The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Atena l'Onorevole

Atena l'Onorevole

Atena era la divinità della giustizia, della conoscenza, della saggezza, della strategia e delle arti e mestieri. Un multiplo aspetto che in parte ereditò o condivise con divinità precedenti. Era una divinità molto amata e ammirata dal popolo greco, tanto più che punteggia i miti sugli eroi di tutta la letteratura del tempo.
Il nome di Atena ha un'etimologia oscura; pare infatti che sia abbia un’origine lidia e che sia composto da due termini. Il primo è Ati, che significa "Madre", e l’altro è il nome Ana, che riporta ad una divinità differente: Anu, il dio accadico del cielo, il signore delle costellazioni e patrono di spiriti e demoni. Quindi il suo nome significherebbe “Madre di Anu”. Tuttavia il più antico ritrovamento scritto nella forma arcaica micenea, nel linguaggio noto dai glottologi come Lineare B, riporta proprio il nome di Atena, chiamandola Athana potniya, che significa "Signora di Atene". Questo fa ritenere quindi che nacque prima il nome della città di cui era patrona che il nome della dea stessa. Nonostante ciò Socrate, nel Cratilo di Platone, rivede l'etimologia della dea sulla base ateniese sostenendo che derivi da A-theo-noa, letteralmente Mente Divina. Questa etimologia sarebbe legata alla storia della sua nascita, o quanto meno quella più nota.
Così come per Crono, che ingoiava i figli per timore di una profezia che lo avrebbe visto spodestato, e così come per Urano, che, prima di lui, li teneva imprigionati nel Tartaro, anche per chi li seguì ci fu un presagio di sventura. Meti, l'oceanina figlia di Oceano e Teti, dea della saggezza e colei che diede a Zeus l'emetico che diede da bere al padre, fu anche la sua prima moglie. Una profezia, pronunciata da Gea, che aveva predetto anche gli altri eventi, decretava che il secondogenito figlio partorito da Meti avrebbe spodestato il padre.
Nonostante fosse a conoscenza di questa profezia, Zeus si invaghì di lei comunque, la inseguì e la sedusse. Tuttavia, onde evitare che ciò che Gea aveva predetto si attuasse, dopo aver giaciuto con lei la tramutò in una goccia d’acqua (secondo altre versioni in una mosca) e poi l'inghiottì, convinto in questo modo di scongiurare l'infausto evento. Ma Meti era già gravida quando ciò avvenne; ed inoltre era una dea e di fatto non poteva morire. Dopo nove mesi da quel momento, una tremenda emicrania cominciò a tormentare Zeus. Mentre si trovava sulle rive del lago Tritonide in Libia, il dolore fu così violento da indurlo ad urlare come un ossesso. A quel punto, udendo le grida del padre, giunse Ermes che, scaltramente, indovinò la causa del malanno e convinse Efesto a spaccargli il cranio con un'ascia. Dalla fessura creata nella testa di Zeus con un feroce urlo di battaglia uscì Atena già adulta, vestita di armatura e tenendo tra le mani una lancia e uno scudo.
Nonostante quello ateniese sia il mito più noto riguardo alla sua nascita, ce ne sono altri minori che parlano della nascita di Atena, diversi da questo. Secondo Tzetze negli Scoli a Licofrone alcuni elleni sostenevano che fosse figlia di Pallade, il gigante a forma di caprone alato che durante la Gigantomachia cercò di violentarla e che finì per essere mutilato delle sue ali e scuoiato. Atena ne prese il nome e con la sua pelle fece l'egida (la tunica di castità poi descritta come uno scudo). Secondo Pausania invece suo padre era Itono, re di Itone, una città della Ftiotide, dove in seguito pietrificò la sorella Iodama facendole vedere la testa recisa della gorgone. Secondo Erodoto invece padre di Atena fu Poseidone, ma questa, ritenendolo indegno, chiese a Zeus di adottarla. Come ci fa notare Robert Graves ne I Miti Greci: "J. E. Harrison interpreta giustamente il mito della nascita di Atena dalla testa di Zeus come «un disperato espediente mitologico, per liberarla dai suoi precedenti matriarcali». Il mito insiste, in modo dogmatico, sul fatto che la saggezza sia una prerogativa maschile; fino a quell'epoca, soltanto la Grande Dea era stata saggia. Esiodo in verità è riuscito a conciliare nella sua versione tre punti di vista contrastanti: I) Atena, la dea della città degli Ateniesi, era nata per partenogenesi dall'immortale Meti, Titanessa del quarto giorno e del pianeta Mercurio, patrona della saggezza e della sapienza; II) Zeus inghiottì Meti, e ne acquistò la saggezza (vale a dire che gli Achei soppressero il culto dei Titani e attribuirono il monopolio della saggezza al loro dio Zeus); III) Atena era la figlia di Zeus (vale a dire che gli Achei insistettero perché gli Ateniesi riconoscessero il supremo potere patriarcale di Zeus). Esiodo ricalcò lo schema di questo mito da esempi analoghi: Zeus che insegue Nemesi; Crono che divora le sue figlie e i suoi figli; Dioniso che rinasce da una coscia di Zeus; e la leggenda della nascita di Kore, che balza fuori dalla testa della Madre Terra aperta da due uomini a colpi di ascia (come si vede sul vaso a figure nere conservato nella Bibliothèque Nationale a Parigi). Dopo di che Atena diventa la fedele interprete di Zeus e deliberatamente sopprime tutti i suoi antecedenti matriarcali. Al suo servizio officiano sacerdoti e non sacerdotesse."
Atena è da sempre considerata la figlia prediletta, ed infatti nasce come emanazione della mente del padre. Da un punto di vista sia psicologico che sociale, è interessante notare come la sua nascita per partenogenesi avvenga dal cervello, ossia dalla zona legata all'intelletto e all'aria: un punto decisamente maschile, al contrario del ventre, più legato all'emotività e alla terra. Questo fa sospettare chiaramente, come ci suggerisce anche Luciana Percovich nel suo Oscure Madri Splendenti, che Atena sia un uomo mancato, in quanto incarna molti aspetti maschili, primo fra tutti la capacità in guerra ma anche il suo carattere distaccato e calcolato. Secondo la Percovich, quindi, il suo nascere armata e vestita sarebbe un richiamo a divinità femminili guerriere senza però darle il potere che meritava, ma mantenendola comunque un parto dell'intelletto maschile.
Un concetto simile lo troviamo nel mito ebraico della genesi. Eva, seconda sposa di Adamo (perché la prima fu Lilith), venne plasmata da Yhwh direttamente dallo sterco del marito. In seguito, forse per addolcire la pillola, venne inventato il mito della costola. Ciò nonostante siamo ancora di fronte ad una leggenda che parla di una donna nata da un uomo in quanto emanazione e riflesso di esso. Un evento del tutto fuori natura a prescindere, come ben tutti sappiamo.
Torniamo ora al mito pelasgico secondo cui Atena nacque in Libia, nei pressi del lago Tritonide. Non appena emerse dalla testa di Zeus fu nutrita da alcune ninfe di quella regione, che avevano l'abitudine di indossare abiti fatti in pelle caprina. Da fanciulla aveva una compagna di giochi di nome Pallade, figlia di Tritone, il dio che l’aveva allevata, con la quale si cimentava in addestramenti al combattimento. Un giorno, durante una di questi loro giochi di lotta, Atena di distrasse e rischiò di essere colpita dalla lancia dell'amica. Per evitare che ciò avvenisse, Zeus intervenne deviando il colpo con lo scudo, ma finì così per uccidere l'avversaria. Costernata dall’accaduto, in memoria della morte appena avvenuta, Atena prese il nome di Pallade come suo epiteto, dato che “pallas” significa “fanciulla”. Ciò nonostante, nella Biblioteca di Apollodoro, nonostante sia da ricondurre ad una versione più tarda, troviamo come la dea uccise la sorella adottiva su ordine del padre Zeus che la distrasse.
