The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Afrodite la Alchemica

 

Afrodite l'Alchemica

Ho scelto di definire Alchemica questa divinità, prendendo in prestito l'epiteto datole da Jean S. Bolen nel suo libro Le Dee Dentro la Donna, proprio perché trovo che il suo punto di vista sia condivisibile nei riguardi dell'ampio spettro che questa dea riesce a ricoprire. Cercherò di tracciare, come altre volte, una mappa il più dettagliata possibile del mito e del sincretismo inerente a questa dea, partendo dal presupposto che la ritengo "alchemica" proprio perché contiene dentro di sé ampi aspetti che ritroviamo in tutte le altre dee della mitologia greca, come se in qualche modo fosse sia l'emanazione che il principio delle diverse suddivisioni.
Afrodite ha un nome che, nella parte della sua etimologia, riconduce ai suoi natali più antichi. Infatti deriva dal termine greco afròs, lemma che serviva a designare la "spuma"; pertanto il suo nome significa "nata dalla schiuma". Alcuni sostengono, per logica, che l'intento sia quello di riferirsi al mito che la vede nata dallo sperma di Urano sparso dai suoi genitali quando furono tagliati dal figlio Crono e gettati nell'oceano, come ci narra lo stesso Esiodo nella sua Teogonia quando dice che vennero trascinati dal mare per un lungo periodo, e spuma bianca sorse dalla carne immortale; dentro ad essa crebbe una ragazza. Ciò nonostante la figura greca di questa dea è tuttora oggetto di forti controversie tra gli studiosi più preparati, pertanto non mi azzardo nemmeno a cercare di trovare una soluzione, preferendo prendere come riferimento ciò che ci dicono di diversi miti a riguardo. Omero, ad esempio, la vuole figlia di Zeus e Dione, spogliandola così del potere primigenio che possedeva in principio. La stessa Dione era figlia, secondo Apollodoro, di Gea ed Urano, quindi era una titanessa o, secondo Esiodo, una delle oceanine, figlia di Teti ed Oceano. Igino nelle Fabulae la vede invece come una delle pleiadi, figlia di Atlante e Pleione.
C'è però un aspetto interessante da prendere in considerazione e che si ricollega ad uno dei motivi per cui questa dea è da considerare come "alchemica". Esaminando e confrontando i due miti e conoscendo un minimo di spaccato della genealogia mitografica greca, è abbastanza lecito supporre che la versione del mito che vede Afrodite come figlia di Zeus e Dione sia una visione patriarcale, pertanto seguente e meno genuina; nata quindi con il preciso intento di porre il potere del femminino, della fertilità e della sessualità in netta subordinazione al supremo potere celeste di Zeus. In questo caso, allora, questa dea raccoglierebbe, in un certo senso, l'eredità dell'antica dea-madre della terra, sensuale e fortemente fertile.
La nascita stessa di Afrodite, avvenuta al largo dell'isola ci Citera (e poi lo spostamento sulle coste di Cipro, dove il suo culto era particolarmente diffuso, da qui anche il suo epiteto Cipride), la rende una dea generata per partenogenesi. Ed inoltre il suo nome, come la sua stessa genesi, suggerirebbero un suo contesto più "marino". A suffragare questa ipotesi ci sarebbe il fatto che era nota come Pelagia, che significa appunto "marina", e Anadiomene, dato che "emerge" dalle acque salate come figlia di Urano. E a questo aspetto si richiama anche il suo epiteto: Urania, ossia "celeste". Appena toccò il suolo, sotto i suoi piedi si formò un'erbetta tenera, forse a ricordare la sua natura legata alla terra. Omero ci narra che, dopo che le Ore la vestirono di gioielli e di vesti pregiate, fu portata innanzi agli dei. Kerenyi, nel suo Gli dei della Grecia, fa notare come le sorelle che vestirono Afrodite fossero figlie di Temi, e che se la dea si fosse presentata al suo cospetto completamente nuda avrebbe offeso Temi, essendo lei la dea che faceva sì che gli uomini e le donne si unissero in amore, come ci fa notare Omero stesso nell’Iliade, ma sarebbe stato contrariarla se nel farlo le donne non mostrassero pudicizia. Fu pertanto necessario vestirla con diademi e gioielli prima di condurla innanzi agli dei, dove fu desiderata da chiunque in sposa.
Nel suo De Verborum Significatu il grammatico Sesto Pompeo Festo pone l'accento su un mito diverso della nascita di Afrodite, che portò, in seguito, all'opera di Botticelli. In questo caso la dea sarebbe nata, sempre nei pressi dell'isola di Citera, da una conchiglia, per precisione una cappasanta, a cui gli antichi attribuivano proprietà afrodisiache. Ma la conchiglia, sacra alla dea, era anche associata al concetto di sessualità per altri motivi: la ciprea ad esempio, un tipo di mollusco della famiglia dei Cypraeidae, ha un guscio dentato che richiama chiaramente una vagina, nonché il colore stesso del mollusco e la perla al suo interno hanno una connessione sessuale.
Da una parte, quindi, troviamo come Afrodite sia una dea legata alle maree: nasce dalla spuma del mare o da una conchiglia e ha epiteti marini, era chiamata come protezione dei naviganti ed era venerata dalle città marine, in particolare l'isola di Cipro, mentre da un'altra è una dea celeste: è figlia di Urano ed è nota come Afrodite Urania - amore celeste. Come vedremo ha forti legami lunari, ma ha anche forti connessioni con la terra e con la morte, luogo inaccessibile e oscuro dove si compie il suo supremo miracolo, e sopra ogni altra cosa è una dea della sessualità, dell'amore, della bellezza e, in certi testi, è chiamata lei stessa Dione. E Dione, da notare, è un nome che trova la sua etimologia nel proto-indoeuropeo , che sta per luminoso e che, infine, è uno dei nomi della suprema dea della terra Gea, da cui, in qualche modo, Afrodite è generata. Ella è quindi, in un certo senso, figlia di più padri e una madre. È figlia di Urano, il cielo dal cui seme sparso si è formata, ma è figlia di Ponto, il flutto, a cui appartengono le maree, ed è anche figlia della madre Terra, che genera ogni cosa. Omero, nell'Iliade, ci fa notare come, dopo aver difeso Enea nella guerra di Troia, attaccata da Diomede, Afrodite cerca rifugio tra le braccia della madre, Dione, che la consola. In questo frangente, la dea della terra, da Omero resa "olimpica", forse per comodo, ad un certo punto mostra il suo volto portando il nome del concetto stesso del divino femminile dione che si erge in complementarità del dios, il divino maschile che porta infine a Zeus stesso.
