sarai Signora del dovizioso Autunno e sempre ricca di rossi pomi! Ma poco ti ho detto! Ciò che la limpida aria abbraccia, ciò che Tello alleva, ciò che la distesa del mare travolge, ciò che trascinano i fiumi, che le paludi nutrono, tutti ad un modo gli esseri animati saranno tuoi sudditi, sottoposti alla sfera lunare che settima avvolge le vostre aure e dagli astri eterni divide ciò che muore! Ai tuoi piedi verranno ire porporati privi dello splendore, confusi nella folla dei poveri (tutti eguaglia la morte)! Tu condannerai gli empi, tu porterai pace ai pii! Al tuo giudizio i colpevoli confesseranno le infami azioni della vita! Accetta per ancelle le Parche con le onde letee, e Fato divenga ciò che decreti!» Così parla, sprona i cavalli festosi e benigno entra nel Tartaro. Si raccolgono le anime, quante le foglie che l’Austro sfrenato stacca dagli alberi o quante piogge aduna nei nembi, o i flutti che infrange, o le sabbie che agita. Correndo tutte le stirpi si raccolgono in massa a guardare la bellla sposa. Poi egli stesso calmo s’avanza, acconsentendo a mitigare nel sorriso il suo volto ora diverso. Entrano i sovrani e sorge l’immenso Flegetonte: l’irsuta barba è intrisa di acque infocate, sul volto fluisce la fiamma. Compaiono lesti da un gruppo scelto i servitori: gli uni ritirano l’alto cocchio e, sciolte le briglie, volgono i valorosi cavalli al pascolo noto; altri alzano il baldacchino, altri ricoprono la soglia di fronde e sollevano sopra il letto adorni drappi. Le donne pie dell’Eliso virtuosamente circondano la regina e in delicati modi ne confortano l’ansia, le raccolgono le chiome disciolte e sul volto stendono il rosso velo che nasconderà il verginale sgomento. Si rallegra l’esangue paese, il popolo morto fa festa, le larve si danno ai pranzi augurali. Le anime incoronate di fiori siedono a gioioso convito, canti mai prima uditi rompono il tenebroso silenzio, cessano i gemiti. L’Erebo mitiga spontaneamente la sua desolazione e concede che l’eterna notte si diradi, né l’urna di Minosse volge le incerte sorti. Non risuonano percosse, l’empio Tartaro, non più fremente di strazi, respira nella tregua delle pene. La vorticosa ruota non tortura Issione appeso, ostile l’acqua non sfugge alle labbra di Tantalo. Issione è slegato, Tantalo raggiunge l’onda, Tizio finalmente solleva le vaste membra e scopre nove iugeri di campo inaridito (tanto grande egli era); il lento aratore dell’oscuro fianco, l’avvoltoio, deluso si ritrae dal petto sfinito e si duole che non ricrescano le dilaniate fibre. Dimentiche dei delitti e della temibile collera, le Eumenidi preparano le coppe e con i feroci capelli bevono il vino: deposta l’ira, con miti canti accostano ai bicchieri ricolmi gli aggrovigliati colubri, e accendono le torce festose di luce nuova. Quel giorno senza danno varcaste, o uccelli, il corso placato del mortifero Averno, e l’Amsanto trattenne i vapori: il baratro tacque con le acque immobili. Dicono che allora la fonte acherontea, mutando il flusso, abbia versato ignoto latte e che il Cocito verde di edera abbia traboccato di dolce vino. Lachesi non spezza il filo, né luttuosi gemiti rispondono ai sacri canti. Morte non si aggira più per il mondo, i gemtori non si percuotono ai roghi, non muore tra i flutti il navigante, non è trafitto il soldato. Prosperano le città non toccate dal Fato di Morte: il vecchio passatore incoronò di canne la fronte scarmigliata e spinse cantando i remi ora leggeri. Al mondo infero era ormai apparso il suo Espero e la vergine è scortata al talamo. Le è accanto pronuba Notte dallo stellato manto, che, toccando il letto, con l’unione perpetua consacra gli auspici di figli. Esultano con grida i pii e nella reggia di Dite con insonne tripudio così iniziano il canto: «Potente Giunone dei morti e tu, fratello e genero del Tonante, apprendete l’unione del sonno concorde e nel reciproco abbraccio intrecciate le speranze di entrambi! Già nasce una prole beata e lieta la Natura attende i prossimi Dèi! Nuove divinità aggiungete al mondo e generate a Cerere gli attesi nipoti!»