Come ci narra Robert Graves nel suo I Miti Greci: “Il racconto che Apollodoro ci fa della lotta tra Atena e Pallade è una tarda versione patriarcale; egli infatti dice che Atena, nata da Zeus e allevata dal dio-fiume Tritone, uccise accidentalmente la sua sorellastra Pallade, figlia del fiume Tritone, poiché Zeus abbassò il suo scudo tra le due contendenti, mentre Pallade stava per colpire Atena, per distrarne l'attenzione. Tuttavia l'egida, la magica sacca di pelle di capra, contenente una serpe e protetta dalla maschera della Gorgone, apparteneva ad Atena molto tempo prima che Zeus si attribuisse la paternità della dea. Le ragazze libiche indossavano abitualmente grembiuli di pelle di capra e Pallade significa «vergine» o «ragazza». Erodoto scrive: «L'abbigliamento e l'egida di Atena furono copiati dai Greci che presero esempio dalle donne libiche, vestite esattamente allo stesso modo, salvo che i loro abiti sono ornati di striscioline di cuoio e non di serpenti». Le ragazze etiopiche portano ancor oggi un costume simile, ornato di conchiglie, un simbolo sessuale femminile. Erodoto aggiunge che le alte grida di trionfo, ololu, ololu, lanciate in onore di Atena (Iliade VI 297-301), erano di origine libica. Tritona significa «la terza regina», cioè il membro più anziano della triade, la madre della fanciulla che combatté contro Pallade e che poi divenne ninfa, così come Core-Persefone era la figlia di Demetra.
Ora, siamo qui di fronte ad uno dei primi punti oscuri riguardo a questa dea. Il termine Pallade infatti, era anche un nume tutelare di un popolo dell’Attica, ritenuto, sopra ogni altro, il titano della saggezza, come ci arriva dall’Inno Omerio ad Ermete. Questi non poteva essere lo stesso Gigante che, nella gigantomachia, cercò di violentare Atena e finì sconfitto e ucciso da Eracle, ed inoltre secondo alcuni mitografi l’egida di Atena aveva la testa di Medusa, donatagli da Perseo dopo la sua impresa come ringraziamento per lo scudo donatogli dalla dea che gli permise di sconfiggere la gorgone. Pertanto è da prendere in considerazione il fatto che, originariamente, Atena fosse figlia di Pallade il saggio e che poi lo spodestò, prendendo il suo stesso nome.
Atena era una delle tre dee vergini dell’Olimpo, assieme con Artemide ed Estia. Tuttavia questo concetto della verginità rimane, in antichità del tutto aleatorio, in quanto, essere vergini non significava per forza essere caste, bensì non essere sposate, quindi non appartenere a nessun uomo. Si entra in un campo particolare, dove il concetto di proprietà era del marito. Le dee vergini non erano quindi destinate ad essere proprietà di nessuno. Il suo stesso indossare l’egida è determinante in questo senso, dal momento che in effetti si trattava di una tunica di castità in pelle caprina di origine libica. Se un uomo avesse osato strapparla ad una donna senza il suo consenso, sarebbe stato messo a morte. In una tasca infatti veniva nascosto un serpente. Secondo Graves, quindi, la profilattica maschera della gorgone che vi stava dipinta sopra era a scopo di spaventare e ricordare agli uomini il rispetto delle donne. Medusa infatti, aveva il potere di pietrificare solamente persone di sesso maschile. Ad ogni modo, nella Dea Bianca Graves trova una spiegazione anche per il fatto che, in seguito, l’egida venisse descritta come uno scudo. Ipotizzò infatti che potesse trattarsi di una “fodera da applicare ad un disco sacro, simile a quello che conteneva il segreto dell'alfabeto di Palamede. Secondo la Richter, le figurine cipriote che reggono dischi simili a quello famoso di Festo, ornato da una iscrizione sacra in forma di spirale, anticipano l'egida di Atena. Anche gli scudi eroici, descritti cosi accuratamente da Omero e da Esiodo, pare portassero pittografie incise a spirale.”
In possesso di armi formidabili e di una scaltrezza invidiabile, Atena resistette ad ogni tentativo di seduzione e di violenza. Il suo ruolo compare in molti miti diversi. Al matrimonio di Peleo e Teti, dove per dono levigò la lancia di Chirone, la cui punta fu forgiata da Efesto, si contese la mela d’oro lanciata da Eris per vendetta perché non invitata. Su quella mela, destinata “alla più bella”, si sviluppò in seguito il poema epico dell’Iliade omerica. Per appianare la disputa che sorse tra le tre, Zeus ricorse ad un giudice mortale: il principe troiano esiliato figlio di Priamo ed Ecuba, cresciuto in incognito come mandriano a causa della profezia della sorella Cassandra che lo vide distruttore della sua città natale. Ermes portò quindi le tre dee di fronte al giovane e gli pose in mano la mela, asserendo che per ordine del divino Zeus egli avrebbe dovuto decretare chi tra le tre era meritevole di riceverla in dono. In un primo momento Paride si rifiutò e chiese di poterla dividere tra loro, ma Ermes glielo proibì. Rendendosi conto della spinosità della situazione, chiese alle dee di non incorrere nelle ire verso di lui poiché era un semplice mortale. Dopo che ebbe ricevuto dalle tre la promessa che si sarebbero rimesse al suo giudizio senza rancore, il mandriano chiese se dovessero essere nude per essere giudicate e il dio gli rispose che spettava a lui decidere. Le tre dee si spogliarono e Atena redarguì Afrodite di togliere la cintura dorata che indossava e che la rendeva irresistibile. La dea dell’amore le impose quindi di togliersi l’elmo, dato che riteneva che senza sarebbe stata orrenda.
Quando fu il suo momento, prima di Afrodite e dopo di Era, Atena si pose nuda dinanzi a Paride per essere giudicata. Se avesse scelto lei gli avrebbe garantito bellezza, saggezza e vittoria in qualsiasi battaglia avesse deciso di affrontare. Tuttavia il principe troiano non si riteneva un guerriero, pertanto replicò che egli era solo un pastore e che in Lidia e in Frigia c’era la pace e che la sovranità del re non era in alcun modo messa in discussione. Paride scelse quindi Afrodite e donò a lei la mela d’oro. A braccetto con Era, Atena meditò vendetta e quando la guerra infuriò, entrambe si schierarono dalla parte degli achei.
Se non fosse per il carattere estremamente competitivo, in un contesto legato al ruolo che Atena rivestiva nel mito greco, personalmente ho sempre trovato curioso che avesse deciso di partecipare ad una gara di bellezza. Tuttavia era una dea che era destinata o quanto meno abituata a vincere. Questa competitività la troviamo ben rappresentata nel mito che la vide partecipare ad una sfida di tessitura con Aracne, una principessa lidia della città di Colofone, in cui dovettero entrambe tessere un arazzo, come ci narra Virgilio nelle Georgiche. Aracne rappresentò gli dei olimpi nei loro intrighi amorosi in un'opera maestosa e priva di alcuna imperfezione, pertanto rivelandoli nel modo in cui erano realmente: molto più emotivamente umani che divini. Vedendo l'opera e comprendendo che aveva perduto la sfida, Atena stracciò l'arazzo e per la sua superbia e per aver mostrato le verità ai mortali, punì Aracne tramutandola in un ragno e costringendola a tessere per tutta la vita nottetempo per poi distruggere al mattino ciò che aveva creato. Secondo Ovidio, nelle sue Metamorfosi, Atena non la punì per ciò che aveva rappresentato, bensì le salvò la vita perché dopo aver visto la sua opera stracciata dalla dea che non aveva saputo perdere con sportività, Aracne si impiccò ad una trave per averla offesa; tramutandola in un ragno le diede quindi la possibilità di salvarsi.