Afrodite era la dea dell'amore, del desiderio e della bellezza, ma nel suo essere estremamente sensuale rivestiva anche un concetto di forte vanità e sessualità. A dimostrazione di questo aveva due epiteti particolari che riverberavano l'ampio spettro del suo essere signora dell'amore: oltre ad essere nota come Afrodite Urania, quindi dell'amore celeste, era nota anche come Aftodite Pandemia, ossia legata all'amore del popolo. Questo fatto dona alla dea una duplicità interessante, che viene citata nel Simposio di Platone, riferendosi a come Urania sia la figlia di Urano e quindi nata per partenogenesi, mentre la Pandemia fosse la figlia di Zeus. Questo, come ci fa notare Robert Graves nel suo I Miti Greci, concluderebbe un cerchio, ricordandoci di come Afrodite volasse sostenuta da colombe e passeri, che la vestirono non appena emerse dalle acque: "La dea è chiamata figlia di Dione, perché Dione era signora della quercia, dove l'amorosa colomba faceva il nido. Zeus si vantò d'essere il padre di Afrodite dopo essersi impadronito dell'oracolo di Dione a Dodona. «Teti» e «Tetide» sono i nomi della dea sia come Creatrice (e derivano, come Temi e Teseo, dal verbo tithenai «disporre», «ordinare») sia come dea del mare, dato che la vita cominciò nel mare. Colombe e passeri sono noti per la loro lussuria, e in tutto il Mediterraneo il cibo di mare è tuttora considerato un afrodisiaco".
In quanto dea del desiderio e della bellezza, Afrodite va in sposa ad Efesto, per la quale paga una dote considerevole. Ma come mai una dea così bella, lodevole e piena di grazia, che molti avrebbero desiderato come sposa, finì tra le braccia di un dio storpio, zoppo e di cattivo carattere? A questo, in parte, si può leggere una redenzione per un dio estromesso e rifiutato, se si vuole conseguire questo evento alla vicenda che vide Era imprigionata su una sedia avuta in dono dal figlio fabbro e liberata solo dopo che questa giurò sullo Stige che egli non aveva padre. Un giuramento, questo, per il quale nessuno, umano o divino, poteva spergiurare se non pagando un pegno di nove anni di dolori indicibili ed estromissioni dal banchetto divino. Dall'altra, invece, si può arguire anche un effetto collaterale a qualcosa di differente. Questo contrasto è in realtà solo apparente. Efesto, infatti, era in origine il paredro della Grande Dea, da cui, come abbiamo visto, Afrodite ereditò molti tratti, tra cui anche il nome Dione. Inoltre, come ci fa notare anche Carlo Ginzburg nel suo Storia Notturna - Una Decifrazione del Sabba, il concetto stesso del dio claudicante riporta ad un forte aspetto iniziatico legato al mondo infero, come Ermes, che viene rappresentato con un piede calzato e uno nudo. La deambulazione squilibrata porta ad uno stacco nella percezione del proprio corpo e per questo rifiutata perché asimmetrica, pertanto ritenuta inumana e relegata ad un concetto di duplice natura, ossia chi appartiene a due mondi: nel caso di Efesto, quello infero e quello superiore, superos et acheronta. Ma, in quanto dea duplice, anche Afrodite conservava dentro di sé un aspetto infero. Come ci fa notare Kerenyi nel suo Gli dei della Grecia: “Un altro aspetto era espresso in epiteti come Melena o Melenide, “la nera” e Skotia, “l’oscura”. L’Afrodite nera può stare altrettanto bene a lato delle Erinni, tra le quali essa viene pure contata. Epiteti come Androphonos, “l’assassina”, Anosia, “l’empia”, Tymborychos, “la seppellitrice”, accennano alle sue possibilità oscure e pericolose. Come Epitymbia essa appare addirittura come “colei che sta sulle tombe”. Quale Persephaessa, viene invocata come regina degli inferi. Le spetta anche il titolo di Basilis, “la regina”. L’epiteto Pasiphaessa “che splende dovunque”, la collega con la dea della Luna. Da tutto ciò si deduce che una volta vi erano dei racconti che identificavano la dea dell’amore con la dea della morte, comparabile alla Venus Libitina dei Romani”. Ci è quindi lecito supporre che la dea Afrodite andò in sposa ad Efesto perché egli rappresentava il suo corrispettivo. Dopotutto anche lei apparteneva a più mondi, esattamente come Kore, con cui ha un legame molto forte, dato che come quest'ultima conserva dentro di sé forti legami ed aspetti erotici. La dea dell'amore conserva aspetti partenici, in quanto, nonostante appaia circondata di amanti, non è mai orgiastica o dissoluta e, come altre divinità, si bagnava nel mare a Pafo per recuperare la verginità, come ci narra Omero nell'Odissea.
