The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Ares il Bellicoso

Ares il Bellicoso


Entriamo ora nel campo dei figli non accettati. Ares ed Efesto non rientrano nei dodici aspetti che ci eravamo previsti, ma sono comunque dei figli da prendere in considerazione, quindi li tratteremo assieme agli altri.

Ares, come del resto anche Efesto, ha una paternità dubbia. Secondo alcuni lui e il fratello sono entrambi figli di Zeus ed Era, mentre secondo altri la dea li ebbe per partenogenesi, per vendetta dei continui tradimenti ed umiliazioni che doveva subire dal marito. L'origine di Ares è comunque tracia; è legato alla violenza, alla battaglia e allo spargimento di sangue. È infatti il dio della guerra, giusta o ingiusta che sia. Oltre ad essere sempre pronto a colpire per primo, sanguigno e violento è anche sprovveduto. Si dice infatti che Atena l'abbia sconfitto per ben due volte in battaglia, utilizzando la mente strategica contro il suo potere istintua1e. Questo richiama ancora il privilegio che viene dato nel mito greco alle le divinità legate all'aspetto intellettuale a discapito di quelle legate più al lato emotivo. È per questo motivo che qualsiasi divinità olimpica detesta Ares, a parte Afrodite, che per lui brucia di desiderio. Dopotutto Atena è una dea di mutazione ellenica, mentre Ares è un dio legato a popolazioni più barbariche, provenendo dallo stesso luogo da dove giungono Attis, Dioniso e Cibele.

Secondo Omero, come dicevamo prima, Ares è il figlio disprezzato di Zeus ed Era, assieme a suo fratello Efesto, Ebe e secondo alcuni anche Eris, la dea della discordia, l'unica altra divinità che apprezza il dio della guerra. Secondo Ovidio invece Era rimase gravida di Ares solamente toccando "un certo fiore", su suggerimento della dea Flora, che lo indicò alla dea. Secondo Robert Graves si trattava di un fiordaliso, in quanto erano sacri alla dea primaverile. Lui fa notare inoltre che nella mitologia popolare europea, al biancospino vengono attribuite concezioni miracolose; nella letteratura celtica questa pianta è la "sorella" del prugno selvatico, simbolo della contesa, cioè la sorella gemella di Ares, Eris.

Che fosse o meno nato da Zeus è chiaro che questi lo disprezzava apertamente. Ade però mostrava per lui un certo rispetto, in quanto fu grazie al dio della guerra che poté accogliere nelle oscurità del Tartaro le ombre dei guerrieri morti. Per Ares non esisteva una "parte da prendere" in battaglia: poteva scegliere di privilegiare ora una fazione ora un'altra a seconda del suo capriccio. Il suo sprezzo delle leggi e l'ordine in generale lo contrapponeva ancora ad Atena che, come abbiamo detto, non si è mai tirata indietro dall'umiliare il suo disordinato metodo combattivo.

Ares viene sempre rappresentato con un elmo che gli copre completamente il volto e spesso armato di lancia e scudo e con un'armatura bronzea. Cavalca una quadriga trainata da quattro cavalli immortali che tiene in una stalla nella grotta dai sette meandri sul monte Emo e il cui fiato è infuocato. Ares è stato allevato da una divinità della guerra, Enio, e forse a questo è dovuta la sua sete di sangue. Questa divinità infatti rappresenta l'urlo furioso della battaglia. Nell'Iliade, che porta i nomi di divinità in romano, appare come Bellona, la sua trasposizione italica. Ma sotto questo nome troviamo anche un soldato peone, che appare nel ventunesimo libro, trucidato dal furioso Achille dopo la morte di Patroclo.