A parte questo singolo evento, Atena era ritenuta una dea giusta ed equilibrata e questo suo aspetto appare anche e soprattutto nelle sue capacità strategiche. Al contrario del fratellastro Ares, che era belligerante e rissoso, lei non girava armata in tempo di pace e combatteva solo quando era necessario. In quanto figlia prediletta del padre, quando si batteva chiedeva in prestito le armi a Zeus stesso e cercava sempre di non contrariarlo, ma di difendere il suo ruolo supremo, ritenendo che ciò che egli decideva era giusto a prescindere.
Tra Atena e Poseidone sorgeva un’antica rivalità che risaliva fino al tempo della fondazione della città di Atene. Questo sentimento di inimicizia tra la dea della saggezza e il dio del mare deriva probabilmente da una sfida che si tenne per il nome e patrocinio della città stessa. Secondo Varrone, quando si dovette decidere che nome dare alla comunità che era appena stata fondata, le due divinità si contesero l'adorazione degli abitanti offrendo un dono. Poseidone fece comparire una pozza d'acqua marina con un colpo del suo tridente dorato a simboleggiare il dominio navale dell'Attica sul bacino del Mediterraneo, mentre Atena, percuotendo la terra con la lancia, fece apparire un ulivo. A quel punto Cecrope, il Re, indisse una votazione a cui parteciparono tutti i cittadini. Quelli di sesso maschile proclamarono come vincitore Poseidone mentre le femmine Atena. Ma fu proprio quest'ultima a vincere dal momento che le femmine beneficiarono di un singolo voto in più. Ad ogni modo, vendicativo e rancoroso, Poseidone si infuriò, non accettando la sconfitta, e fece innalzare enormi onde marine con le quali inondò i campi di Atene, distruggendoli. Per far sì che la sua ira fosse placata, alle donne fu proibito il voto, nessun figlio avrebbe ereditato il nome materno e nessuna figlia avrebbe mai portato il nome di Atena. Secondo Apollodoro furono invece gli Olimpi stessi a giudicare e fu decretata la vittoria della dea perché aveva piantato l'ulivo prima che Poseidone facesse apparire la pozza d'acqua.
Questo evento di imparità portata al vantaggio dall'ultimo intervento di una donna ritorna anche in altre situazioni. Come abbiamo già detto Atena era considerata anche divinità della giustizia e molto spesso, così come mostrava una machiavellica fantasia vendicativa, era capace di slanci di grandissima compassione. Quando si teneva un processo sull'Aeropago, ella aspettava sempre tutti quanti prima di mettere parola e dare il proprio voto, così che in caso di parità fosse possibile favorire l'assoluzione dell'imputato, come accadde con Oreste, accusato del matricidio di Clitemnestra, atto a vendicare il padre Agamennone.
Quando, proprio a causa della mela d'oro e del giudizio di Paride coinvolto sull'argomento, come narrato nel poema epico dell'Iliade, scoppiò la guerra di Troia e le divinità scesero in campo, Zeus aveva deciso di rimanere neutrale. Per non chiedere pertanto le armi al padre, che aveva mostrato questo desiderio di astensione, Atena si rivolse ad Efesto e chiese che le fosse fabbricata un'armatura. La dea non poteva però sapere che Poseidone, che a sua volta cercava una vendetta nei confronti della dea, sapendo quale fosse il suo intento, si era recato dal dio fabbro prima del suo giungere e l’aveva avvertito del suo arrivo, assicurandogli che Atena sarebbe venuta nella sua fucina per giacere con lui. Ingannato, Efesto seguì il consiglio di Poseidone, e replicò che le avrebbe fabbricato ciò che chiedeva in cambio d'amore. Atena, non comprendendo cosa intendesse, accettò. Quando giunse il momento di prendere l'armatura, Efesto le saltò addosso e cercò di violentarla. La dea fuggì e nella lotta che ne conseguì si scostò in tempo per evitare il coito ed Efesto le eiaculò sulla coscia, appena sopra il ginocchio. Disgustata, dopo essersi ripulita con della lana, la dea della saggezza gettò via il rotolo che finì vicino ad Atene, fecondando Gea che passava da quelle parti. Per nulla intenzionata a crescere un figlio di Efesto che Atena non voleva, quando il piccolo nacque la dea della terra rifiutò di dargli un'educazione, e la Pallade, compassionevole, lo allevò dandogli il nome di Erittonio. Per evitare che subisse la derisione di Poseidone, che era riuscito, almeno in parte, nell'intento di umiliarla, nascose il piccolo in un cesto e lo affidò ad Aglauro, la figlia di Cecrope, re di Atene; ma questo lo vedremo più avanti. Ora torniamo alle vicende di Ilio.
Con la nuova armatura, durante la guerra di Troia, Atena scese in campo per scontrarsi proprio con il dio della guerra; ed entrambe le volte trovò la vittoria su di lui. Prima di entrare in battaglia, Omero ci narra come cercò di fermare il fratello, convincendolo a non incorrere nell'"ira di nostro padre", il quale aveva deciso di non prendere parti nel conflitto ed aveva intimato agli olimpi di fare lo stesso. Tuttavia, in seguito alla decisione di Ares di umiliare i greci schierandosi dalla parte dei troiani (dato anche che Paride era un suo protetto), scese in campo a fianco degli achei. Nella prima battaglia in cui si scontrarono, narrata nel quinto canto dell'Iliade, Atena, su suggerimento di Era, entrò in battaglia su un cocchio dorato e prese con sé Diomede per trarlo nella lotta contro Ares, che nel frattempo stava trucidando, lordo di sangue, Perifante, figlio di Ochesio. La dea indossò l'elmo di Ade sulla testa per divenire invisibile e, non appena il dio del massacro vide giungere il cocchio guidato da Diomede, gli scagliò contro la lancia. Tuttavia Atena la afferrò al volo e la deviò mentre Diomede lanciò la sua, direzionata dalla dea, che colpì Ares al ventre, affondando in profondità nelle carni divine. A quel punto il dio, urlando come un pazzo, salì all'Olimpo per cercare conforto dal padre, che però lo umiliò ulteriormente.
Al canto ventunesimo troviamo Ares ed Atena scontrarsi nuovamente e, ancora una volta, vediamo la dea umiliare il fratellastro apertamente. Mentre lei stava combattendo contro i troiani, il dio della guerra la fronteggiò chiedendole cosa ci facesse lì e incolpandola di aver guidato la lancia di Diomede per ferirlo. Vibrando un colpo formidabile all'elmo della sorella, Ares la invitò a riprendersi ciò che si meritava. Ma l'elmo che Atena indossava era invulnerabile anche alla folgore di Zeus, pertanto il violento attacco non sortì alcun effetto, se non quello di indurla a replicare scagliandogli un enorme macigno addosso e colpendolo al collo. Ares annaspò, cercando di resistere, ma il respiro gli si mozzò, le forze gli mancarono e si piegò sulle ginocchia, crollando poi a terra: "Sciocco!" gli disse beffarda Atena. "Vuoi affrontarmi, e non sai che sono più forte di te!" Fu in quel momento che in soccorso al dio della guerra giunse Afrodite, che sollevò Ares da terra e lo condusse fuori dalla battaglia, ma la Pallade, furibonda, la inseguì, la colpì e infine la abbatté. Di fronte ai due rivali malconci allora diresse a loro un'ulteriore umiliazione esclamando: "Se fossimo stati noi immortali a batterci, la guerra sarebbe da tempo finita e Troia non esisterebbe più".
La capacità strategica di Atena è la distinzione chiara che i greci fanno tra l'ira sconclusionata e il potere intellettuale e distaccato. Caos contro ordine. Controllo contro furia. Atena ed Apollo, infatti, sono divinità legate all'intelletto e alla ragione, ed entrambi sono prediletti da Zeus.