Nonostante Efesto ed Afrodite fossero sposati, nel mito si narra di come la dea, al marito, preferisse il sanguigno Ares, con il quale spesso si intratteneva mentre il dio fabbro si trovava a Lemno a lavorare nella sua fucina. Un giorno Elio, il dio del sole che tutto vede, sorgendo sorprese i due che si attardavano nel letto in Tracia, nell'abitazione del litigioso dio della guerra, e decise di avvisare Efesto dell'inganno che gli veniva perpetrato alle spalle. Furioso, il dio zoppo costruì una rete di bronzo dalla maglia finissima ed invisibile, resistentissima, e la attaccò al proprio talamo. Quando Afrodite tornò dalla Tracia senza mostrare alcun risentimento, il dio le disse che doveva tornare a Lemno per sbrigare alcune faccende e lei, non appena il marito si fu allontanato, portò Ares nel letto nuziale. Incuranti della trappola che li attendeva, i due amanti si svegliarono al mattino prigionieri delle maglie della rete di Efesto, il quale chiamò tutti gli dei a testimonianza del disonore del quale la sua sposa si era appena macchiata. Le dee, per pudicizia, non si fecero vedere, mentre Poseidone, Apollo, Ermes e Zeus accorsero a vedere le nudità esposte della dea. Il marito tradito, a quel punto, rivolgendosi al Padre degli dei, asserì che non avrebbe liberato la sua figlia adottiva finché non si fosse visto risarcita l'enorme dote che aveva pagato per averla in sposa. Mentre Zeus, infastidito di dover assistere ad una questione famigliare, redarguiva Efesto e gli negava il ritorno della dote, Apollo canzonò Ermes chiedendogli se avrebbe preferito trovarsi sotto le coperte in compagnia di Afrodite nonostante la rete di bronzo, e questi rispose che era suo ardente desiderio. Nel contempo c'era un dio che non rideva della scena, e questi era Poseidone, il quale, invaghito dalle nudità della stupenda dea, suggerì che fosse Ares a pagare la dote e che nel qual caso non l'avesse fatto avrebbe provveduto lui stesso al pegno, confidando che il dio della guerra non si sarebbe assunto le proprie responsabilità per l’accaduto. Efesto acconsentì, asserendo cupamente che se non avesse mantenuto la parola avrebbe preso il suo posto, e Poseidone, che desiderava Afrodite, accettò. Ares fu così liberato, ma naturalmente si recò immediatamente in Tracia senza pagare nulla, mentre la dea dell’amore tornò a Pafo per recuperare la sua verginità bagnandosi nel mare. Ciò nonostante la dea, lusingata dai complimenti di Ermes, decise di giacere con lui e da questa unione nacque Ermafrodito, una creatura dalla duplice sessualità; in seguito, come ci narra nella Pitica Pindaro, ringraziò a suo modo anche Poseidone, dandogli due figli: Rodo e Erofilo.
Afrodite non era solamente bellissima, sensuale e desiderabile. Era in possesso anche di una magica cinta dorata che portava intorno al petto, che aveva la capacità sovrannaturale di rendere irresistibile chiunque la indossasse. Fu un dono, disgraziato, di Efesto, dal momento che lei la utilizzava per sedurre qualsiasi mortale o divinità su cui decideva di mettere gli occhi. A volte anche Era usufruiva di questa cintura per indurre Zeus a rimanere al suo fianco, nonostante la dea dell’amore la cedesse raramente e ben poco volentieri, considerando l’enorme beneficio che essa le dava. E lo stesso Padre degli dei faticava per resistere alla tentazione continua che Afrodite costituiva per lui, considerato l'enorme potere seduttivo che le derivava dal magico ornamento che indossava. Un giorno, deciso a punirla, la portò ad innamorarsi di Anchise, un mortale, re dei Dardani e cugino di Priamo, re di Troia. Per indurlo a giacere con lei, Afrodite si mutò in una principessa frigia mentre costui pascolava le sue mandrie, ma poi gli rivelò la sua identità pregandolo di non raccontare mai a nessuno del loro incontro, altrimenti sarebbe incorso nell’ira del padre adottivo. In seguito, quando da ubriaco Anchise si vantò di aver giaciuto con la dea della bellezza, Zeus lo punì rendendolo zoppo, maledizione che gli costò l’interesse stesso della dea. Dalla relazione con questo mortale, Afrodite partorì un eroe: Enea, che combatté contro gli achei durante la guerra di Troia e che sopravvisse alla distruzione della città, ottenendo così l'opportunità di avere un poema dedicato completamente alle sue gesta: l'Eneide virgiliana.
Il legame che Afrodite condivide con Persefone, oltre all’aspetto infero che entrambi hanno, riguarda, neanche a dirlo, proprio un uomo: Adone. Questo mito mantiene la figura di questa dea come centrale e narra di Mirra, una bellissima principessa cipriota figlia della regina Candreide e del re Cinira. La madre ebbe la sventurata idea di vantarsi di avere una figlia che potesse superare in bellezza la stessa dea dell'amore, rendendola ovviamente furiosa per quello che era un chiaro affronto nel suoi confronti. Per cercare vendetta, Afrodite insinuò un perverso desiderio nella giovane Mirra, che cominciò a bruciare per suo padre. Confessata questa brama alla madre ella dispose in modo che, durante la festa di Demetra, la figlia incontrasse il marito nell'oscurità del talamo dove egli dormiva completamente ubriaco e che giacesse con lui per nove notti consecutive. Mirra rimase gravida, e quando il re Cinira di Cipro si accorse di ciò che era avvenuto e che egli era sia padre che nonno della creatura che la figlia portava in grembo e che ormai era prossima al parto, inorridito dall'infausto e perverso evento, si avventò su di lei con una spada per ucciderla. Mirra fuggì dal padre implorando gli dei di venirle in soccorso e Afrodite, che nel frattempo si era pentita di ciò che aveva fatto, la tramutò in un albero che da quel momento portò il suo nome: la Commiphora myrrha, da cui si estrae una gommaresina che veniva bruciata appunto nei rituali in onore del dio Adone. Dal tronco dell'albero, su cui il padre infierì a colpi di spada, fuoriuscì un bambino di straordinaria bellezza che venne salvato da Ilizia, la dea del parto, e che Afrodite chiuse immediatamente in un cofano affidandolo a Persefone, affinché lo tenesse negli inferi al sicuro dalla gelosia di Ares, che era suo amante, con la promessa che non lo aprisse. La curiosità ovviamente vinse sulla promessa e la dea oscura aprì il feretro, si innamorò di Adone e ne fece il suo amante. Quando Afrodite lo venne a sapere decise di reclamarlo e così nacque una disputa in cui venne coinvolto Zeus, il quale, intuendo la situazione spinosa in cui si trovava, ancora una volta delegò il tribunale ad una musa: Calliope. Ella decretò che le dee avrebbero dovuto avere eguali diritti e che Adone sarebbe dovuto stare per quattro mesi all'anno negli inferi con Persefone, per quattro mesi all'anno con Afrodite e per il restante terzo sarebbe stato libero di scegliere. Ma la dea dell'amore non si diede per vinta e, usando il potere della sua magica cintura dorata, convinse Adone a passare con lei anche i quattro mesi in cui sarebbe stato libero di decidere da solo. Persefone, inviperita dal suo comportamento scorretto, corse da Ares e gli rivelò di come la sua amante preferisse a lui "un semplice mortale, e per di più effeminato". Il dio della guerra si ingelosì e, trasformandosi in un cinghiale, si avventò sul rivale mentre questi era a caccia sul monte Libano e lo smembrò proprio di fronte allo sguardo attonito della dea dell'amore. Dal sangue di Adone crebbero degli anemoni. Secondo alcuni le rose, a lui sacre, sono ora rosse anziché bianche perché Afrodite, correndo verso il suo amato, si punse i piedi nudi con le spine che da quel momento presero il colore del suo sangue.