Ares aveva sacro il cinghiale e, come dicevamo, era amante di Afrodite, che visitava quando il marito Efesto era in fucina a lavorare. Uno dei pochi miti in cui è presente è quello di Adone. Questo dio, di origine assira e il cui nome significa "Signore", nacque per una ripicca della dea dell'amore; il mito che lo interessa lo vedremo in particolare nell'articolo legato ad Afrodite e Persefone, ma lo accenniamo ora. La regina cipriota Candreide, madre di una bellissima fanciulla di nome Mirra, si vantò di avere una figlia che potesse superare in bellezza la stessa dea dalla cintura d'oro. Ovviamente colpita in modo sfavorevole da questo spregio nei suoi confronti, Afrodite insinuò un perverso desiderio nella giovane, che cominciò a bruciare per suo padre: Cinira. Confessata questa brama alla madre ella dispose in modo che, durante la festa di Demetra, la figlia incontrasse il padre nell'oscurità del talamo dove egli dormiva completamente ubriaco e che giacesse con lui per nove notti consecutive. Mirra rimase gravida e quando il re Cinira di Cipro si accorse di ciò che era avvenuto e che egli era sia padre che nonno della creatura che la figlia portava in grembo e che ormai era prossima al parto, inorridito dall'infausto e perverso evento, si avventò su di lei con una spada per ucciderla. Mirra fuggì dal padre implorando gli dei di venirle in soccorso e Afrodite, che nel frattempo si era pentita di ciò che aveva fatto, la tramutò in un albero che da quel momento portò il suo nome: la Commiphora myrrha da cui si estrae una gommaresina che veniva bruciata appunto nei rituali in onore del dio Adone. Dal tronco dell'albero, su cui il padre infierì a colpi di spada, fuoriuscì un bambino di straordinaria bellezza che venne salvato da Lucina, la dea del parto, e che Afrodite chiuse immediatamente in un cofano affidandolo a Persefone, affinché lo tenesse negli inferi al sicuro dalla gelosia di Ares, che era suo amante, con la promessa che non lo aprisse. La curiosità ovviamente vinse sulla promessa e la dea oscura aprì il feretro, si innamorò di Adone e ne fece il suo amante. Quando Afrodite lo venne a sapere discese nel Tartaro per reclamarlo e così nacque una disputa in cui venne coinvolto Zeus, il quale, intuendo la situazione spinosa in cui si trovava, delegò il tribunale ad una musa: Calliope. Ella decretò che le dee avrebbero dovuto avere eguali diritti e che Adone sarebbe dovuto stare per quattro mesi all'anno negli inferi con Persefone, per quattro mesi all'anno con Afrodite e per il restante terzo sarebbe stato libero di scegliere. Ma la dea dell'amore non si diede per vinta e usando il potere della sua magica cintura dorata convinse Adone a passare con lei anche i quattro mesi in cui sarebbe stato libero di decidere da solo. Persefone, inviperita dal suo comportamento scorretto, corse da Ares e gli rivelò di come la sua amante preferisse a lui "un semplice mortale, e per di più effeminato". Il dio della guerra si ingelosì e, trasformandosi in un cinghiale, si avventò sul rivale mentre questi era a caccia sul monte Libano e lo smembrò proprio di fronte allo sguardo attonito della dea. Dal sangue di Adone crebbero degli anemoni. Secondo alcuni le rose, a lui sacre, sono ora rosse anziché bianche perché Afrodite, correndo verso il suo amato, si punse i piedi nudi con le spine e da quel momento presero il colore del suo sangue.

Oltre al cinghiale, animale in cui si trasformò anche quando, insieme agli altri Olimpi, fuggì in Egitto dopo che Tifone venne scagliato all'attacco da Gea, ad Ares sono sacri anche i rapaci notturni, come il gufo reale e il barbagianni oltre che l'avvoltoio, che si nutre delle carcasse lasciate sui campi di battaglia. Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, fa notare come gli uccelli sacri a questo dio facciano piovere le loro piume affilate a difesa del tempio in suo onore costruitogli dalla Amazzoni su un'isola nei pressi della costa del Mar Nero.