La battaglia era decisamente il campo di Atena. Ella prese parte alla Gigantomachia, quando affrontò appunto Pallade, abbattendolo e, dopo che fu ucciso da Eracle, strappandogli le ali e scuoiandolo, come del resto abbiamo già detto. Ma ci fu un’altra grande battaglia in cui la dea si distinse. Quando Gea, frustrata dal trattamento che i suoi figli avevano subito da parte di Zeus e degli Olimpi, scagliò addosso a loro il mastodontico serpente Tifone, ella fu l’unica che non fuggì in Egitto. La sua adorazione per il padre non la frenò dal redarguirlo in modo molto aspro, asserendo che rivestiva un ruolo determinante e che il suo compito era quello di fermarsi e combattere e non di fuggire come un coniglio. Punto sul vivo, seguendo il suggerimento di Atena, Zeus affrontò Tifone. La battaglia fu sanguinosa e Atena venne abbattuta subito, ma alla fine Zeus ebbe la meglio e il mostro fu sconfitto.
Atena era una dea giusta, modesta e generosa. Più volte nei miti si mostrò dotata di un lato fortemente compassionevole: quando Zagreo, nel mito orfico, fu fatto a pezzi dai Titani, fu lei a raccoglierne il cuore, salvandolo e rendendolo immortale. O ancora, quando Tiresia per sbaglio la colse mentre si stava bagnando in uno stagno lo rese cieco con un tocco della mano, elargendogli però il potere della chiaroveggenza (un evento che in un altro mito è avvenuto per causa di una disputa tra Era e Zeus e che, nel caso di Artemide finì con uno spargimento di sangue).
Atena, come abbiamo visto, ebbe modo di mostrare una grande bontà d'animo, ma mancarle di rispetto poteva essere fatale. Un evento particolare che fece emergere questo suo lato vendicativo interessò le tre gorgoni, figlie di Ceto e Forco, due divinità marine mostruose figlie di Gaia e Ponto. Secondo Ovidio e Pindaro le tre figlie erano bellissime ed avevano nome Steno, Euriale e Medusa, e rappresentavano tre tipi di perversioni, quella morale, quella sessuale e quella intellettuale. Medusa, l'unica mortale tra le tre, nottetempo giacque con Poseidone in uno dei templi di Atena, ma per vanità nascose il volto dietro un elmo della dea e quest'ultima, per punirla dell'affronto, la rese mostruosa: alata, con denti affilati e unghie di bronzo; i meravigliosi capelli di Medusa furono tramutati in serpenti e il suo solo sguardo pietrificava la carne degli uomini. Tuttavia i nomi stessi delle tre gorgoni erano appellativi della dea lunare: Steno significa "forte", Euriale "ampio-vagante" e Medusa "astuta". Ade le rese ninfe stigie il cui compito era quello di stare a guardia dell'ingresso dell'Averno: lontano dagli dèi e dagli uomini, al di là dell’Oceano famoso, sul confine ultimo della notte, dove stanno le Esperidi dalla voce armoniosa. A quel punto Medusa divenne un'acerrima nemica di Atena e quando Perseo intraprese il viaggio per prendere la testa della gorgone perché fosse soddisfatta la richiesta di Polidette, la dea decise di aiutarlo donandogli uno scudo lucente per evitare che incrociasse lo sguardo pietrificante e portandolo nella città di Dietterione, sull'isola di Samo, per permettergli di distinguere le due sorelle immortali dalla sovrana mortale che doveva uccidere. Inoltre, Ermes gli donò un falcetto affilatissimo, che sarebbe stato utile per uccidere la Gorgone. Recuperati dalle ninfe stigie i sandali alati, l’elmo di Ade e la sacca magica per riporvi la testa, Perseo compì la sua ordalia. Osservando l'immagine riflessa nello scudo, con la mano armata del falcetto donatogli da Ermes e guidato da Atena stessa riuscì ad uccidere Medusa, la decapitò e nascose il capo reciso nella sacca. Dal cadavere della Gorgone nacquero i due figli di Poseidone, concepiti nel tempio di Atena: Crisaore e Pegaso. Grazie all’invisibilità dell’elmo e ai sandali alati, Perseo si diede alla fuga e riuscì a sfuggire a Steno ed Euriale.
Dopo che ebbe usato la testa di Medusa per liberare Andromeda, principessa etiope di Joppa, e per sposarla, la donò ad Atena, che la mise sul suo scudo per intimorire i nemici e pietrificarli.
Atena ed Efesto erano due divinità strettamente legate. L'evento che si verificò nella fucina, in cui il dio zoppo fu oggetto di una beffa crudele portò, come abbiamo visto, alla nascita di un bambino: Erittonio, che però aveva un aspetto ofiomorfo. Aveva infatti la coda da serpente. Atena, nonostante non volesse prendersene cura, non ebbe cuore di lasciarlo morire e, quando nacque, lo prese dalle braccia di Gea e lo eclissò agli occhi di Poseidone, nascondendolo in un cesto e affidandolo ad Aglauro, figlia maggiore del re d'Atene, Cecrope, raccomandandole di averne cura, senza che potesse però rivelare a nessuno cosa contenesse. Anche Cecrope, infatti, era figlio di Gea e aveva sembianze per metà rettiliformi. Egli aveva una moglie, Agraulo, e oltre ad Aglauro, aveva altre due figlie: Pandroso ed Erse, di cui Ermes era oltremodo innamorato.
Una sera, mentre tornavano a casa portando sul capo a turno il cesto di Atena, di cui, a parte la responsabile incaricata, tutte ignoravano il contenuto, il dio dei viaggi offrì dell'oro ad Aglauro per poter entrare nella camera della sorella più giovane, ma questa, anche se accettò l'oro, infine non mantenne la promessa. Pertanto Ermes si infuriò, pietrificò Aglauro ed abusò di Erse, avendo da lei due figli: Cefalo e Cerice. A quel punto, Erse fu spinta dalla curiosità di guardare cosa contenesse il cesto da cui la sorella ormai morta non si separava mai, e con la madre e Pandroso sbirciò all'interno; quando il coperchio fu scostato le tre donne guardarono all'interno e la vista del fanciullo dalla coda di serpente le fece impazzire; fuori di senno si gettarono dall'Acropoli dove vivevano, sfracellandosi al suolo.
Atena fu addolorata del tragico evento, della cui notizia fu informata da un corvo. Per la sorpresa fece cadere una pietra che era destinata alla fortificazione dell'Acropoli e che divenne il monte Licabetto. Inoltre, come già capitò ad Apollo con Coronide, maledisse il corvo perché latore di cattive notizie e da bianco che era ne rese il piumaggio completamente nero, e in più proibì a questi uccelli di posarsi sulla sua città. Fu così che Erittonio venne portato sotto le cure di Atena stessa, che lo trattò come se fosse davvero suo figlio, ed in seguito ottenne il trono di Atene, dove instaurò il culto della madre adottiva.
Ma c'è un altro motivo che lega Atena ad Efesto, ed è la sua straordinaria capacità nelle arti artigianali, di cui è patrona. Se mettiamo infatti queste due divinità vicine l'uno all'altra, le vediamo come due aspetti diversi della stessa cosa. Il legame tra Atena ed Efesto è altresì narrato da Platone nel Crizia: Efesto e Atena hanno una natura comune sia in quanto fratello e sorella nati dallo stesso padre sia in quanto pervenuti al medesimo fine per il loro amore della sapienza e dell'arte. Infatti è interessante notare come queste due divinità: Efesto ed Athena Ergane, ossia un epiteto della dea vista come patrona di artigiani ed artisti, in Attica fossero onorati in una celebrazione nota come Calceia. Secondo Proclo, queste due divinità dividevano fra loro la conoscenza di tutte le arti sotto il cielo. Quando lo stesso Omero ci narra della costruzione della rete bronzea con cui Efesto intrappolò sua moglie Afrodite mentre lo tradiva con l’amante Ares, ci parla esattamente di "tela di ragno". Lo stesso Servio, nel commento sull'Eneide, la descrive come minutissimae catenae. Questo riconduce ad Atena patrona della tessitura e al mito di Aracne. Dopotutto l'artigianato che Efesto produce, prima di nascere dalle sue mani, ha origine dalla sua testa, dal potere dell'inventiva che trova la manifestazione nella bravura che mostra nel trasformare la creazione del suo ingegno in qualcosa di reale e, per di più, utile. Essi rappresentano l'ingegno e l'invenzione, il lato intellettuale dell'idea (Atena) e quello manuale della sua realizzazione (Efesto). E nessuno di questi due tipi di intelligenza può trovare la sua ordalia senza l'altro, ma sono necessari entrambi. In una visione immaginaria e mai realizzata del mito greco, Atena ed Efesto dovevano essere consorti.