La dea dell'amore non era rappresentata con un carattere facile, era anzi capricciosa e lunatica. La cosa che più la faceva infuriare era il fatto che umani o mortali potessero ignorare l'amore o il desiderio. Secondo Ovidio, che vedeva Eros (nel suo corrispettivo latino Cupido) come figlio di Afrodite, fu proprio a causa di una sua richiesta precisa che il dio alato scagliò una freccia che colpì nel petto Ade, infiammandolo di passione per Persefone. E la motivazione era proprio il fatto che lei non trovava giusto che il Signore degli inferi dovesse rimanere immune dalle malie dell'amore. Nell'Inno Omerico ad Afrodite si narra appunto di come fossero solo tre le dee che riuscirono a resistere al potere emanato da questa dea, oltre che alla tentazione portata dalla cintura che indossava, e queste erano Atena, Artemide ed Estia, le tre vergini.
Da Ares, così come da altri, Afrodite ebbe svariati figli, alcuni somiglianti al padre, come Deimos e Phobos, rispettivamente "terrore" e "paura", e altri, invece, simili alla madre, come Eros e Armonia. Proprio questa figlia, tra tutti, fu forse quella che più rispecchiava il potere di entrambi. Andata in sposa a Cadmo di Tebe, il loro matrimonio fu il primo della storia e vi parteciparono tutti gli Olimpi. Come ci fa notare Robert Graves nel suo I Miti Greci: "Armonia, a prima vista, pare un nome ben strano per una figlia nata da Afrodite e Ares; ma a quei tempi, come adesso, all'interno degli Stati impegnati in una guerra regnava molta più armonia che in tempo di pace". Inoltre, queste nozze creano un'analogia molto forte con quelle seguenti avvenute tra Peleo e Teti. Quest'ultima, ritenuta la più bella tra le nereidi, era soggetta ad una profezia della titanide Temi, la quale proferì che il figlio nato da lei sarebbe divenuto più famoso del padre. Prometeo, ancora incatenato per la punizione inflittagli da Zeus, dato che aveva rubato il fuoco dalla fucina di Efesto per donarlo agli uomini, venne a conoscenza di questo evento e, presagendo una possibile caduta dell'Olimpo, come era già avvenuta con Urano e Crono, decise di mettere il Padre degli dei a parte di questo evento, dato che era invaghito di lei assieme con suo fratello Poseidone. Fu così che nessuno dei due decise di sposare la nereide, la quale andò in sposa a Peleo, re tessalico di Ftia. Alle nozze, ancora una volta, furono invitati tutti gli Olimpi, titani compresi. Tutti tranne una dea: Eris, la discordia. Infastidita da questo affronto, la dea prese uno dei pomi d'oro dal giardino delle Esperidi, donati da Gea a Era per il suo matrimonio, e, decisa a mettere zizzania, la lanciò durante la festa con sovra impresse queste parole: "Alla più bella". Immediatamente tre dee cominciarono a discutere e litigare per decidere a quale di loro fosse destinata. Questa vicenda, nonostante sia narrata solo in modo circostanziale da Omero, fu la causa di quella che divenne la guerra più sanguinosa del mito greco: la Guerra di Troia. Altri autori, dopo di lui, ricostruirono i fatti che portarono alle vicende narrate nell'Iliade omerica e in particolare alcuni frammenti del perduto Cypria, facente parte del Ciclo Troiano. Ma anche Ovidio nel suo Heroides, Luciano di Samosata nel Dialoghi degli Dei e Igino nelle sue Fabulae narrarono questi fatti con dovizia di particolari, ingrassando il mito e rendendolo più interessante. Ad ogni modo la faccenda era spinosa, perché Zeus non volle prendersi la briga di dover decidere, pertanto fu necessario trovare un giudice probo che potesse attribuire il giusto merito a una delle tre. La scelta ricadde su Paride, ritenuto l'uomo più bello del mondo, nonché inconsapevole principe troiano, favorito di Ares e cresciuto lontano da corte come mandriano. Egli era figlio di Priamo ed Ecuba, regnanti su Troia, e, appena nato, fu destinato al sacrificio per via dell'interpretazione di un sogno che la regina fece, nel quale vedeva bruciare la città. Secondo il sacerdote di Apollo che venne interrogato a riguardo il figlio venne ritenuto portatore di sventura e pertanto dato in adozione ad Agelao, un pastore. Una volta cresciuto, Paride divenne un uomo bellissimo, ignaro della sua stirpe reale. Lo svago preferito del principe era quello di far lottare i tori del padre adottivo per coronare le corna del vincitore con dei fiori. Accortosi che uno dei suoi armenti vinceva con una certa frequenza, decise di indire una sfida a cui parteciparono anche i pastori vicini. Il vincitore avrebbe ottenuto una corona d'oro. Il suo toro vinse tutti quanti tranne Ares, il quale, tramutatosi egli stesso bovino, lo sconfisse. Al contrario delle aspettative del dio della guerra, però, Paride premiò senza indugi il vincitore, mostrando in questo modo una sportività e un profondo senso di giustizia. Fu questo evento che gli valse il ruolo di giudice nella sfida tra le tre dee, le quali, accompagnate da Ermes con la mela d'oro e il messaggio di Zeus, si posero innanzi a lui nel loro splendore, completamente nude. Ognuna di esse cercò di garantirsi la scelta di Paride promettendo doni immensi. Era promise enormi poteri: ogni popolo si sarebbe inchinato di fronte a lui e sarebbe divenuto il signore dell'intera Asia nonché dotato di enorme ricchezza, ma Paride rispose che non si sarebbe fatto comprare. Atena gli garantì la saggezza e la vittoria in ogni battaglia, ma Paride rispose che non era un guerriero, bensì un pastore, mentre Afrodite, dopo averlo adulato, gli promise l'amore della donna più bella del mondo: Elena di Sparta, moglie di Menelao. Come ben sappiamo Paride donò la mela alla dea dell'amore, facendo in questo modo infuriare le altre due che, insieme, complottarono la distruzione di Troia. In seguito, Paride rapì Elena e la portò alla sua città natale, dopo che fu riconosciuto come principe e reintegrato nel suo ruolo, scatenando così la feroce vendetta del marito tradito e di tutto l'esercito acheo che poteva vantare la presenza, tra le sue fila, di Achille, l'invincibile figlio di Peleo e Teti. La conseguenza di questi eventi fu anche quella di vedere Atena ed Era ergersi dalla parte degli achei, mentre Afrodite e Ares da quella dei troiani.