Ares incarna gli istinti primordiali della violenza e come abbiamo visto si contrappone alla freddezza calcolatrice di Atena. È un dio focoso, sanguigno e infatti spesso viene rappresentato come una pietra colorata di rosso, il colore del sangue, per ricordare il suo ruolo. I greci lo reputavano una divinità di cui diffidare. Questa sua caratteristica di dio poco amato determina anche poi il carattere sprezzante delle leggi che mostra. Non presiede mai ai tribunali e solo in un'occasione ne fu costretto, quando fu egli stesso accusato di omicidio. Si trattò di Alirrozio, uno dei figli di Poseidone e della ninfa Eurite. Nel mito, narratoci da Pausania, questi cercò di violentare Alcippe, figlia di Agraulo e di Ares e quest'ultimo lo uccise. Per questo venne citato in giudizio da Poseidone in un processo che si tenne su una collina chiamata Areopago, dove i dodici lo proclamarono innocente dal momento anche che l'unica testimone era la figlia, che ovviamente prese le parti del padre.

Alcippe però non è la sola figlia del dio della guerra. Da Afrodite ebbe Deimos, Phobos e Armonia. È interessante notare come, dei tre figli avuti dalla dea dell'amore, due siano "Paura" e "Terrore", che poi lo seguono anche in battaglia, e Armonia, su cui si intesse uno dei miti cardine della mitologia greca e che dà il via agli eventi narrati da Omero nell'Iliade: le nozze divine della figlia di Ares con Cadmo, il fondatore della città di Tebe, a cui parteciparono tutti gli dei. Cadmo stesso dovette servire Ares per un anno per ripagare un torto che aveva fatto ad una sua fonte. La storia narra che Europa, figlia di Agenore e Telfassa, fu soggetta all'interesse di Zeus, che si tramutò in un toro bianco e si confuse con la mandria che lei stava pascolando e, con uno stratagemma, la indusse a salirgli in groppa, gettandosi in acqua e prendendo il largo sul mare; Europa, sgomenta, si mantenne aggrappata alle corna per non affogare e, giunti su un'isola cretese, Zeus la violentò sotto forma di aquila, ingravidandola di Radamante, Sarpedone e Minosse, quello che poi divenne re di Creta e sposo di Pasifae, madre sciagurata del minotauro. Il padre, Agenore, inviò i figli alla ricerca di Europa invitandoli a non tornare se non l'avessero trovata e questi si diressero in direzioni diverse. Cadmo salpò assieme alla madre e, dopo aver toccato diverse terre e dopo la morte improvvisa di Telfassa, si accinse a consultare l'oracolo di Delfi chiedendo dove potesse trovare la sorella. Questi gli rispose che avrebbe dovuto abbandonare la ricerca e, dopo aver preso una vacca, di costruire una città dove questa si fosse accasciata a terra per morire di stanchezza. Cadmo così fece e, comprata da dei mandriani una vacca con simboli lunari, la spronò finché non crollò e in quel luogo costruì un simulacro di Atena e vi sacrificò il bovino, chiedendo ai compagni di andare a raccogliere l'acqua lustrale alla fonte Castalia, sacra ad Ares, a cui faceva buona guardia un serpente che dopo aver morsicato gli uomini venne ucciso dallo stesso Cadmo, che incorse così nella furia del dio della guerra. Dopo il sacrificio gli apparve Atena, che gli ordinò di seminare i denti del serpente e non appena ebbe eseguito ciò che gli era stato detto apparvero degli uomini armati, detti Sparti, che cominciarono a combattersi incolpandosi vicendevolmente non appena Cadmo gettò una pietra tra loro. Dalla lotta ne uscirono vincitori solo cinque, che gli giurarono fedeltà. Ma Ares chiese vendetta e il fratello di Europa dovette servirlo come schiavo per un Grande Anno, ossia il corrispettivo di otto anni solari. Con l'aiuto degli Sparti, su suggerimento di Atena, Cadmo fondò in Beozia la città di Tebe e in seguito prese in sposa la figlia di Ares ed Afrodite, Armonia, nelle nozze che conclusero il ciclo del mito degli dei per cominciare quello degli eroi, dato che a quel matrimonio parteciparono tutti gli dei e i titani esclusa la dea della discordia Eris.