Atena era considerata anche l’inventrice della tromba da battaglia e del flauto. Nel primo caso la tromba, invenzione di Atena, fu lo strumento che richiamava alla battaglia e lo si usava per incalzare gli eroi al combattimento. Nel secondo invece si trattava dell'aulos, un tipo di strumento a fiato a due canne della famiglia dell'oboe, ottenuto con ossa di cervo, che la dea suonava ai banchetti olimpici. Ogni volta che si esibiva però notava come Era ed Afrodite la deridessero di nascosto. Non spiegandosene il motivo, un giorno si affacciò ad uno stagno mentre suonava e si accorse di come il suo viso, usandolo, divenisse orrendo: il volto le si storpiava rendendola paonazza e strabuzzandole gli occhi. Pertanto, presa dalla rabbia per l'umiliazione che aveva subito senza accorgersene, lo gettò via maledicendo chiunque lo avrebbe trovato. La disgrazia volle che capitò di lì un satiro devoto a Cibele: Marsia, il quale, trovando l'aulos, lo raccolse e, forse proprio perché costruito da Atena, divenne talmente bravo a suonarlo da poter gareggiare con lo stesso Apollo, dio della musica. O almeno così si diceva. Quando Apollo, irretito da queste chiacchiere, lo sfidò, il patto era che il vincitore avrebbe potuto fare ciò che voleva dello sconfitto; dopo un risultato paritario su giudizio delle Muse, il dio della musica suonò la sua cetra al contrario chiedendogli di fare lo stesso. Marsia ovviamente non poté e Apollo lo appese ad un albero e lo scorticò vivo.
Secondo alcune ipotesi, Atena era ritenuta anche parte di una triade divina di cui si è persa la connotazione reale. Secondo Robert Graves ne I Miti Greci, infatti Atena fu in origine la triplice dea e quando la figura centrale, cioè la Ninfa, fu soppressa, e i miti che la riguardavano vennero attribuiti ad Afrodite, Orizia o Alcippe, rimasero soltanto la Vergine vestita di una pelle di capra, e patrona della guerra, e la Vegliarda, che ispirava gli oracoli e presiedeva a tutte le arti. Erichtonius è forse una forma dilatata da Erechtheus che significa «dalla terra dell’edera» anziché «molta terra», come comunemente lo si interpreta. Gli Ateniesi lo rappresentavano come un serpente dalla testa umana perché era l'eroe o il fantasma del re sacrificato che rendeva noti i desideri della Vegliarda. Sotto questo aspetto di Vegliarda, Atena era assistita da una civetta e da un corvo. L'antica famiglia reale di Atene si vantava di discendere da Erittonio e da Eretteo, i suoi membri si chiamavano Eretteidi, usavano portare serpenti d'oro come amuleti e tributavano un culto a un serpente sacro sull'Eretteo. Ma Erittonio era anche un vento fecondatore che soffiava già dai monti coperti d’erica, e una copia dell'egida di Atena veniva donata a tutte le coppie di giovani sposi ad Atene, per assicurare la fertilità della sposa (Suida sub voce Aegis). In questo contesto triforme, Atena prende un aspetto legato alla luna, che la lega al mito di Aracne e al ragno stesso, che tesse la sua ragnatela in una sola notte.
Atena, più di altre divinità olimpiche, è una dea di cui si sa molto senza conoscere veramente la sua origine. Nasce come vergine guerriera: un'amazzone spietata e battagliera. Esiodo la nomina come glaucopide, indomita, tremenda, che eserciti guida, tumulti eccita, a cui le grida son care, e le guerre, e le zuffe. Prima quindi di divenire signora dei mestieri, delle arti, della sapienza, era una dea guerriera, acquisendo solo in seguito i poteri della saggezza, uccidendo il Pallade, da cui prese il nome, o essendo figlia di Meti, che anche se ingoiata da Zeus gli dava utili consigli da dentro il suo ventre, come sottolinea Esiodo nella Teogonia: perché voleva il fato che Mètide desse alla luce figli saggissimi: pria la fanciulla dagli occhi azzurrini, la Tritogènia, pari di senno e di forza a suo padre; e un figlio poi dovea generare d'immenso vigore, ch'esser sovrano doveva degli uomini tutti e dei Numi.
Ma che cosa significa glaucopide? In alcune traduzioni Esiodo la nomina "occhi azzurrini", ma questo epiteto richiama anche la civetta, che le è sacra. Il termine, dal greco antico glaukôpis, formato da glaukòs, che significa "civetta" e la radice di omma, op-, e osse, che significa "occhi", viene usato per riferirsi ai rapaci notturni, per la loro peculiarità di avere un tipo di occhio che splende al buio, oltre ad avere la capacità di vedere nelle tenebre. Ed è proprio questa capacità che crea l'epiteto, ossia la facoltà di riuscire a vedere oltre, anche in situazioni dove normalmente si è impossibilitati, e diviene così il simbolo della conoscenza. Come affermano Henry George Liddelle e Robert Scott in A Greek-English Lexicon: l'uccello che scruta nel buio rappresenta l'allegoria della ragione, perché i suoi occhi attraversano anche il buio muro dell'incertezza. Non è quindi un caso che la setta segreta degli Illuminati avesse come simbolo la civetta di Atena. Tuttavia la connessione tra i rapaci notturni e le divinità madri sono molto più antiche e richiamano la madre ornitomorfa, che ritorna nelle Arpie, secondo Esiodo figlie di Elettra e Taumante, e le Sirene, che nelle rappresentazioni arcaiche erano metà donne e metà uccelli, e che Omero nell'Odissea non descrive. Appare anche in quella che Robert Graves chiama La Grande Dea Ker, ossia la personificazione del destino che colpiva i duellanti e che trascinava i morti negli inferi e che, in seguito, venne affiancata dalle Chere, a cui Omero dà come compagne Kudoimòs ed Eris: rispettivamente zuffa e discordia. Tutti questi segni richiamano un antico culto di una dea madre ornitomorfa, quindi metà donna e metà uccello, di cui Atena porta ancora i segni, anche perché in tempi antichi veniva rappresentata alata (le stesse ali che strappò al gigante Pallade). Un destino che avvenne anche nella demonizzazione giudeo-cristiana di Lilith, la dea-demone assiro-babilonese, a cui era sacra la civetta, che rappresentava il potere ctonio e la pulsione della libertà sessuale delle donne, ovviamente condannata e trasformata nell'iconografia del vampiro e della succube, che seduce gli uomini per partorire ibridi umani demoniaci e, per etimologia, anche la strega, il cui termine deriva da strix, la civetta. Ed Ovidio stesso la cita nelle Metamorfosi: Si dice che strazino fanciulli ancora lattanti e pieno di sangue abbiano il gozzo. Hanno nome strigi, causa del nome è che sogliono di notte orribilmente stridere.
