The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Crono il Saggio

Crono il Saggio
 

Chi è il Saggio? Egli è colui che si è elevato nella sua conoscenza. Egli ha potuto vedere il principio del tempo e rimanere al di sopra dello stesso. Il Saggio sa sempre cosa è giusto fare, anche se questo non sempre viene compreso in un contesto lineare, singolare e soprattutto soggettivo. Soprattutto in riferimento al fatto che sia piacevole sia dare che ricevere risposte e poi e doverle applicare. Non sempre il comportamento del Saggio può essere accettato, come non possiamo sempre condividere e comprendere, quando siamo bambini, il perché gli adulti si comportano in un certo modo.

Nel mito greco, questo ruolo spetta per diritto a Crono, il cui nome stesso significa "Tempo", che nel mito romano prese nome di Saturno.

Crono era l'ultimo figlio della generazione di Urano e di Gea, i supremi genitori: Cielo e Terra, e fratello di altre undici divinità titanidi: Oceano, Iperione, Temi, Mnemosine, Febe, Teti, Rhea, Giapeto, Teia, Crio e Ceo, oltre che dei tre Ecatonchiri Centimani Cotto, Briareo e Gige e i tre ciclopi Bronte, Sterope e Arge.

Sul regno di Urano, loro padre, aleggiava una profezia funesta, rilasciata dalla stessa Gea: quando sarebbe giunto il momento, il sangue del suo sangue lo avrebbe deposto e detronizzato. Il terrore che questo potesse privarlo del regno celeste spinse il dio del cielo ad esiliare tutti i suoi figli nel ventre stesso della madre, in un luogo recondito e profondo, lontano dalla superficie: il Tartaro. Secondo il mito si diceva che un'incudine lasciata precipitare al suo interno impiegasse nove giorni per raggiungerne il fondo. Distrutta dal dolore nel vederli imprigionati e impotente dinanzi alle violenze del marito, che la costringeva a continui amplessi, Gea si rivolse ai figli stessi chiedendo chi di loro fosse disposto ad uccidere il padre per liberarla da questo giogo che li costringeva nel suo ventre.

Solo Crono si offrì e, armato di una falce dentellata, mentre il padre stava copulando con la dea della terra, gli afferrò i genitali con la mano sinistra (che da quel momento divenne la mano delle maledizioni) e lo evirò con la destra, gettando il tutto nel mare presso Capo Drepano, dove il pene, ancora eiaculando, generò dalla spuma del mare la dea dell'amore Afrodite. Dal sangue che cadde sulla terra dalla ferita di Urano, Gea, fecondata, generò le ninfe del Frassino Melie e le tre Erinni: Aletto, Megera e Tisifone, che in seguito divennero gli spiriti della vendetta al servizio di Ade.

Privando il genitore del potere procreativo, Crono assurse al ruolo del potere supremo, realizzando così la profezia e il più grande timore del padre Urano. Dopodiché, preso il potere, il dio del tempo liberò i fratelli titani, ma lasciò imprigionati i Ciclopi e gli Ecatonchiri. Secondo Esiodo agiì così perché erano di origine mostruosa, mentre secondo altri perché non si fidava della loro lealtà nei suoi confronti.

Iniziò in questo modo il regno dei Titani, sui cui regnava Crono, il quale prese in moglie la sorella Rhea, che assunse a tutti gli effetti gli aspetti della terra, e da lei ebbe sei figli, tre femmine e tre maschi, ossia la prima generazione olimpica: Estia, Demetra, Hera, Ade, Poseidone e Zeus. Ma la madre Gea, signora della profezia, assieme al morente Urano profetizzarono al neo sovrano che, così come avvenne a suo tempo, lui stesso sarebbe stato spodestato da uno dei suoi figli.

Vincolato pertanto dal terrore di fare la fine del padre, Crono divorò cinque dei sei figli che ebbe da Rhea. A cominciare da Estia, Era, Demetra, Ade e Poseidone. Solo Zeus, il più giovane, venne nascosto alla sua vista dalla stessa madre, che gli diede invece da mangiare una pietra su consiglio di Gea e poi lo affidò alle cure delle ninfe del monte Ida e la capra Amaltea, come abbiamo visto nell'articolo a lui dedicato.