Le due battaglie che si tennero tra Ares e Atena avvennero durante la guerra di Troia, scatenata dall'evento sopra citato. Prima di entrare in battaglia, Atena cercò di fermare il fratello, convincendolo a non incorrere nell'"ira di nostro padre" che aveva deciso di non prendere parti nel conflitto. Ma in seguito alla decisione di Ares di umiliare i greci, scese in campo a fianco degli achei, mentre lui si schierò dalla parte dei troiani. Nella prima battaglia in cui si scontrarono, narrata nel quinto canto dell'Iliade, Atena, su suggerimento di Era, scese in campo su un cocchio dorato e prese con sé Diomede per trarlo nella lotta contro Ares, che nel frattempo stava trucidando, lordo di sangue, Perifante, figlio di Ochesio. La dea indossò l'elmo di Ade sulla testa per divenire invisibile e non appena il dio del massacro vide giungere il cocchio guidato da Diomede gli scagliò contro la lancia; ma Atena la prese al volo e la deviò mentre Diomede lanciò la sua, direzionata dalla dea, che colpì Ares al ventre. A quel punto Omero ci narra di come, urlando di dolore in modo tale da fermare sia greci che troiani, il dio ascese all'Olimpo per lamentarsi con Zeus, mostrandogli la ferita sanguinante e cercando in lui una pietà che non ottenne. È in questo punto sopra ogni altro, nel mito che lo riguarda, che si nota la ricerca dell'approvazione, dell'amore e della considerazione del padre, tipica di un figlio non accettato che, nonostante la sua natura bellicosa, cerca comunque una redenzione, una comprensione. Non cercò infatti da lui il conforto per la ferita, ma gli chiese di rendersi conto di chi l'aveva provocata: Atena, la sua stessa figlia. Cercò nel padre una giustizia di parità: era anche lui suo figlio (quanto meno nel mito omerico) ma vederlo sanguinare a causa di una ferita inflittagli da una sorellastra non provocava in Zeus alcun dolore e anzi, Ares cercò in lui anche una presa di responsabilità, ritenendolo in qualche modo colpevole di aver messo al mondo la figlia che aveva osato ferirlo (rimanendo tra l'altro invisibile, da buona stratega). Il padre celeste trattò il figlio come se fosse un poveretto. Prima lo tacciò di essere lui il primo a desiderare il massacro e che quindi non trovava alcun senso nelle sue lamentele, e in secondo luogo rinnovò il disprezzo che provava per lui, quasi incolpandolo di essere identico alla madre, trovando quindi una colpa ulteriore insita nella sua stessa natura: "Querimonie e lai non mi far qui seduto al fianco mio, fazïoso incostante, e a me fra tutti i Celesti odïoso. E risse e zuffe e discordie e battaglie, ecco le care tue delizie. Trasfuso in te conosco di tua madre Giunon l'intollerando inflessibile spirto, a cui mal posso pur colle dolci riparar; né certo d'altronde io penso che il tuo danno or scenda, che dal suo torto consigliar. Non io vo' per questo patir che tu sostegna più lungo duolo: mi sei figlio, e caro la Dea tua madre a me ti partorìa. Se malvagio, qual sei, d'altro qualunque nume nascevi, da gran tempo avresti sorte incorsa peggior degli Uranìdi.". Dopodiché lo fece curare da Peone e, se si considerano le parole che poco prima gli aveva rivolto, in questo non si trova un gesto di redenzione ma un ulteriore spregio.