La comparsa della civetta di Atena, da cui l'animale prende anche il nome Athene noctua, punteggia la mitologia e compare sempre quando c'è bisogno di uno sprone, come nell'Iliade, in cui appare a rinforzare i greci quando mostrano segni di cedimento, o nelle guerre persiane, come ci racconta Aristofane nelle Vespe: Il grandinare dei dardi era così fitto che non si vedeva il cielo, e pertanto resistemmo, con l'aiuto degli dei, fino a sera, ché la civetta attraversò gli eserciti schierati prima che cominciasse la battaglia. O anche nella battaglia di Salamina, narrata da Eschilo e lo stesso Aristofane, quando si dice che una civetta ne annunciò la vittoria. In questo ruolo Atena non abbandona mai le persone di cui si prende cura, come Perseo nella sua caccia alla testa di Medusa, Eracle od Odisseo stesso, che favorisce sempre e sopra ogni altro eroe e che Omero chiama "il pieno di senno", o anche Diomede, che aiuta durante la guerra di Troia dirigendo la sua mano per colpire Ares con la lancia. Si comporta come una madre amorevole, pronta a supportare i propri figli, fintanto che mantengono il rispetto e l'ordine, come invece non accadde a Tideo, padre di Diomede, che favorì al punto da decidere di renderlo immortale, ma proprio quando si stava avvicinando a lui con un boccale contenente la bevanda che rende immortali, quindi probabilmente l'ambrosia, lo colse mentre con furore cannibalesco stava mangiando il cervello dal cranio spaccato del nemico ucciso, e inorridita lo lasciò morire. Atena, per quanto quindi non abbandoni i suoi prediletti, pretende sempre un comportamento degno e chiede sempre di non lasciarsi andare all'immoralità della dissennatezza. è una dea che favorisce gli eroi, gli impavidi. L’amore che la lega ad Odisseo è del tutto simile al tipo di amore che c’era tra Artemide e Orione. Atena onora il coraggio, la forza delle imprese, la scaltrezza, l’eroismo, e lo favorisce nei suoi viaggi, anche se odiato da Poseidone, dato che l’eroe ha ucciso suo figlio Polifemo sull’isola dei ciclopi.
Nell'Iliade troviamo Achille che, offeso da Agamennone che non vuole spartire il bottino in modo equo, sta per estrarre la spada dal fodero e per un momento indugia se uccidere l'avversario o trattenersi:
Mentre agitava nel cuore, nell’animo, questi pensieri,
e la gran spada estraeva dal fodero, allora, ecco, Atena
venne dal cielo: la inviò la dea Era bianca di braccia,
per ambedue nel contempo sollecita d’animo e amica;
dietro gli fu, per i biondi capelli trattenne il Pelide,
e solo a lui si mostrò: degli altri, nessuno la scorse.
N’ebbe stupore e si volse Achille e all’istante conobbe
Pallade Atena: tremendi all’eroe brillarono gli occhi;
dunque spiegò la sua voce e le disse alate parole:
«Figlia di Zeus che dell’egida è cinto, a che pro sèi discesa?
Forse a vedere a che segno oltraggia Agamennone Atride?
Questo però io ti dico e si compirà, ben lo credo:
per i suoi atti superbi fra poco avrà persa la vita!»
Disse di contro, però, la dea Atena, Occhi-di-strige:
«A racquietare il tuo sdegno, se solo volessi obbedirmi,
venni dal cielo: m’inviò la dea Era bianca di braccia,
per ambedue nel contempo sollecita d’animo e amica;
modera, via, la contesa, non stringere in pugno la spada;
ma con parole soltanto ingiuria, annunciando il futuro;
sì, poiché questo ti dico e sarà già evento compiuto:
triplo indenizzo daranno a te un giorno, doni stupendi,
a riparare l’oltraggio: ma frénati, a noi obbedisci!»
Ed in risposta le disse Achille dai rapidi piedi:
«Certo, la vostra parola, o dea, è opportuno la osservi
anche chi ha collera grande nell’animo: questo è più saggio:
l’uomo che a loro obbedisce, l’ascoltano spesso, gli dèi».
Disse e sull’elsa d’argento trattenne la grave sua mano
e la gran spada respinse nel fodero, né fu restio
alla parola d’Atena; ma ella era ascesa all’Olimpo,
fra gli altri numi, alle case di Zeus che dell’egida è cinto.

Nell'indecisione, quindi, Omero ci narra di come Achille sentì un tocco dietro di sé e vide apparire la dea "dagli occhi fiammeggianti", mandata da Era, che gli intimò di ragionare e di frenare la mano perché in questo modo in seguito avrebbe ottenuto tre volte la soddisfazione al torto subito. E Achille si fermò. Quello che inorridì Atena di fronte all'orrido pasto di Tideo è la stessa cosa che frenò Achille: la capacità di ragionare e di non muoversi come degli sprovveduti. Ed è questo che lei insegna e che l'ha resa la dea che diede il nome alla capitale Atene. Come ci dice Walter Otto ne Gli Dei della Grecia: Ella non è solo l'ammonitrice, ma è la decisione medesima vera e propria, e precisamente la ragione che decide sulla mera passione.
Atena, quindi, principalmente era, secondo alcuni, una dea madre lunare e, come abbiamo visto, Graves la collega alla triade, rappresentante sia la vergine che la saggia. Ma in qualche modo lei accomuna tutti e tre gli aspetti: è infatti anche madre, di Erittonio, che ha educato e di cui si è presa cura, anche se solo in seguito e anche se rifiutandolo per principio, ma anche di tutti gli eroi che ha favorito. Al contrario di Artemide ed Apollo, che vivono un distacco violento con gli umani, mantenendosi sollevati sopra il mondo, lei onora le gesta eroiche purché condotte dal senno. E questo concetto della ragione è quello che i greci onoravano a discapito, appunto, della dissennatezza emotiva di Ares. In battaglia era Atena che veniva convocata, non il dio della guerra. E la dea veniva appunto accompagnata da
Nike, la dea della vittoria, che alata, spiccava il volo dalla sua mano. Al contrario Ares veniva accompagnato da Deimos e Phobos, la paura e il terrore. Il confronto con Apollo, Artemide ed Ermes ci fa notare come tutti siano figli intellettuali. Le due figlie sono vergini, mentre i due figli mantengono un distacco e una lontananza sovrane. Ma al contrario di Apollo, che cerca la perfezione e ne incarna la lontananza,
Atena è vicina ai mortali, come Ermes, che li accompagna, li aiuta. Tuttavia, nonostante sia Atena che Apollo predichino la moderazione, nell'Iliade, anche se deriso da Artemide che lo taccia di codardia, il dio del sole non scende in campo per combattere per i mortali, nemmeno se questi sono legati a lui, mentre Atena sì. Lei onora le gesta eroiche e non si tira indietro di fronte al dovere di un combattente, purché non agisca in modo sconsiderato.
Sia Erodoto che Platone, nel Timeo, durante i loro viaggi giunsero nella città di Sais, sul delta occidentale del Nilo, in Egitto, dove si adorava una divinità che portava il nome di Neith.
Questa divinità ha una storia molto contorta che attraversa i secoli, ma quello che spinse i due filosofi ad accomunarla con Atena fu in primis il suo nome, che significa per l'appunto "tessitrice", ma che, secondo alcune diverse traduzioni può diventare anche "acqua". Infatti veniva scritto "Ntt", che era usato per riferirsi a "coloro che cuciono", ma a volte era trovato scritto "Nt", che invece significa appunto solo "acqua". Questo scarto pose Neith, nel corso delle diverse dinastie, in modi diversi. Secondo la cosmologia di Esna (in antichità Iunyn), una città a circa cinquanta chilometri a sud di Luxor che ospitava una necropoli importantissima per il culto egizio, Neith era creatrice del mondo, che intessé con il suo telaio. Questo probabilmente la collegò anche al concetto acquatico di cui portava il nome, dato che gli egizi ritenevano che il Nilo fosse l'origine del mondo, e che la rese madre divina, pertanto anche madre del dio solare Ra, che fiorì sul mare del caos. In realtà in tempi antichi Neith era ritenuta una divinità guerriera e cacciatrice. Ed infatti sul suo capo era rappresentato uno scudo con due frecce incrociate, mentre nelle mani teneva il bastone uadj, simbolo del suo potere. Più tardi la si poteva trovare con in capo la Corona Rossa del Basso Egitto. Era anche una divinità legata ai mestieri e alle arti domestiche oltre che alla santità del matrimonio, al punto che le regine egiziane, una volta sposatesi con il Faraone, usavano il suo nome teoforo unito al loro. Le sue sacerdotesse, che avevano fatto voto di castità e verginità, annualmente affrontavano una lotta volta a conquistare il titolo di Grande Sacerdotessa della dea.