A quello che ci appare finora, Crono era un dio violento e vendicativo. Dopo aver mangiato la foglia nei riguardi del piano per sventare il suo orrido pasto con il figlio più giovane, si mise alla sua ricerca in ogni dove, dato che suo era il dominio della terra, dell'aria e del mare. E fu proprio uno stratagemma ad impedire che trovasse il piccolo Zeus: la sua culla venne appesa ad un albero, così che non fosse né a terra né in aria né nel mare mentre i guerrieri Cureti, leali a Gea, danzavano battendo le spade sugli scudi per eclissare le urla e i pianti del neonato.

Quando Zeus fu abbastanza grande da affrontarlo, su suggerimento di Temi, sorella di suo padre, chiese a Rhea di divenire coppiere reale e, in incognito, mise delle erbe emetiche nella coppa di vino destinata al Signore dei Titani, costringendolo così a vomitare i fratelli. Lo stratagemma ebbe successo e Crono rigurgitò prima la pietra che aveva ingoiato credendola lo stesso Zeus, poi Poseidone, Ade, Hera, Demetra ed infine Estia, i quali immediatamente chiesero a Zeus di guidarli nella guerra contro il padre.

Questo evento, secondo quanto ci raccontano Esiodo ed Omero, segnò lo scoppio della guerra nota come Titanomachia, che vide coinvolti quasi tutti i titani maschi contro i tre fratelli, dato che le sorelle non combatterono. Solo quattro titani presero le parti di Zeus e rimasero al di fuori della battaglia: Elio, Oceano, Prometeo ed Epimeteo. Gli altri, capitanati da Atlante, dato che secondo Esiodo Crono cominciava ad invecchiare, combatterono ferocemente sul monte Othrys per dieci lunghi anni. Dopo questo periodo la guerra era ad uno stallo e fu solo grazie al suggerimento di Gea che si giunse infine ad uno sbilanciamento. Ella suggerì a Zeus di liberare i Ciclopi e gli Ecatonchiri prigionieri del Tartaro per averli come alleati: solo così avrebbe ottenuto la vittoria.

I tre fratelli fecero come fu loro consigliato e, liberati i Ciclopi, dopo averli rinforzati con ambrosia e nettare, ricevettero in dono da loro tre oggetti di grande potere che valsero la fine della guerra: l'elmo dell'invisibilità che fu destinato ad Ade, il tridente di Poseidone e l'invincibile folgore di Zeus che lui solo poteva maneggiare. Grazie a questi potenti artefatti Ade si introdusse di nascosto nelle camere del padre e lo privò delle armi e mentre Poseidone lo minacciava col tridente, Zeus lo folgorò.

A quel punto fu fatta giustizia e Crono, secondo la Teogonia, venne imprigionato e incatenato nel Tartaro assieme agli altri titani che si erano opposti a Zeus, cintati da mura di bronzo costruite da Poseidone e tenuti sotto costante sorveglianza dai tre Ecatonchiri. Solo ad Atlante fu riservata una punizione esemplare. Lui che li guidava fu costretto a mantenere per sempre il peso del mondo sulle proprie spalle. Alle titanesse e ad Oceano, Elio, Prometeo ed Epimeteo, dato che non avevano partecipato alla guerra comprendendo che il regno spettava a Zeus, venne consentito di restare.

Crono, come ci dice il suo stesso nome greco chrуnos, era il signore del Tempo; la condizione, ad umano avviso, priva di alcuna discontinuità. Il suo ruolo è infatti quello di essere il cerchio che tiene uniti e separati gli eventi che hanno formato il mondo stesso, perché lui è il principio e la fine di tutto. In ogni sua rappresentazione viene visto con le ali, la falce e la clessidra a rappresentare il suo potere temporale. A discapito però di come ci viene rappresentato da Omero nell'Iliade e da Esiodo nella Teogonia, nelle Opere e i Giorni di quest'ultimo viene invece citato come il Saggio e si parla di un'età aurea sul quale Crono regnava in modo giusto.