La vendetta di Afrodite poteva essere fatale, come accadde ad Ippolito, figlio di Teseo e Antiope, nella tragedia omonima narrataci da Euripide. Dal momento che sua madre era una fervente seguace di Artemide, questi innalzò un tempio a lei dedicato a Trezene. La dea dell'amore vide, in questo, un affronto e decise pertanto di punirlo. Come fece con Mirra, indusse in Fedra, la madre adottiva di Ippolito, una passione sfrenata per il figlio del marito Teseo. La donna cercò ad ogni modo di frenare questo impeto di passione, soprattutto senza confidare a nessuno il suo amore incestuoso, ma, ormai soggiogata dal potere di Afrodite, il suo stato venne notato dalla sua vecchia nutrice, la quale, preoccupata per la sua salute, la convinse a inviare una lettera ad Ippolito nella quale gli confessava i suoi sentimenti. Quando il figlio adottivo ricevette la lettera però la bruciò e corse a casa sua per inveirle contro. A quel punto Fedra, come impazzita, si strappò la veste di dosso e, aperte le finestre, cominciò ad urlare che la stavano violentando. Dopodiché si impiccò ad una trave del tetto lasciando una lettera incriminante nei confronti di Ippolito. Teseo, ricevendo notizia dell'accaduto, prima bandì il figlio da Atene e poi pregò il padre Poseidone di ucciderlo, cosa che in effetti avvenne.
Secondo quanto ci riporta Pausania, Afrodite Urania ad Atene era onorata come una delle Moire, la maggiore delle tre. Sempre secondo questo autore, a Delfi se ne onoravano invece solo due: la nascita e la morte. Da notare è che, secondo Eschilo e lo stesso Platone, alle Moire anche Zeus deve chinare il capo. Questa triade di divinità nacque per partenogenesi dalla Grande Dea Necessità, con cui nessuno osa contendere, nemmeno gli Olimpi. La stessa è nota come La Possente. Ora, chiunque abbia studiato mitologia greca, saprà che le Moire sono le tre sorelle del fato e i loro nomi sono Cloto (la misuratrice), Lachesi (la filatrice) e Atropo (l'inevitabile). Il loro ruolo era quello di misurare, filare e tagliare il filo della vita degli uomini. Secondo Robert Graves, che vedeva in queste la triplice dea lunare, Afrodite era considerata la maggiore perché era la dea-ninfa cui il re sacro veniva sacrificato, nei tempi antichi, durante il solstizio estivo. Ma, secondo questo autore, che individua con una certa facilità, in effetti, triadi divine, la dea dell'amore troverebbe un ruolo in un contesto trino legato alle fasi lunari a fianco di Selene ed Ecate: le tre rispecchiano rispettivamente la vergine dell'aria, la ninfa della terra e la vegliarda del mondo sotterraneo. A conferma di questo, non solo troviamo nella Descrizione della Grecia di Pausania come a Capo Coliade, in Attica, Afrodite conduceva una triade di divinità e riceveva sacrifici di cani, esattamente come avviene con Ecate, ma anche come, sempre secondo Graves, "i miti greci pullulano di iconotropie. I tavolini a tre gambe di Efesto, ad esempio, che corrono da soli alle assemblee degli dèi e poi tornano al loro posto, non sono, come suppone maliziosamente il dottor Charles Seltman nel suo Twelve Olympian Gods, anticipazioni dell'automobile, ma gli aurei dischi del Sole con tre gambe ciascuno (come l'emblema dell'isola di Man) che evidentemente rappresentano gli anni di tre stagioni durante i quali «il figlio di Efesto» poteva regnare sull'isola di Lemno. E ancora, il cosiddetto «giudizio di Paride», dove un eroe è invitato a giudicare la bellezza di tre dee rivali per poi donare una mela alla più bella, rispecchia una antica situazione rituale, già superata ai tempi di Omero e di Esiodo: le tre dee sono la dea trina, e cioè Atena la fanciulla, Afrodite la ninfa ed Era la vegliarda, e Afrodite offre a Paride la mela anziché riceverla dalle sue mani. Codesta mela, che simboleggia l'amore della dea ottenuto a prezzo della vita, sarà il lasciapassare di Paride per i Campi Elisi, il giardino di mele dell'Occidente, dove sono ammesse soltanto le anime degli eroi. Episodi analoghi si ritrovano spesso tanto nelle leggende irlandesi e gallesi quanto nella leggenda di Eracle e delle Esperidi; ed Eva, la madre di tutti i viventi, donò una mela a Adamo. Così la Nemesi, dea del sacro bosco che nel mito di epoca più tarda divenne simbolo della vendetta divina sui re troppo arditi, regge un ramo carico di mele, dono per gli eroi”.
Ora, abbiamo visto come Afrodite sia una dea molteplice ella stessa, legata alla terra, al mare e al cielo. Walter Otto, nel suo Gli dei della Grecia afferma chiaramente, sin dalle prime righe a lei dedicate, che questa dea non è per nulla partenopea. Così come Adone, infatti, splendido amato dalla dea dell'amore, era un dio arboreo "intruso" di origine mesopotamica, anche Afrodite ha le medesime origini: in principio era infatti la dea babilonese dell'amore, Ishtar, inglobata anche dai fenici. Grazie ad Erodoto ci è possibile ricostruire la genealogia primigenia di questa dea. Egli dichiara infatti che il primo santuario a suo nome fu ad Ascalona, nell'attuale stato di Israele. Fu là che il popolo cipriota la importò alla sua isola, dove, nel mito della sua nascita, trova i natali emergendo dalla spuma delle acque e dove la dea, immergendosi nelle acque al largo di Pafo, ritrovava la sua verginità.