Il suo legame con la guerra, unita al suo ruolo come tessitrice, rese Neith una divinità della morte, dato che si riteneva fosse suo compito cucire le bende con cui i guerrieri morti venivano avvolti nel processo di mummificazione. Ma, proprio come Atena, era anche una dea ritenuta giusta, dato che quando tra le divinità scoppiava una disputa impossibile da risolvere pacificamente si invocava l'aiuto di Neith perché giudicasse in modo equo, come avvenne quando decretò che il ruolo di sovrano dell'Alto e Basso Egitto fosse riservato ad Horus invece che a Set, al quale di contro concesse di avere due mogli straniere: Anat e Astarte.
Ma c'è una divinità che più di altre, in Egitto, è possibile associare ad Atena e questa è Maat, la dea della giustizia. Il suo nome, che originalmente andrebbe scritto Ma'at, ha un significato chiaro, anche se ci sono molti modi in cui ci è possibile interpretarlo. Prima di essere umanizzata e quindi trovare una personificazione antropomorfa, questa dea era più vicina al un concetto astratto che rappresentava il maniacale senso di moralità e di giustizia che contraddistingueva gli egizi. Secondo il punto di vista di questo popolo, infatti, tutto l'universo si basava su un fragile equilibrio; essi sostenevano che ogni essere umano, per quanto apparentemente insignificante, avesse un ruolo determinante nella sua preservazione. Per non permettere alle forze del caos sempre in agguato di sbilanciare e alterare questa armonia perfetta, ma anzi, per favorirla e difenderla, era determinante mantenere un comportamento retto e moralmente corretto. Maat non solo era la suprema e saggia guardiana di questo equilibrio universale, ma era anche l'emanazione stessa della perfetta armonia dell'ordine e della perfezione che si manifestava con eventi ciclici sempre uguali che potevano essere contemplati dagli egizi, e la cui eventuale assenza o alterazione segnava periodi terribilmente infausti, come le esondazioni del Nilo che rilasciavano il fertile limo che rendeva fecondi i campi, il movimento celeste, la migrazione degli uccelli ed il loro ritorno e anche lo stesso sorgere e tramontare del carro solare di Ra. Tutto ciò era Maat. Favorire lo sbilanciamento di queste energie eterne era una colpa terribile che doveva essere punita severamente. E se c'è una cosa per cui gli egizi, nel corso dei tempi, sono stati al di sopra di tutti gli altri, era la machiavellica capacità di escogitare punizioni esemplari e maledizioni millenarie che colpivano generazioni dopo generazioni, come ci fa notare anche Dion Fortune nel suo Difendersi dagli Influssi Negativi riguardo alla maledizione del Faraone Tutankhamon.
Maat presiedeva anche al tribunale di questa moralità nel momento del trapasso dei defunti, assieme con Osiride. Il suo ruolo, splendente e superbo, era quello di essere la piuma di struzzo (animale a lei sacro) che, posata sul piatto della bilancia, si sarebbe contrapposta al peso del cuore del giudicato mentre elencava le sue abnegazioni dei quarantadue consigli di Maat.
Come ci fa notare Sarah degli Spiriti nel suo sito a lei dedicato La Legge di Maat: in questi 42 consigli (ispirati alle 42 confessioni negative del Libro dei Morti egizio), spesso anche solo metaforici, secondo il Kemetismo contemporaneo, sarebbe da ricercare la legge universale di Maat, l’antica Dea Egizia che rappresenta l’ordine cosmico; delle “leggi” che in effetti ricordano i 10 comandamenti di Mosè, poi passati nel Cristianesimo (è possibile, quindi, che questi ultimi si siano ispirati alle “leggi” egizie che permettevano all’uomo di vivere in armonia con il mondo e la società).
I Comandamenti che conosciamo sono quelli dettati da Mosé sul monte Sinai e riportati in due versioni nei libri del Pentateuco: Esodo e Deuteronomio. Anche se la punteggiatura e i paragrafi in versetti non erano considerati e quindi il loro numero non era ben distinto come invece avvenne nella tradizione cattolica, in origine ebraica i comandamenti erano circa sedici. I 42 Principi di Maat furono scritti almeno duemila anni prima e sono una delle più antiche istruzioni morali e spirituali dell'umanità e appaiono in quello che è noto come il Libro dei Morti, gli Insegnamenti di Ptah-Hotep, Gli Scritti di Ani e altri nomi.
Il problema della letteratura funebre è da sempre la sua decodificazione e interpretazione. Nel capitolo 125 appaiono appunto queste 42 Dichiarazioni di Purezza nella Confessione Abnegativa legate al codice etico di Maat. Ma queste dichiarazioni, copiate nei muri delle tombe e sui sarcofagi, variano per motivazioni di diverso tipo e per questo motivo non possono mai essere ritenute una definizione canonica della stessa Maat, proprio perché subiscono l'inflessione del concetto che risvegliava nell'individualità dell'autore e funzionavano infine come un rito magico di assoluzione. Ciò che il defunto che era sepolto aveva fatto o non fatto poteva quindi essere dichiarato e, mediante il potere della parola scritta, si influenzava il destino dell'anima durante il giudizio che sarebbe avvenuto nell'aldilà.
Nonostante le differenze sostanziali tra le diverse tombe, si è scoperto che molte di queste righe erano uguali; questo ci concede quindi di ricostruire una mappa degli insegnamenti morali di questa divinità. Quelle che riporto sono tratte dal Libro dei Morti egizio:

"La confessione negativa!
"
Salve, dio grande, Signore della Verità-Giustizia,
Dio possente! Eccomi giunto a te dinanzi!
Lasciami dunque contemplare la tua radiosa bellezza!
Io conosco il tuo magico Nome e quello delle quarantadue divinità
che, nella vasta Sala della Verità-Giustizia, ti circondano
nel giorno nel quale si rende conto dei propri peccati, dinanzi a Osiride;
il sangue dei peccatori serve loro quale nutrimento (...)
Ecco io conservo nel mio Cuore la Verità e la Giustizia,
in quanto vi ho estirpato tutto ciò che è Male.
Io non ho inferto sofferenze agli uomini.
Io non ho usato violenza ai miei consanguinei.
Io non ho sostituito l'Ingiustizia alla Giustizia.
Io non ho frequentato i malvagi.
Io non ho commesso dei crimini.
Io non ho imposto, per mio vantaggio, eccessivo lavoro.
Io non ho intrigato per soddisfare una smodata ambizione.
Io non ho maltrattato i miei servi.
Io non ho bestemmiato il Nome degli dei.
Io non ho privato l'indigente della sua sostanza.
Io non ho commesso atti esecrati dagli dei.
Io non ho permesso che un servo fosse maltrattato da un suo superiore.
Io non ho fatto soffrire il mio prossimo.
Io non ho provocato delle carestie.
Io non sono stato cagione di pianto per gli uomini, che sono miei simili.
Io non ho ucciso nè provocato omicidi.
Io non ho provocato delle malattie fra gli uomini.
Io non ho manomesso le offerte dei templi.
Io non ho rubato i pani degli dei.
Io non ho manomesse le offerte destinate agli Spiriti santificati.
Io non ho mai commesso azioni riprovevoli, nelle cinte consacrate dei templi.
Io non ho arbitrariamente diminuite le razioni delle offerte.
Io non ho tentato di accrescere, mediante mezzi illeciti, i miei beni terreni; nè usurpato campi che non mi appartenevano.
Io non ho falsato i pesi della bilancia, nè spostato il suo ago.
Io non ho tolto il latte dalle labbra al fanciullo.
Io non mi sono mai impadronito del bestiame altrui, mentre pascolava nelle praterie.
Io non ho mai teso le reti a volatili destinati agli dei.
Io non mai pescato dei pesci con cadaveri di altri pesci.