 


Libro III
 


Giove intanto ordina alla Taumantide, cinta di nembi, di convocare gli Dèi da ogni parte del mondo. Ella, librandosi sugli Zefiri in un volo d’arcobaleno, raduna i Signori del Mare, sprona le Ninfe che indugiano e dagli umidi spechi trae i Fiumi. Inquieti accorrono, chiedendosi quale ragione turbi la loro pace, a che si debba attendere con tale fermento. Come si aprì la stellata reggia, furono invitati a sedersi e non si confusero i titoli: per condizione ai Celesti è data la prima fila, i Signori del Mare ebbero la seconda schiera, il placido Nereo e la veneranda canizie di Forco; l’ultima serie tocca al biforme Glauco e a Proteo che ora conserva un solo aspetto. Ma anche agli antichi Fiumi fu concesso l’onore di sedersi. Gli altri, i giovani, i mille corsi d’acqua, stanno in piedi come plebe, le umide Naiadi si stringono ai padri marini: silenziosi i Fauni ammirano le stelle. Solenne il genitore così parlò dal sublime Olimpo: «Di nuovo occupano il mio pensiero le umane vicende, che da tempo trascuro, da quando vidi l’ozio e l’indolenza dell’ignava generazione di Saturno! Quei popoli, a lungo assopiti nel torpore paterno, ho voluto incitarli con lo sprone di una vita di ansie, in cui il grano non prosperasse più nei campi incolti, il bosco non versasse più miele; in cui non fermentasse il vino dalle fonti e non spumassero i torrenti a ricolmare coppe (non per invidia, certo - non è lecito agli Dèi sentir livore o fare il male -, ma perché il lusso distoglie dalla vita proba e la ricchezza intorbida le umane menti)! L’indigenza industriosa sfidi gli spiriti pigri e poco a poco ricerchi i nascosti sentieri della natura; l’operosità produca la cultura, gli usi la alimentino! Ma ora Natura mi incalza con alte lagnanze che io soccorra la stirpe umana; mi dice tiranno duro, spietato, rammenta i secoli retti da mio padre e chiama Giove avaro della naturale abbondanza, perché voglio che la terra si faccia selvatica e i campi si coprano di rovi e non adorno di frutti le stagioni! Dice che essa, madre un tempo ai mortali, ormai è passata ai modi di funesta matrigna: “A che è loro giovato avere dal cielo l’anima, alzare in alto il capo, se a guisa di bestie vagano per le solitudini, se masticano ghiande, comune pasto? Per chi è vantaggio una vita nascosta nelle tane silvestri, unita alle fiere?” E se ho sostenuto spesso i lamenti della genitrice, ormai ho deciso, più benigno al mondo, di liberare gli uomini dal cibo caonio; anzi, ho stabilito che Cerere, che ora, ignara dei suoi mali, sferza i leoni idei accanto alla truce madre, percorra mari e terre con insaziato pianto, finché esultante di aver trovato la figlia a ricompensa offra le messi e tra le nubi corra il suo cocchio per spargere le spighe ignote alle genti, e gli azzurri draghi si addossino il giogo attico! Ma se tra gli Dèi qualcuno osa svelare a Cerere il rapitore, giuro per l’immensità del regno e per la pace degli spazi, sia anche figlio o sorella o la sposa o una della schiera delle figlie, si vanti pure ella di esser sorta dal mio capo: sentirà da lungi la mia ira dall’Egida, proverà la percossa del fulmine, si dorrà d’esser nato con sorte divina e chiederà di morire; piagato dal colpo sarà consegnato a mio genero a subire la potenza tradita e saprà se il Tartaro vendica i suoi diritti! Questo è il decreto! Costanti scorrano nella regola i Fati!» Disse, e con gesto terribile fece tremare le stelle. Lontano, tra le rupi dell’antro sonoro di armi, visioni non dubbie della sventura ormai compiuta atterrivano Cerere prima serena, e le notti raddoppiano il timore: sempre nei sogni Proserpina è perduta. Ora la madre inorridisce che spade ostili le trapassino il ventre, ora che le sue vesti si oscurino in lutto, ora che nel mezzo della casa frondeggi l’infecondo frassino. S’ergeva inoltre un alloro a lei più