La dea primigenia da cui deriva Afrodite era la mesopotamica Ishtar, la grande dea dell'amore. A lei erano dedite sacerdotesse che avevano, tra gli altri servizi del tempio, quello di prostituirsi in onore alla dea. Fu così che questa dea prese il termine di "meretrice di Babilonia" e fu bistrattata dal popolo ebraico e di conseguenza cristiano per la promiscuità che portava. Ella infatti aveva una possibile gemella oscura: Lilith. Questa dualità Ishtar-Lilith denota chiaramente il forte legame che queste dee hanno con il lato infero ed iniziatico, richiamando così la concezione di dualità e di asimmetria che abbiamo già visto con le divinità claudicanti o con alterazioni deambulatorie. Ma questa duplicità richiama anche l'aspetto lunare, con cui Ishtar era associata. Sul suo capo, nelle sue rappresentazioni, era spesso visibile la mezzaluna crescente. Questa dea era anche la signora delle guerre, venerata particolarmente ad Assur, oltre che ad Uruk e Ninive. Sotto una visione lunare era figlia di Sin, il dio della luna, e sorella di Shamash, il dio del sole, nella versione celeste era invece figlia diretta di Anu, il cielo. Il suo mito, come abbiamo visto, ricalca passo passo quello di Inanna, narrato nelle tavolette di Nippur. Innamorata del pastore Tammuz, Ishtar discende negli inferi per incontrare la sorella Allatu, passando per sette porte e dovendo lasciare, di volta in volta un indumento o un paramento sacro. Una volta giunta al cospetto della sorella trova la morte e poi ritorna in vita dovendo però promettere di offrire qualcuno che rimanga negli inferi al suo posto. Quando scopre che il suo amato Tammuz non ha mai pianto per la sua morte, la scelta ricade proprio su di lui.
Questo mito, come quello sumero di Inanna, riconduce alla spiegazione del ciclo arboreo in cui Ishtar discende negli inferi e ritorna in vita, sostituendo il suo ruolo ctonio con quello dell'innamorato Tammuz, il Dumuzi babilonese e l'Adone greco. A ricalcare fortemente questo sincretismo con il mito greco troviamo come anche Tammuz fu ucciso da un cinghiale, come accadde al pupillo di Afrodite. Durante il periodo appena seguente al suo decesso, Ishtar entrava in lutto per il compagno che annualmente moriva e rinasceva e discendeva negli inferi per cercarlo e riportarlo alla vita, portando quindi a termine il ciclo vitale arboreo sulla terra. Non per nulla uno dei suoi epiteti era: "Elargitrice di Semenze".
Questa dea era quindi, come Afrodite, una dea della terra, figlia del cielo, in questo caso il dio Anu, e legata alle maree e ai cicli lunari, soprattutto grazie a Lilith, quella che divenne in un certo senso il suo aspetto oscuro. Là, quindi, dove Ishtar era la dea dell'amore legato alla visione patriarcale maschile, Lilith era la dea dell'amore libero da vincoli, dove la donna non doveva sottostare alla compiacenza del marito. Ciò che quindi Afrodite incarnava in un unico aspetto per la corrispettiva babilonese erano necessarie due entità distinte: due sorelle sincretiche, una malvagia e una buona. Una visione che vediamo anche nella Hel nordica, dal duplice volto, metà vivente e metà decomposto.
A Ishtar era sacro il pianeta Venere, che le garantiva l'appellativo di Signora Splendente. Questo simbolismo era rappresentato dalla stella a otto punte che richiamava le diverse fasi che già allora gli abili astronomi mesopotamici avevano individuato completarsi in un ciclo di otto anni terrestri. Era quindi la prima stella visibile alla sera e l'ultima stella che rimaneva visibile al mattino, e considerata quindi l'astro che annunciava l'aurora. Il suo stesso nome richiama al simbolismo della "Stella dell'Est", che è poi ancora il pianeta Venere. Ora vediamo come, nel mito ebraico, l'astro del mattino fosse ritenuto "il portatore di Luce", o "l'angelo più bello" ed in seguito decaduto per superbia; in questo caso, appunto, Lucifero. Perché questa assonanza che pare non avere alcuna attinenza? Il sincretismo c'è eccome, basta trovarlo o saperlo vedere. Premettiamo che la spina dorsale del culto ebraico era di origine solare e monoteista. Al contrario, il culto babilonese era di origine lunare e Ishtar ne era una figura centrale. Ed inoltre, se Lucifero era davvero un angelo caduto, come ci sovviene dalle scritture, come mai non ha un nome "angelico" come gli altri, quindi con la radice "El", riferita a Elohim? Inoltre, come è possibile osservare da chiunque, Venere nel cielo notturno è particolarmente luminosa, ma sparisce quando il Sole sorge al mattino, cancellandone la luce e la brillantezza in quanto, di fatto, il pianeta non è in possesso di una luce propria. Questo stratagemma era quindi usato dai sacerdoti solari del culto ebraico per dimostrare ai pagani mesopotamici come il loro dio fosse più forte, più potente, e come la sua luce scacciasse Ishtar. In seguito questo "decadere" trovò la sua epifania nella demonizzazione delle divinità precedenti, un fenomeno che è ben noto e utilizzato anche in seguito dagli eredi cristiani. Ciò nonostante, ironia della sorte, la stella a otto punte legata ad una dea pressoché orgiastica divenne un simbolo legato alla Madonna, una dea vergine. Ciò accadde anche con Lilith, la sorella oscura di Ishtar, per quanto solo a livello metaforico e non mitologico. Ella divenne la prima moglie di Adamo, come ci viene narrato nel Talmud ebraico, sebbene in modo sporadico. In seguito divenne quindi la somma diavolessa, la sposa di Satana. Ma anche Ishtar deriva da una divinità siriana di nome Astarte, che, insieme con altre divinità, venne demonizzata in particolar modo, nonostante sia ancora la cananea Asherah, venerata dagli stessi ebrei che poi la condannarono.
Senza andare oltre per non divagare dal contesto, come abbiamo visto è possibile arrotolare il rocchetto di filo riportando Afrodite fino alla mezzaluna fertile, luogo da cui arriva anche Adone. In questo modo troviamo come sia più facile comprendere alcuni degli aspetti di questa dea. In primo luogo la promiscuità che infastidì Era, ma anche il suo ruolo legato alla natura, che la rende, in un certo qual modo, una signora panteista. Come grande dea dell'amore universale, permetteva a tutte le creature e le piante di accoppiarsi e di generare. Per questo era anche una dea della primavera e della fertilità, associata, guarda caso, con la latina Eostra, la signora dei fiori. Ancora una volta il nome stesso tradisce in parte le sue origini perché questa dea deriva da Oestara, la dea germanica primaverile legata all'equinozio e il cui nome significa, di nuovo, Stella dell'Est: ossia il pianeta che sorge in quella direzione la sera e che ci appare come il più brillante del cielo, in quanto l'ultimo a scomparire al mattino, Venere.