Io non ho mai ostruito le acque correnti ed i canali, quando era necessario il loro regolare flusso.
Io non ho mai aperto le dighe poste alle acque correnti.
Io non ho mai estinta la fiamma del Fuoco, quando era necessario che ardesse.
Io non ho violato le regole poste sulle offerte della carne.
Io non mi sono mai impossessato del bestiame appartenente al tempio degli dei.
Io non ho mai frapposto ostacoli al manifestarsi di un dio.
Io sono puro! Io sono puro! Io sono puro! Io sono puro!

Quando il defunto si trovava dinanzi alla bilancia, nella grande Sala di Maat, la piuma che la rappresentava veniva posta su uno dei piatti dinanzi ad Osiride e ogni volta che l'anima in attesa di giungere al Duat faceva una delle dichiarazioni sopra elencate, il suo cuore veniva poggiato sull'altro piatto della bilancia e pesato al confronto della piuma. Ritenendo che le cattive azioni appesantissero l’anima che si riteneva avesse sede proprio nel cuore, se alla fine del rito questo fosse rimasto leggero quanto la piuma, allora il defunto risultava puro dinanzi a Maat gli era concesso di andare nel sacro regno di Osiride e ottenere così la vita eterna; se fosse stato altrimenti, il suo cuore veniva gettato nelle fauci spalancate del dio Ammit dalla testa di coccodrillo.
Maat veniva invocata per difendere i deboli e i poveri e per portare giustizia o punizione nelle situazioni in cui si riteneva di aver subito un torto. Per quanto gli egizi possedessero un fortissimo senso di moralità e giustizia, sapevano bene di come fosse impossibile essere perfetti, ma solo equilibrati: l'insegnamento di Maat trascendeva quindi le specifiche regole etiche ma si focalizzava invece sull'ordine naturale delle cose; il compito di chiunque era cercare di non compiere azioni che favorissero il caos o che fossero chiaramente contro la dea e che magari potessero avere effetti negativi sul mondo stesso in cui vivevano.
Per conoscere ed essere pronti a giudicare le azioni è necessario avere una conoscenza e una saggezza determinante e un senso di equilibrio e giustizia sovrani. Quando Atena riprese aspramente Zeus per essere fuggito innanzi a Tifone, lei non rimase sottomessa al padre, ma proprio rispettandolo lo richiamava all'ordine, sostenendo che il suo ruolo fosse quello di difendere i mortali dalle minacce. E lo stesso senso di giustizia le impose di intromettersi nel rapimento di Kore da parte di Ade quando, insieme ad Afrodite e Artemide, accompagnò la giovane sul monte Enna su ordine di Zeus stesso. Claudiano ci narra nel poema Il Ratto di Proserpina che quando la terra si spalancò e ne uscì il dio degli inferi, le due dee si intromisero: Già Pallade scopre il volto della Gorgone, la Delia rapida dirige la freccia, e allo zio si oppongono: le spinge alle armi la comune verginità e le esaspera l’offesa spietata del rapimento. Egli è come un leone che afferra una giovenca, vanto della stalla e della mandria, e ne trae con gli artigli le viscere e sulle spalle, sui fianchi sfoga la ferocia; si erge bruttato di denso sangue, scuote i ricci della criniera e sprezza la vile ira dei pastori. «Tiranno di una torpida gente, pessimo tra i fratelli - esclama Pallade - quali Eumenidi con aculei e empie fiaccole t’hanno aizzato? Perché abbandoni il tuo regno e osi violare il cielo con l’infera quadriga? Hai le deformi Dire, hai le altre divinità del Lete, e le lugubri Furie, degne delle tue nozze! Vattene dalla casa del fratello, lascia l’altrui retaggio, parti contento del tuo buio! Perché confondi la vita con i sepolcri? Perché straniero calpesti il nostro mondo?» Così gridando, percuote col truce brocchiere i cavalli frementi di slancio, li trattiene con il rotondo ostacolo da cui, fischiano le gorgonie idre, e con le protese creste li incalza. Al colpo si libra la lancia e fronteggiandolo illumina l’oscuro cocchio; e l’avrebbe percosso, se Giove dall’alto etere non avesse vibrato il pacifico volo di una rossa saetta, riconoscendosi suocero. Tra nubi squarciate echeggia l’inno imeneo e le fiamme attestano il connubio. Deluse si ritraggono le Dee. Piangendo depone l’arco la figlia di Latona e disse queste parole: «Ricordati di noi, addio! La soggezione al Padre ci ha impedito il soccorso, né possiamo difenderti contro di lui! Siamo vinte, sì, da un decreto più forte! A tuo danno cospira il genitore e al popolo silenzioso sei affidata, né rivedrai le sorelle che ti desiderano, né il coetaneo coro! Quale sorte ti ha strappato all’alto e contrista il cielo di tanta afflizione? Ora non mi piace più cingere di reti le tane del Partenio, né portare la faretra: audace sbavi dove vuole, il cinghiale, senza rischio urli il feroce leone! Finite le cacce, le cime del Taigeto, il Menalo per te gemeranno, e a lungo sarai pianta dal Cinto desolato! Anzi, tacerà perfino il delfico santuario di Apollo!». Sapendo infine che Zeus stesso aveva interceduto a questo evento, quindi, Atena si ritrasse, assieme con Artemide, perché rispettava le leggi del mondo e dell'Olimpo, ma se così non fosse stato, non si sarebbe fermata nemmeno di fronte ad Ade per impedire che venisse perpetrato un crimine. Il suo senso di moralità e giustizia era troppo forte per rimanere in disparte.
Come abbiamo detto, Atena potrebbe essere considerata un uomo mancato, ma in realtà è una donna proprio perché incarna un senso di giustizia e ferrea moralità che solo una donna può condurre senza mai scivolare. I greci, che sapevano riconoscere questa capacità la resero vergine e indipendente, e gli amori che potrebbe aver avuto nei diversi miti erano tutti di origine intellettuale e platonica: Odisseo e Diomede, ad esempio. Atena ha così la possibilità di simboleggiare la perfezione del presente vitale e non il distacco di irraggiungibili ed irrealizzabili ideali, come potrebbe ad esempio rappresentare Apollo. Ella non cerca il momento trionfale, lei è di fatto il momento trionfale; non si perde quindi nelle chiacchiere di un presunto potere aggiunto, ma lo vive in prima persona, pur mantenendo intatta la virtù e il significato, oltre che il risultato, delle sue scelte. Lei è, come la definisce Walter Otto, la divina chiarità dell'azione ben ponderata, l'esser pronti a tutto ciò che richiede forza immane e inesorabilità, il fresco, perenne desiderio di vittoria. Un uomo può scegliere di essere mentale o fisico, ma comunque rimanere ancorato agli istinti e le passioni o all'intellettualità e il distacco, e magari oscillare in una delle due cose, ma subendo comunque una preponderanza dell'una o dell'altra e vivere dell'idealità del non creare per immaginare o della distruzione fine alla creazione per realizzare. Una donna, come Atena ci mostra, può invece essere invincibile su fronti differenti e può essere madre anche senza aver mai copulato, perché in lei l'istinto non è legato al fisico, bensì al mentale, rimanendo comunque un istinto; è capace di mantenere saldi i propri principi di fedeltà e lealtà ad un'idea o un punto di vista sapendo combattere per esso fino alla morte, senza mai cedere a nessuna tentazione e mantenere comunque un bilanciamento interiore saldo, senza dubbi e cercando sempre di sapere ciò che è giusto.
Forse gli achei, che hanno reso questa divinità figlia di partenogenesi paterna, ignoravano tutto questo. Forse l'hanno vestita da guerriera e fatta uscire dal cranio di un dio con un urlo di battaglia per colmare il vuoto che un culto di una madre guerriera non più esistente aveva lasciato. Ma una cosa è certa, da Minerva come dea italica ad Atena greca stessa e Maat e Neith e Astrea, il concetto non cambia: a mantenere un equilibrio tra l'istinto e la ragione c'è sempre una dea madre.