caro del bosco intero, che un tempo con timide fronde ombreggiava il talamo virginale: lo vide troncato alle radici e vide bruttati di polvere gli scompigliati rami. Chiede la ragione dell’infamia: tra pianti narrano le Driadi che l’hanno abbattuto le Furie con un’ascia d’inferno. Infine l’immagine stessa di lei, messaggera di sé, non più per simboli entrò nel sogno della madre. Le sembrò che Proserpina fosse chiusa nel tenebroso recesso di un carcere, avvinta da crudeli catene, non più quale l’aveva affidata ai campi siculi, non quale or ora tra le rose delle valli etnee l’avevano ammirata le Dee. Era sordida la chioma più bella dell’oro, la notte aveva estinto il fuoco degli occhi, vinto dal freddo il colore smuore, il fiammante splendore del volto insigne; le membra che gareggiavano con la neve, si offuscano per la caligine del perso regno. Quando finalmente la madre la riconobbe dall’incerta visione: «Di quale delitto è tale la pena? - disse - Donde questa deforme magrezza? Chi ha tanto arbitrio di ferocia contro me? Perché le delicate braccia meritarono catene di ferro, inadatte perfino alle fiere? Sei tu mia figlia, sei tu? O un’ombra vana mi inganna?» Ella risponde: «Ahimè, genitrice crudele, dimentica della perduta figlia! Ahi, nell’animo superi le fulve leonesse! Tale oblio di me ti invade? Tanto sono negletta io, tua unica nata? Certo era dolce a te il mio nome, Proserpina, che ora nella vasta voragine, lo vedi, chiusa tra tormenti mi strazio! Crudele, tu alle danze ti abbandoni? Tu gridi nelle città della Frigia? Ma se dall’animo non tutto hai scacciato l’affetto, se sono tua, o Cerere, e non mi generò una tigre del Caspio, ti imploro, difendi me infelice dalle tenebre, riportami alla luce! E se il Fato mi chiude il ritorno, vieni almeno a vedermi!» Così parla e vuole tendere le tremanti mani. L’iniqua violenza del ferro la impedisce; le risonanti catene interruppero il sonno. La madre raggelò alla visione; ma si rallegra che sia un inganno e si duole di non abbracciare la figlia. Dalle stanze ansiosa corre e con tali parole si rivolge a Cibebe: «Non oltre ormai indugerò nella terra frigia, santa genitrice! Mi richiama alla fine la cura di chi amo, la sua giovinezza in balìa delle insidie! Neppure i miei atri, sebbene costruiti nel forni dei Ciclopi, mi sembrano sicuri! Temo che la fama divulghi i quel rifugio, che la Sicilia distrattamente celi il mio pegno! Mi atterrisce la troppo nota eccellenza dei luoghi! Dovrò cercare in altre contrade una sede più oscura: per i boati di Encelado, per le vicine fiamme il mio riparo non può restare ignoto! Anzi, sinistri sogni con varie visioni spesso mi ammoniscono, non c’è giorno che un triste presagio non mi minacci! Troppo spesso il biondo mio serto cade da solo! Troppo spesso verso sangue dal seno! Involontario erompe largo pianto dal volto, senza intenzione la mano colpisce l’attonito petto!Se voglio soffiare nel flauto, esce un cupo lamento; se scuoto i cembali, i cembali suonano a lutto! Temo, ahimè, che i segni additino qualche verità! Mi nuoce la lunga sosta!» «Lungi i venti disperdano le tue parole! - interrompe Cibele - Non è così grande la negligenza di Giove che per sua figlia non getti un fulmine! Va’ tuttavia e ritorna serena!» Così Cerere abbandona il tempio. Ma non c’è moto che sazi la sua fretta. Si lagna che lenti procedano i draghi e sferzando le incolpevoli ali cerca la Sicilia, quando non ha ancora lasciato l’Ida. Tutto teme, nulla spera. Così si agita un uccello che ha affidato a un basso frassino i teneri nati, per cercare cibo e molto riflette volando: che il vento non spinga dall’albero il gracile nido, che i piccoli non siano preda dell’uomo o del serpente. Come apparve la casa abbandonata dai custodi e indifesa, gli stipiti abbattuti fuori dei cardini, misero aspetto di reggia silenziosa, Cerere, senza