Nonostante ciò, al canto ventunesimo troviamo Ares ed Atena scontrarsi nuovamente e, ancora una volta, vediamo la dea umiliare il fratellastro apertamente. Mentre lei stava combattendo contro i troiani, il dio della guerra la fronteggiò chiedendole cosa ci facesse lì e incolpandola di aver guidato la lancia di Diomede per ferirlo. Vibrando un colpo formidabile all'elmo della sorella la invitò a riprendersi ciò che si meritava. Ma l'elmo che Atena indossava era invulnerabile anche alla folgore di Zeus, pertanto la il violento attacco non sortì alcun effetto, se non quello di indurla a replicare scagliandogli un enorme macigno addosso e colpendolo al collo. Ares annaspò, cercando di resistere, ma il respiro gli si mozzò, le forze gli mancarono e si piegò sulle ginocchia, crollando poi a terra: "Sciocco!" gli disse beffarda Atena. "Vuoi affrontarmi, e non sai che sono più forte di te!". Fu in quel momento che giunse in suo soccorso Afrodite, che lo sollevò da terra e lo condusse fuori dalla battaglia, ma la Pallade, furibonda, la inseguì, la colpì e infine la abbatté. Di fronte ai due rivali malconci allora diresse a loro un'ulteriore umiliazione esclamando: "Se fossimo stati noi immortali a batterci, la guerra sarebbe da tempo finita e Troia non esisterebbe più".

Vediamo come questo evento pone l'accento sul chiaro contrarismo che il mentale pone sull'istintuale nella cultura ellenica dell'epoca. I greci erano persone intellettuali e per quanto belligeranti ritenevano comunque disprezzabile un comportamento strettamente legato al corpo, all'agire prima di pensare, e trasponevano queste preferenze negli stessi dei che adoravano. I preferiti erano infatti tutte divinità mentali e celesti. Nei poveri e pochi miti in cui Ares appare, non solo è raro che abbia un ruolo realmente dominante, ma è legato ad altre divinità, come l'evento in cui, amante di Afrodite, viene intrappolato nel letto da una rete dorata assieme all'amata e umiliato pubblicamente dal marito tradito Efesto. È forse proprio questa mancanza di mito che lo rende in se stesso un dio poco apprezzato. Nonostante ciò gli spartani invocavano Ares in ogni battaglia perché egli, come lo proclama Omero, è "lo sterminio dei mortali, sempre lordo di sangue", e così anche le Amazzoni, che gli sacrificavano cani. Solo nell'Inno ad Ares (erroneamente attribuito agli omerici dato che si sostiene sia stato Proclo o Cleante a comporlo) si offre un'immagine differente di questa divinità, dipingendolo come un benigno protettore ispiratore di coraggio:

O Ares vigoroso, che calchi il carro da guerra, dall'elmo dorato,

intrepido scutifero, difensore di città, ricoperto di bronzo,

dalla possente mano, instancabile, abile con la lancia, bastione d'Olimpo,

Padre della Vittoria che dona fortuna in guerra, sostegno di giustizia,

dominatore dei nemici, guida per i giusti mortali,

signore del coraggio, che ruota la sfera fiammeggiante

fra i pianeti delle sette strade, dove i cavalli infuocati

lungo la terza orbita ti portano eternamente;

ascoltami, protettore dei mortali, donatore di baldanzosa giovinezza

e riversa dall'alto sulla mia vita la tua luce mite 

e la tua forza marziale, affinché io possa 

scacciare da me la viltà odiosa 

e piegare nella mia mente la passione ingannatrice dell'anima

e frenare la travolgente forza della furia che spinge

a gettarmi nella mischia crudele; ma tu invece il coraggio,

o beato, concedimi, e di rispettare le inviolabili leggi di pace

sfuggendo al tumulto dei nemici e all'inesorabile morte.