Per quanto, tuttavia, si possa far risalire Afrodite, senza nemmeno troppa difficoltà, fino alla culla della civiltà che sorgeva tra i due grandi fiumi Tigri ed Eufrate, come ci fa osservare Walter Otto, nel suo carattere fondamentale ella è assolutamente greca. L'idea, che vien determinata per noi dal nome di Afrodite, porta l'impronta genuina dello spirito greco preomerico, e questo solo ha valore ai nostri occhi. Anche quei tratti che non si possono far a meno di ritenere di origine orientale, acquistano attraverso tale idea nuovo aspetto e senso proprio. E inoltre, mercè sua, vengono escluse una volta per sempre certe altre rappresentazioni. La regina del cielo, com'era celebrata nei canti babilonesi, è assolutamente ignota non solo agli Inni Omerici, ma pure agli Orfici. Si può quasi dire che, più di altre, Afrodite è la mitologia greca, è l'incarnazione suprema del suo stesso spirito, convogliando dentro di sé gli aspetti più diversi del messaggio che questa dea ci vuole mandare, e il primo è il fatto che l'amore è una forza universale, che coinvolge ogni fibra dell'esistenza, sotto ogni punto di vista in cui si preferisce guardarlo, e questa dea li coinvolge tutti, anche quelli che, nella nostra limitata visione umana, non sono strettamente legati ad un sentimento. E questo semplicemente per il fatto che Afrodite è al di sopra del sentimento, in quanto incarna il bisogno della riproduzione, la fertilità e la fecondità, il ciclo naturale stesso composto da milioni di fattori intersecati, intrecciati l'uno nell'altro. Lei rappresenta la mantide che decapita il marito prima di accoppiarsi, o la chiocciola che depone le uova e poi le feconda, ma è anche il lupo che divora i propri piccoli, il cigno che si lascia morire quando perde la compagna, la ninfea che si apre al mattino e si chiude la sera, il pioppo che lascia andare i pollini in primavera: tutto ciò che è parte di un ciclo vitale di esseri viventi, animati o non animati che siano, è sotto il potere di Afrodite. Per questo motivo è nota come la Grande Dea dell'Amore, signora della terra, figlia del cielo e rivelatasi uscendo dalle acque. Lei è l'unica che, quando nacque, fu accolta con un benvenuto strabiliante da chiunque. Nemmeno Zeus, che per ovvie ragioni ha un posto d'onore, ha mai ricevuto un trattamento tanto regale al momento della sua nascita. Come ci fa notare Walter Otto: "Chi non conosce l'immagine dell'eterna bellezza che sale dalla spuma del mare con le chiome stillanti, salutata dal giubilo di tutto il mondo? Le onde dell'oceano l'avrebbero portata al lido di Citera in una conchiglia. Fidia la rappresenta mentre sale su dai flutti, sul piedistallo della statua di Zeus Olimpo: Eros l'accoglie, Peito la corona, e tutt'intorno i grandi dèi assistono allo spettacolo. (...) Il VI Inno omerico descrive accuratamente ciò che accadde alla dea dopo la sua nascita dal mare; un vaporoso zefiro la sospinse, avvolta in tenera spuma, verso Cipro, dove le Ore l'accolsero liete e la rivestirono delle sue vesti divine; le posero sul capo una corona d'oro e le appesero agli orecchi preziosi gioielli; ne inghirlandarono il collo ed il petto di collane d'oro così come soglion portarle le Ore medesime, quando si recano nella casa del padre alle danze degli dèi. Adornata che l'ebbero la condussero stupenda presso gli dèi, che la salutarono estasiati e se ne accesero d'amore".
Nello stupendo Inno a Venere di Tito Lucrezio Caro, apparso nella sua opera De Rerum Natura, vediamo come questo poeta prenda Afrodite come musa suprema, riconoscendo in lei in la forza creatrice della natura. Più di altri inni, in questo troviamo il vero e puro spirito di questa dea. Ne vediamo qui una parte:
Progenitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dei,
Alma Venere, che sotto gli erranti astri del cielo vivifichi
Il mare solcato da navi e la terra portatrice di messi,
Poiché per opera tua ogni specie di esseri viventi
È concepita e, appena nata, vede la luce del sole.
Te, o dea, te fuggono i venti, te le nubi del cielo
Al tuo sopraggiungere, per te la terra ingegnosa
Fa nascere fiori soavi, per te ride la superficie del mare
E, tornato sereno, il cielo brilla di un chiarore diffuso.
Infatti non appena si schiude l’aspetto primaverile del giorno
E, liberatosi, prende vigore il soffio fecondatore del favonio,
Per primi gli uccelli dell’aria annunciano te ed il tuo arrivo,
O dea, percossi nel cuore dalla tua potenza.
Poi le fiere e gli armenti saltellano qua e là per i pascoli rigogliosi
Ed attraversano i fiumi vorticosi: così ogni animale,
Preso dal tuo fascino, ti segue avidamente dove tu voglia condurlo.
Infine per mari e monti e per fiumi che travolgono
E per le frondose dimore degli uccelli e i campi verdeggianti,
Incutendo a tutti nel petto un dolce desiderio d’amare,

Fai in modo che essi, bramosamente, propaghino specie per specie le generazioni.