attendere la certezza della sciagura, lacerò la veste e strappò con i capelli le infrante spighe. Non versa lacrime, né dal labbro esce parola o alito; un tremito percorre le ossa fino all’intimo. Incerti vacillano i passi; spalancate le porte, mentre percorre le vuote stanze egli atri desolati, riconosce il ricamo disfatto tra fili confusi e l’incompiuta arte del telaio. Va in rovina quella fatica di Dea, l’audace ragno chiude con sacrilega trama gli spazi lasciati. Non piange, non grida il suo male; solo da’ baci alla tela e sfoga nei ricami i muti gemiti. I rocchetti consunti dalla mano, la lana caduta, tutti gli svaghi sparsi nella virginea gaiezza, li stringe come fossero la figlia; fissa il casto letto, e gli abbandonati cuscini, dovunque la figlia sedeva. è come un pastore che guarda sgomento la stalla vuota, dopo che l’inattesa ferocia dei leoni africani o una masnada di predoni ha assalito il gregge; tardi egli torna e percorrendo i pascoli devastati chiama, implora i suoi giovenchi che non risponderanno. Lì allora la Dea scorge, distesa a terra in un canto della casa, Elettra, solerte nutrice della figlia, illustre tra le Ninfe anziane dell’Oceano, pari a Cerere nell’amore. Costei, dopo il tempo della culla, soleva stringere al seno la bimba e recarla al sommo Giove, adagiandola festosa sulle paterne ginocchia. Ella era amica, era balia, era un’altra madre. Ora scarmigliata le lacere chiome, sudicia di bianca polvere, piange il rapimento della divina pupilla. Le si accosta Cerere, e quando alla fine il dolore abbatte l’ostacolo ai singhiozzi: «Quale rovina - disse - io vedo? Di chi sono io preda? è re ancora lo sposo o i Titani occupano il cielo? Quale mano osò il misfatto, se è vivo il Tonante? Il collo di Tifone ha schiantato Enaria? Alcioneo ha infranto il giogo del Vesuvio e corre a gran passi per il Tirreno? O qui accanto l’Etna dalle rotte mascelle ha vomitato Encelado? O forse l’orda briarea con le cento braccia ha aggredito la mia dimora? Ahimè, creatura mia, dove sei ora? Dove fuggiste voi, mille ancelle e Ciane? Quale forza ha disperso le alate Sirene? Questa è la vostra lealtà? Così si devono serbare i tesori altrui?» Tremò la nutrice, il dolore cedette alla soggezione: a costo della morte vorrebbe non vedere il volto della madre disperata. Immobile, indugia a narrare la certa rovina e l’incerto colpevole. Quindi alla fine: «Oh, se la schiera furente dei Giganti ci avesse recato il danno! Meno colpisce il male comune! Ma Dee e (non vorrai crederlo) sorelle, congiurarono (è troppo!) alla nostra rovina! Tu vedi gli inganni dei Celesti, le ferite della gelosia di parenti! Il cielo è a noi più ostile che i Titani! Prosperava in pace la casa! Non osava la vergine lasciare la soglia, né visitare le verdi valli trattenuta dai tuoi comandi! A lei il lavoro era il telaio, il riposo le Sirene! Con me gioiosamente parlava, con me dormiva e con prudenza giocava negli atrii! D’un tratto Citerea (ignoro chi le abbia indicato il nostro rifugio) qui giunse e per non apparire sospetta, scelse compagne al suo fianco Febe e Pallade! Subito si finge gioiosa spandendo ilarità, l’abbraccia più volte, ripete il nome di sorella e accusa la durezza della madre che ha condannato alla solitudine una tale bellezza, le ha impedito l’amicizia delle Dee e l’ha esiliata dalle stelle paterne! La piccola ingenua gode del suo danno e prepara con molto nettare un convito! Ora indossa le armi e la veste di Diana e con le tenere dita tocca l’arco; ora, tra l’ammirazione di Minerva, adattandosi l’elmo si incorona del cimiero e tenta di alzare lo scudo! Per prima Venere ricorda con maligna ispirazione la bellezza dei campi etnei! Furba insiste sui fiori vicini e, come se l’ignorasse, chiede del carattere dei luoghi, ne vuole credere che l’inverno mite risparmi le rose, che i mesi gelidi