In questo inno, del tutto atipico rispetto alla visione di un Ares bellicoso e istintuale, affianca per la prima volta alla divinità un concetto di "Audacia et Prudentia" come due aspetti fondamentali per un qualunque combattente. E questo, oltre all'affiancamento che gli viene fatto con il pianeta della terza orbita, ossia Marte stesso, lo avvicina molto di più al sincretismo italico che poi lo ha trasposto nel dio della guerra adorato a Roma, dove lo si riteneva padre di Romolo stesso e per questo uno degli dei più adorati di tutto l'Impero. Al contrario, infatti, del suo "gemello" greco, Marte è un dio arboreo, legato ai raccolti. Rappresenta il pater familia, ossia l'uomo che lascia il rastrello per impugnare la spada e per difendere la famiglia dagli invasori e che non per questo perde il contatto con il proprio intimo senso di difesa e preservazione della vita. Non cerca quindi il massacro e il combattimento fine a se stesso, ma non si tira indietro quando si tratta di dover lottare per ciò che ama. Marte è figlio di Giove e di Rea Silvia, a lui è dedicato il primo mese dell'anno: Martius. È infatti un dio primaverile.

Una divinità che si lega ad Ares è il norreno Thor, il cui nome significa "tonante". Non è disprezzato come Ares, ma ha lo stesso identico carattere: è un guerriero violento e possente con la tendenza ad agire senza riflettere. Thor era figlio di Jordh ed Odino ed era considerato il dio del fulmine, mantenendo quindi un aspetto celeste distruttivo. I genitori di questa divinità incarnavano rispettivamente la terra e il cielo e probabilmente il figlio aveva proprio il ruolo di potere che unisce il cielo alla terra. Era considerato il più forte tra gli Æsir e la sua dimora era un castello enorme composto da oltre cinquecento stanze, noto come Bilskirnir, il cui significato è "fulmine". Guidava un carro trainato da due capre, Tanngrisnir e Tanngniost, e brandiva un possente martello Mjollnir, il cui significato è "Colpo di Fulmine", che fu forgiato da un nano: Sindri. La leggenda vuole che durante la creazione di questo potentissimo artefatto il dio Loki, signore degli inganni e del caos, tramutato in una mosca, fece di tutto per infastidire l'artigiano, svolazzandogli intorno al volto per distrarlo, e il risultato che ottenne fu che quest'arma ebbe in ultimo l'impugnatura corta. Mjollnir è il simbolo caratteristico del dio del tuono, in quanto non solo se scagliato era capace di uccidere istantaneamente chiunque, ma ritornava nella mano di Thor non appena questi lo richiamava. Non aveva però solo un potere distruttivo, in quanto veniva usato anche come portatore di fertilità e per consacrare i matrimoni o per riportare la vita ai morti.