L'autore in questa opera spesso cerca di far risaltare il potere genitivo di questa dea, spinta appunto a riva da Zefiro, il vento primaverile che scaccia l'inverno e che, secondo i latini, favoriva la procreazione. In questo inno vediamo come questa dea, ovviamente nel corrispettivo romano, sia una naturale signora, mater universalis, o meglio una alma mater, in riferimento proprio al concetto del "nutrimento", ma richiamando anche, in alcuni passi, l'aurea e antica età dell'Oro, dove non esisteva la proprietà privata e dove l'armento e la fiera convivevano senza che l'uno temesse di essere ucciso dall'altra. Le Grazie, deliziosi spiriti della crescita, danzavano con lei, le intesserono il peplo e la cosparsero d'olio profumato. La sua nascita, avvenuta in seguito ad una violenza (l'evirazione di Crono), porta comunque un messaggio di bellezza e pace, che tutti gli animali e gli aspetti naturali riconoscono. Non per nulla lei è l'amore, e dimostra come anche da una ferita, un dolore, una violenza, si possa emergere più forti. Afrodite ci porta quindi un messaggio di unione, dove le fiere e gli armenti saltellano qua e là per i pascoli rigogliosi. Unione quindi nelle differenze e nell'esternare le difficoltà, ma unione anche nella ricerca delle diversità. La sua alchemicità è la forma della trasformazione stessa. Nella metamorfosi della natura concede spazio all’evoluzione, ponendosi in mezzo tra il lupo e il cervo. Il quinto Inno Omerico ad Afrodite che narra del suo amore per Anchise dà un perfetto esempio: “scuotendo la coda la accompagnavano lupi grigi, leoni dagli occhi di fuoco, orsi, pantere veloci e avide di caprioli. Vedendoli il cuore godeva nel suo petto e allora infuse il desiderio nel loro animo per cui, a coppie, tutti giacquero innamorati nell'erba”. La stessa visione orfica che vedeva Eros come un principio universale primigenio che consentì agli dei di innamorarsi e di mettere al mondo figli, permette ad Afrodite di divenire, come mi suggerisce Il Bardo, “il perfetto influsso celeste che feconda la materia viva, divenendo il motore dell’evoluzione”. Ed evoluzione sia a livello materiale che spirituale. Ella è quindi l’amore che smuove le montagne ma anche il semplice istinto di riproduzione di qualsiasi essere vivente. Afrodite, quindi, è sia Ishtar, la dea dell'amore, che la sua pseudo-sorella oscura Lilith: incarna entrambi questi aspetti e polarità. Prima di lei solamente nella misteriosa divinità a cui sarebbe stato dedicato il Tuono, Mente Perfetta è possibile trovare tanti elementi antitetici, eppure in qualche modo equilibrati tra loro. Forse, come ha suggerito il traduttore del Tuono, Bentley Layton, la possibile lettura di una divinità di questo tipo, oltre che il ritratto celato dietro all'inno, altro non è che un complesso enigma da risolvere e che svelerebbe non solo l'identità dell'Io narrante, ma anche il rapporto fra la divinità che sta parlando e gli ascoltatori di natura umana. Un esempio del tutto simile lo troviamo nell'indovinello celato nella Cad Goddeau, che Robert Graves nella Dea Bianca ha cercato in qualche modo di svelare.
Afrodite raccoglie dentro di sé tutto ciò. Pertanto possiamo azzardare che sia possibile individuare una sorta di "Afrodite Velata" e una "Afrodite Manifesta", dove comunque è nell'inversione della forma che si cela il segreto del processo alchemico che Afrodite porta con sé, mantenendo il perfetto equilibrio tra gli opposti. La "Manifesta" è la Afrodite dea dell'amore e della bellezza, eccezione che solo gli uomini possono cogliere e che quindi ha portato alla dea del concepimento come naturale passo. La "Velata" è invece la dea naturale, la signora della primavera, che risveglia la natura solo camminando, che fa sbocciare i fiori e favorisce l'accoppiamento e la procreazione. Come con l'individuazione di Iside, nella parafrasi teosofica cercata dalla Blavatsky, ecco che la "Velata" è la dea iniziatica, misterica, figlia di un dio distaccato che si accoppia con violenza, che allontana i propri figli, Afrodite ha natali misterici, e nel suo generarsi trasforma la violenza in armonia, il sopruso in bellezza, la paura in amore, senza però perdere nulla della propria essenza luminosa ed oscura. E così diviene moglie di un dio benevolo, storpio e claudicante, creatore di meravigliosi artefatti, con cui non concepisce alcun figlio, ma è amante di un dio bello, forte e sanguinario con cui genera figli ora distruttivi ora equilibrativi. In questo possiamo decidere di leggere la leggerezza umana con cui sono dipinti gli dei greci o la realtà della natura che, anche se costretta ad una forzatura per cause esterne, sceglierà sempre il sano al malato per procreare, manifestando così la forma di amore naturale. Pertanto come si può dire che Afrodite abbia due padri (Urano e Ponto) e una madre (Gea), così notiamo come abbia anche "due mariti" legati tra loro, dato che Efesto ed Ares sono strettamente correlati, in quanto è il primo che forgia le armi al secondo. E lei, duplice natura, velata e manifesta, sta nel mezzo, ora legandosi al lato antropologico e sentimentalmente umano, che la vede sposata con un uomo fisicamente asimmetrico ma concettualmente retto che le crea e le dona gioielli meravigliosi, anche se legato ad un costume iniziatico ed oscuro, e ora invece ad un dio selvaggio e sanguinario, sano fisicamente, bello e affascinante ma scorretto e pertanto incapace di poterle dare una sicurezza. Ed ecco infine l'alchimia: natura e civiltà incarnate e contrapposte in continui aspetti antitetici che creano, grazie ad Afrodite, un equilibrio costante.
Anche a livello astrologico è notevole un parallelismo: come mi fa notare il Bardo, unito ad un'osservazione di Airesis, l'influsso di Venere nel sistema zodiacale è doppio (un fenomeno che si verifica solo con un altro dio: Mercurio). Venere è infatti reggente della casa del Toro (segno di terra) e della casa della Bilancia (segno d'aria). Interessante che la prima sia una casa giovane, di terra, pertanto materiale, rappresentata spesso dall'immagine della "fanciulla che prepara il letto nuziale": è proprio della natura del segno il predisporre la bellezza attorno a sé per attrarre naturalmente l'altra metà, rappresenta proprio la disponibilità alla fecondazione. Il secondo è uno dei segni emergenti, nel pieno della forza: qui Venere incarna l'acme dell'influsso d'aria (quindi spirituale). La Bilancia è emblema proprio dell'armonia, i suoi due piatti soppesanti la materia e lo spirito; questo è il segno che irradia la Legge Universale tridimensionalmente, riportando all'equilibrio le forze divergenti (che erano proprie dei Gemelli, segno d'aria ad esso precedente). Come se quindi la componente spirituale di Afrodite (dell'Amore) sovrastasse quella materiale, riequilibrandola allo stesso tempo per armonizzarsi alla Legge Unversale che orchestra il creato. È interessante, tra le altre cose, leggendo in accezione scientifica questa "Legge Universale", vedere come essa facilmente si accomuna alla legge di gravitazione, che controlla l'Universo intero. E, leggendola accostata a Dante, che asserisce a chiusura della sua Commedia "L'Amor, che move il Sole e l'altre stelle", pare tornare tutto in un cerchio completo. In fondo, è o non è l'Amore una grande forza di gravitazione, che ci fa attrarre e respingere gli altri elementi della creazione?