rosseggino di gemme non loro e che i virgulti primaverili non temano il crucciato Boote! Mentre tutto ammira, mentre arde dal desiderio di uscire, la persuade! Oh, età inconsistente nel debole carattere! Quanto mi disperai, invano! Quali suppliche inascoltata versai! Fugge via Proserpina, sicura della protezione delle sorelle! Le Ninfe serventi seguono in schiera sui colli ammantati di erba perenne colgono, fiori alla prima luce, quando chiari di rugiada brillano i prati e le distese di viole bevono la linfa! Ma dopo che Sole più alto si fu appressato al culmine, ecco, una turpe notte rapisce l’azzurro, l’isola atterrita vacilla per colpi di zoccoli e strepito di ruote! Non si poté vedere l’auriga, se era un emissario di Morte o Morte in persona! Un pallore si diffonde sui campi, i ruscelli inaridiscono, una peste corrompe i prati! Al tocco di quel soffio nulla vive! Ho visto i ligustri illividire, disseccarsi le rose, languire i gigli! Poi, come girò la briglia al ritorno con ruggente corsa, al cocchio tiene dietro la sua notte, torna la luce al mondo! In nessun luogo è Proserpina! Esauditi i voti, le Dee partirono, non si attardarono! In mezzo al campo trovammo Ciane svenuta: sul capo inghirlandato, lì a terra, marcivano bruciati i fiori della corona! Corriamo a lei, chiediamo che è accaduto alla sovrana (ella era vicina alla sciagura): quale l’aspetto dei cavalli? Chi alla guida? Lei nulla! Consunta da nascosto veleno si dissolve in liquido: l’umore scorre dai capelli! Si strugge, i piedi e le braccia effondono rugiada, e subito una limpida sorgente sfiora i nostri passi! Le altre mi abbandonano! Le Sirene, levandosi su rapide ali, occupano la costa del siculo Peloro, e irate per la sciagura, mutarono in morbo i loro suoni, ora armoniosi con danno: la dolce voce trattiene le navi, udito il canto s’arrestano i remi! Sola nella casa io resto a trarre in pianto la vecchiezza!» Stordita, Cerere dubita ancora e pazza tutto teme come se tutto non fosse già accaduto; poi torcendo gli occhi guarda verso i Celesti con cuore furente. Così trema l’alto Nifate per la tigre ircana, i cui piccoli un cavaliere tremando abbia sottratto per darli trastullo al re Achemenide: freme la madre più agile del vento suo sposo e l’ira spande nelle lucide chiazze, pronta a ingoiare l’atterrito uomo; ma indugia nell’immagine della figura riflessa. Non altrimenti la Dea delira per tutto l’Olimpo, «Rendetela! - gridando - Io non nacqui da un vagante fiume, non sono della folla delle Driadi! Anche me generò a Saturno la turrita Cibèbe! Dove sono caduti i diritti divini, dove le leggi del cielo? A che giova l’onestà della vita? Ecco Citerea, di ben nota modestia, osa mostrare il suo viso dopo le catene di Lemno! Quel puro sonno, quelle caste coltri tanto ardire le dettero! Questo è il premio dei virtuosi abbracci? Non è strano che nulla da allora sia per lei turpe! E voi, inesperte d’amore? Tanto è da voi negletto l’onore della castità? Tanto è mutato il vostro consiglio? Ormai vi unite a Venere con seduttori per amici? Oh, entrambe degne di onori nei templi della Scizia e sulle are assetate di sangue! Che ragione di tanto odio? Chi Proserpina può aver offeso anche con una debole parola? Certo, avrà scacciato te, Delia, dagli amati boschi, o te ha privato, Tritonia, di ingaggiate battaglie! Era arrogante parlando? O entrò per caso importuna nelle vostre danze? Eppure essa abitava le sicule solitudini perché non vi fosse di peso! A che giovò appartarsi? Il veleno dell’odio acerbo non l’ha placato nessun silenzio!» Con tali parole rampogna le Dee. Ma queste (le obbliga la volontà del padre) o tacciono o negano di sapere e in risposta alla madre versano pianto. Che può fare? Vinta, ella si modera e si volge umilmente alle suppliche: «Perdonatemi, se si è esasperato il mio amore, se più ho smaniato di quel che