Una leggenda nordica ci narra di come un giorno, svegliatosi, Thor scoprì che il suo martello era stato trafugato. Dopo aver fragorosamente sbattuto i piedi avanti e indietro per Asgard, si accinse a chiamare Loki, l'unico che, grazie alle sue peculiari capacità, sarebbe stato in grado di aiutarlo a ritrovare l'arma perduta. Il dio del caos si recò quindi da Freya, la dea dell'amore e della bellezza, e le chiese in prestito il magico manto che gli avrebbe permesso di tramutarsi in un falco. Intuendo che il colpevole era quasi certamente da ricercare a Jótunheim, la terra dei giganti del gelo, si accinse immediatamente a viaggiare verso quel regno. Lì, su un colle, intento a pavoneggiarsi con i suoi cani, delle leggiadre bestie con guinzagli d'oro, era seduto Thrym, il "rumoroso", un re molto potente. Intuendo la missione dell'alato investigatore, Thrym, con malcelata ironia, chiese a Loki se tutto andasse bene lassù tra gli dèi. L'astuto inviato divino capì immediatamente che aveva davanti a sé il colpevole e rompendo gli indugi gli raccontò dell'evento e dell'ira di Thor, calcando la mano sulla sete di vendetta che l'avrebbe posseduto in modo da spaventare il più possibile il gigante. Ma egli, accarezzando con sussiego le criniere di alcuni suoi cavalli, gli confessò di aver sotterrato il sacro martello nelle profondità della terra, in un luogo noto a lui solo. Thrym, sentendosi al sicuro, aggiunse che mai gli dèi lo avrebbero riavuto se non quando gli avessero concesso come sposa l'affascinante signora d'ogni beltà: Freya. Loki tornò quindi ad Asgard con le tristi nuove, che furono accolte con impazienza da Thor e con sdegno dalla stessa dea che, nonostante le suppliche del dio del tuono, si rifiutò categoricamente di andare in sposa ad un gigante. Fu così convocato un consiglio degli dei e fu consultato Heimdallr, il guardiano del bifrost, che tra tutti era considerato il più saggio tra gli Æsir. Egli suggerì a Thor di travestirsi da donna, di spacciarsi per Freya e di andare in sposa a Thrym e, con questo strategemma, impossessarsi del martello. Dopo l'iniziale severo diniego di prestarsi ad una messinscena che l'avrebbe messo in ridicolo, Thor acconsentì, anche perché Loki, comprendendo che quello era l'unico piano che avrebbe potuto funzionare, si offrì di accompagnarlo travestito da sua damigella.

Thor venne così vestito di tutto punto e in modo assai ridicolo e, assieme al dio del caos, che invece appariva a suo agio in quelle vesti, salì sul cocchio trainato dalle capre e si recò nella terra dei giganti, dove Thrym, volendo fare una splendida impressione, aveva preparato un sontuoso banchetto. Thor e Loki si sedettero a tavola e il primo, sotto lo sguardo attonito del gigante che cominciò a dubitare della sua femminilità, tracannò tre barili di idromele e mangiò un bue intero e otto salmoni. Se non fosse stato per Loki, che spudoratamente mentì giustificandolo dicendo che "la fanciulla dall'eccitazione del matrimonio non mangiava da una settimana", sarebbero stati scoperti. A quel punto Thrym cercò di strappare un bacio alla presunta Freya, ma avvicinatosi venne sconvolto dallo sguardo e dagli occhi rossi di Thor. Ancora una volta Loki venne in soccorso salvando la situazione, dicendo che alla sposa era mancato anche il sonno per l'emozione.

Thrym allora ordinò che fosse portato il Mjollnir per dare inizio al rituale nuziale, perché, come abbiamo visto, l'usanza era che fosse posato sul ventre della sposa perché fosse benedetto con la fertilità. Non appena il magico martello fu poggiato sulle sue ginocchia, Thor lo afferrò con le mani e colpì violentemente il gigante, uccidendolo, e riservò lo stesso trattamento a tutti gli altri invitati.

Sposato con Sif, una dea bellissima dalle trecce dorate (in un mito tagliate da Loki) legata alla fertilità, da cui ebbe la Valchiria Thrud (forza) e Módi (Arrabbiato), Thor ebbe dei figli anche da altri amori, come dalla gigantessa Járnsaxa, da cui ebbe Magni (forte), e il figliastro Ullr, generato dal primo letto di Sif, ma di cui si ignora la paternità.

Thor è citatissimo nell'Edda Poetica dove, secondo la profezia della veggente, durante il Ragnarok combatterà contro l'acerrimo nemico, il serpente del mondo Jörmungandr, che avvolge le sue spire intorno a Midgard. Con un colpo del suo martello riuscirà ad ucciderlo spaccandogli il cranio ma le venefiche esalazioni lo avvolgeranno avvelenandolo e lui crollerà al suolo morto dopo aver compiuto nove passi.