convenga a un’infelice! Ai vostri piedi mi getto implorante, dolente! Mi sia dato sapere la sua sorte, questo solo accordatemi, di conoscere il mio dolore! Vi chiedo quale è il mio male! Quale sorte abbiate deciso, mi sia nota: la reggerò, sarà un Fato per me, non un delitto! Ma alla madre date, vi prego, di vederla: non la richiederò! Tranquillo trattieni ciò che hai afferrato, chiunque tu sia! La dichiaro tua preda, non temere! Se il rapitore contro me si vale di un accordo con voi, almeno tu, Latona, racconta: Diana con te si sarà confidata! Tu sai cos’è il parto, che sono le ansie per i figli, quanto grande è l’amore! Tu due ne hai generati, questa è la sola mia! Possa tu sempre godere dei riccioli di Apollo, possa tu vivere madre più felice di me! Di molte lacrime si bagna il tuo volto! Che è mai tanto degno di pianto e di silenzio? Ahimè, si allontanano tutti! A che inutilmente indugi ancora? Non vedi che col cielo è guerra aperta? Perché invece non cerchi la figlia in terra e sul mare? Percorrerò le terre della luce, senza riposo girerò per le contrade del mondo! Non sosterò un istante, non avrò pace né sonno finche io non trovi la figlia rapita, quand’anche affondi nel grembo del mare ispano o giaccia protetta negli abissi del mar Rosso, non mi arresteranno i ghiacci del Reno, né i geli rifei, non mi terrà la Sirte con l’incerta marea! Sono risoluta a passare il confine di Noto, a visitare le nevi di Borea! Calpesterò l’Atlante nel remoto occidente, delle mie torce risplenderà l’Idaspe! L’empio Giove mi veda errante per le città, per i campi, Giunone si sazi della morte della rivale! Schernitemi, regnate orgogliosi nel cielo, celebrate un nobile trionfo sulla figlia di Cerere!» Così parla, poi scende sulla cima del suo Etna a preparare le fiaccole per la notturna fatica dell’errare. C’è un bosco presso il fiume Aci che la candida Galatea spesso preferisce al mare e lo solca in eleganti bracciate. Il bosco è fitto e con l’intreccio dei rami per ogni dove ombreggia le cime etnee. Qui si narra che il Padre depose l’insanguinata Egida e la catturata preda dopo la battaglia. La selva insuperbisce delle spoglie flegree e la vittoria ricopre la foresta. Qui pendono le larghe mascelle e le mostruose cuoia dei Giganti e ancora orrendamente ghignano i volti appesi ai tronchi; le immani ossa dei draghi qua e là biancheggiano in spettrali cataste: le rigide pelli esalano ancora il vapore dei fulmini. Nessun albero si fregia di un nome ignoto. Questo con i rami piegati innalza a stento le spade sguainate del centuplo Egeone, quello delle livide spoglie di Ceo si gloria; questo sostiene le armi di Mimante, quei rami li piega il denudato Ofione. Ma un abete più alto, ampio ed ombroso, reca proprio le armi fumanti di Encelado, l’alto sovrano dei Terrigeni, e cadrebbe aggravato dal peso, se una vicina quercia non sostenesse la fatica. Qui è terrore e divino potere. Si rispetta la vecchiezza del bosco, ed è empio danneggiare i celesti trofei. Nessun Ciclope ardisce pascolarvi il gregge né tagliare i tronchi, Polifemo stesso evita la sacra ombra. Ma non per questo si fermò Cerere. Anzi, si adira per la santità del luogo e ostile vibra la scure, pronta a colpire perfino Giove. Esita, se abbattere i pini o meglio atterrare i levigati cedri, esamina i tronchi adatti e la linea di un ceppo dritto e prova i rami con vigorose scosse. Così colui che per recare merci in mari lontani a terra erige una nave e si appresta a esporre la vita alle bufere, misura i faggi egli ontani e adatta al legno grezzo le sue varie necessità. La pianta snella offrirà l’albero alle vele rigonfie, la robusta è più adatta al timone, la flessibile seconderà il remeggio, quella che regge l’acqua è per la chiglia. Due cipressi in un prato vicino innalzavano cime inviolate, quali neppure il Simoenta ammira sulle rupi dell’Ida, quali sulle ricche sponde non lambisce l’Oronte nutritore del bosco di Apollo. Li crederesti fratelli. Si ergono con cime pari e dalla comune altezza disdegnano il bosco. Le piacquero questi per torce. Pronta li assale, cinta in alto la veste, nuda le braccia, armata d’ascia. Percuote ora l’uno, ora l’altro, e già vacillanti con tutto l’impeto li abbatte. Insieme rovinano, poggiano insieme la chioma e giacciono sul campo, dolore di Fauni e Driadi. Li abbraccia entrambi così come erano, li alza e, sciogliendo alle spalle i capelli, ascende al sommo del monte anelante. Supera le vampe, calca le rocce a tutti vietate e le sabbie che rifiutano l’orma: quale è Megera truce che corre ad accendere per i delitti, il tasso mortifero, quando si volge alle mura di Cadmo, si affretta a incrudelire nella tiestea Micene; le tenebre e gli spettri fanno largo, il Tartaro sussulta sotto il ferreo piede, finche la Furia si arresta all’acqua del Flegetonte e con la torcia attinge flutti. Così la Dea presso la bocca dell’avvampata rupe tosto immerge nelle fauci i cipressi perché s’accendano a capo rovesciato: per largo tratto chiuse lo sbocco e ostruì la voragine traboccante di fiamme. Tuona il monte per il fuoco compresso, e rinchiuso si travaglia il Forgiatore; impediti i vapori ristagnano. Sfolgorarono le conifere cime, l’Etna si accrebbe di insolite faville: stridono i rami aspersi di zolfo. Poi, perché nel lungo errare non morissero, ai fuochi comandò che restassero sempre vivi e vigili e spalmò i tronchi col magico succo di cui Fetonte spruzza i cavalli, Luna i giovenchi. Già il notturno silenzio dispiegava alle terre il suo letargico ufficio, e la madre col petto straziato inizia il lungo cammino e movendosi esclama: «Non tali fiaccole, Proserpina, mi attendevo di alzare per te! I voti comuni alle madri, le nozze, i fuochi di festa io sognavo e l’imeneo da cantare al cielo! Così il Fato travolge gli Dèi? Così ciecamente colpisce Lachesi? Quanto ero altera! Da quale zelo di pretendenti, ero attorniata pur ieri! Quale prolifica madre non si inchinava a me per l’unica mia figlia; mia gioia, tu, prima ed estrema! Per te ero detta fertile! Tu, orgoglio, pace, tu grata fierezza della madre; nel tuo splendore mi sentii Dea, per la tua vita non fui inferiore a Giunone! Ora sono reietta, sordida! Così piacque al Padre! Ma perché incolpo lui di questo pianto? Io spietata ti ho perduto, lo ammetto, ti ho abbandonato, ed esposto sola alle minacce nemiche. Tranquilla, certo, mi godevo le stridule feste e lieta nel fragore delle armi, quando fosti rapita, aggiogavo i leoni frigi! Guarda il supplizio che merito! Ecco, il mio volto s’apre di piaghe, larghe ferite rosseggiano sul petto, da molti colpi è percosso questo mio ventre immemore! In quale parte del cielo ti cercherò, sotto qual segno? Chi mi sarà guida, quali tracce mi porteranno? Qual era il carro? Chi lui, lo spietato? Della terra abitatore o del mare? Quali segni troverò di agili ruote? Andrò, andrò dovunque il passo, dovunque vorrà il caso! Così Dione derelitta possa cercare Venere! Avrà uno scopo l’affanno? Ancora mi sarà dato, figlia, di abbracciarti? C’è ancora la tua bellezza, c’è il fulgore del volto? O, sventurata, forse dovrò vederti quale a me giungi di notte, quale ti vidi in sogno?» Così dice. Dall’Etna subito trascina il passo e, esecrando i fiori rei dell’eccidio e il luogo stesso del fatto, insegue i dispersi indizi del viaggio e in piena luce scruta i campi inchinando le fiaccole. Ogni impronta è molle di pianto, geme su ogni solco, ovunque vada per la pianura. La sua ombra sfiora le acque e l’ultimo riflesso del fuoco tocca l’Italia e l’Africa: splende la riva etrusca, le Sirti brillano dall’infuocato mare. Giunge lontano agli antri di Scilla: ritraendosi i cani alcuni sgomenti tacciono, ringhiano altri ancora intrepidi.