Thor rappresenta il coraggio, la forza e la determinazione, ma anche la furia e la rabbia. In un mito che narra delle sue avventure vediamo come, assieme a Loki, che spesso lo accompagnava, si recò verso est, nella terra dei giganti, e lì incontrò una famiglia di contadini che lo onoravano. In quel frangente mostrò la sua assoluta benevolenza, uccidendo le sue due capre per condividerle con i commensali, raccomandando loro di non intaccare minimamente le ossa e di raccoglierle tutte sopra le pelli stese, accortezza che gli permise di riportarle in vita con un colpo di martello il mattino dopo. Purtroppo però uno dei figli della famiglia, per cogliere il midollo, aveva inciso un femore e così una delle capre rimase zoppa. Il contadino offrì a Thor qualsiasi cosa desiderasse per ottenere il suo perdono e il dio prese con sé i due figli, di cui uno era noto per essere estremamente veloce. Continuarono il viaggio fino a incontrare un enorme gigante di nome Skirmir, che impaurì il dio del tuono ma chiese loro di fare un tratto di strada assieme condividendo il cibo, che però chiuse in una sacca sigillata con dei nodi che nessuno riuscì a sciogliere. Per mettere alla prova la sua forza Thor colpì violentemente il gigante sulla testa tre volte con il martello mentre questi dormiva, ma con sommo disappunto non riuscì a fare altro che svegliarlo e indurlo a lamentarsi di ghiande che gli erano cadute in testa. Sconfitto, si diresse assieme ai compagni ancora verso est, giungendo in un palazzo dove vivevano giganti ancora più enormi che, una volta che ebbero riconosciuto il più forte tra gli dei, lo invitarono a partecipare a delle sfide. Loki si propose allora come mangiatore più veloce e contro di lui si pose Logi, che lo sconfisse mangiando non solo la carne dei buoi che fu servita, ma anche le ossa, il tavolo e le suppellettili. Fu la volta di uno dei figli del contadino, Thialfi, che era molto veloce e si batté in una gara di corsa contro Hugi, che però per ben tre volte lo umiliò, riuscendo ad andare e tornare prima che lui fosse anche solo partito. In ultimo toccò a Thor, che chiese un avversario che lo battesse come bevitore. Gli venne così dato un corno pieno dicendogli che anche un bambino poteva berlo tutto in tre sorsate. Per quanto provò però non riuscì che ad abbassarlo di alcune tacche. Anche se sconfitto, il dio del tuono non si diede per vinto e chiese ulteriori sfide. Utgardh-Loki, questo il nome del re dei giganti, gli chiese di sollevare il suo gatto rosso. Thor provò e riprovò ma con tutta la sua forza riuscì solo a fargli alzare una zampa. Fu così che il re, per umiliarlo ulteriormente, gli disse che solo una vecchia sarebbe stata per lui un degno avversario e arrivò così Elli, una nutrice, contro cui Thor si scagliò prendendola a calci e pugni, ma che, nonostante tutti i tentativi del dio di fermarla, continuava ad avanzare, inducendolo infine in ginocchio.

Il re li accompagnò così fino al confine, confessandogli di aver barato durante le sfide per testare la forza di Thor, sapendo del suo ingiungere. Il gigante Skirmir era in realtà il re travestito e i colpi che sembravano non averlo ferito avevano aperto voragini nella terra e causato enormi sconvolgimenti. La borsa che non riuscivano ad aprire era stata legata con nodi e incantesimi. Loki, inoltre, aveva affrontato Logi, il cui nome significa "fuoco selvaggio" e ne è la sua rappresentazione, Thialfi aveva affrontato Hugi, il cui nome significa "pensiero", e che è più veloce di qualsiasi umano, mentre il corno da cui Thor aveva bevuto finiva nell'oceano e lui ne aveva abbassato il livello causando così l'effetto delle maree, il gatto che non riusciva a sollevare altri non era che Jörmungandr, il Serpente del Mondo e, in ultimo, Elli era la rappresentazione della "vecchiaia", dal significato stesso del nome: un avversario contro cui nessuno può vincere.