"Prima una stirpe aurea di uomini mortali

fecero gli immortali che hanno le Olimpie dimore.

Erano ai tempi di Kronos, quand'egli regnava nel cielo; 

come dèi vivevano, senza affanni nel cuore,  

lungi e al riparo da pene e miseria, né triste

vecchiaia arrivava, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia,

nei conviti gioivano, lontano da tutti i malanni; 

morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni 

c'era per loro; il suo frutto dava la fertile terra 

senza lavoro, ricco ed abbondante, e loro, contenti,

in pace, si spartivano i frutti del loro lavoro in mezzo a beni infiniti,

ricchi d'armenti, cari agli dèi beati."


Secondo questa versione del mito, di origine orfica, dopo aver regnato sull'umanità in questo periodo noto come Età dell'Oro, Crono lasciò il posto a Zeus per legittimità, divenendo il sovrano di un mondo al di là delle terre abitate dagli uomini: le famose Isole Beate. E pare, secondo alcuni miti, che fu lo stesso Padre degli Dei ad onorare comunque il genitore sconfitto, concedendogli di regnare in queste isole ai confini del mondo conosciuto, o secondo altri condotto a Tule e sprofondato in un magico sonno. Crono si riconciliò quindi con Zeus prima di dimorare nelle Isole Beate. Fu proprio questa tradizione a portare al concetto di Re Saggio del Cielo e della Terra e alle leggende sull'Età Aurea, dove si riteneva che in tempi remoti egli regnasse ad Olimpia in un mondo privo di violenza e dove solo felicità, pace e abbondanza scorressero come oro nella vita di chiunque. E si vociferava che il suo regno si estendesse dall'Africa alla Sicilia e su tutto il Mediterraneo e che solo quando gli uomini scoprirono la malvagità, il possesso, la crudeltà che portarno alle diverse età del bronzo e del ferro, allora egli assurse al cielo, lasciando la terra nelle mani delle altre divinità.

In un divertente dialogo di Luciano di Samosata noto come I Saturnali, l'autore immagina un possibile scambio tra un sacerdote di Saturno e il suo dio. In questo dialogo, scevro da falsità, Luciano riesce a mettere a nudo non solo l'aspetto delle feste stesse dedicate al dio dell'Età dell'Oro, ma la saggezza e la bontà di questo dio, togliendogli il manto di oscuro signore divoratore dei suoi figli.

Il Sacerdote. "O Saturno, che oggi sembri essere tu signore, ed a te si fa sacrifizi e preghiere da noi, nella tua festa che cosa io potrei dimandare ed avere da te?"

Saturno. "Devi tu pensare ciò che più desideri, e dirmelo; se pure non credi che io abbia signoria e profezia, e sappia ciò che meglio ti piace. Chiedimi, e se posso, non dirotti no".

Il Sacerdote. "Ci ho pensato tanto! Ti dirò le cose che tutti desiderano, e a te è facile il darle, ricchezze ed oro assai, comandare a molti uomini, posseder molti servi, vestimenta ricamate e fine, argento, avorio, ed altre cose preziose. Deh, dammene qualcuna di queste, o possente Saturno, affinchè anch'io goda un po' della tua signoria: io solo non dovrò avere mai briciola di
bene per tutta la vita?"

Saturno. "Vedi? m'hai dimandato ciò che non è in poter mio: chè non le distribuisco io queste cose: però non ti crucciare se non le avrai: chiedile a Giove quand'ei ritornerà signore tra poco. I' prendo la signoria con certi patti, io; non più che per sette giorni, dopo i quali subito ritorno privato e come uno del popolo. E in questi sette giorni io non debbo impacciarmi di faccende gravi o pubbliche; ma solamente bere, imbriacare, gridare, scherzare, giucare a dadi, fare al tocco, fare sguazzare i servi, canterellare ad aria, applaudire pencolando, essere talvolta tuffato col capo giù nell'acqua fredda, aver la faccia inzavardata di fuliggine, questo mi è permesso di fare: quelle cose grandi, come le ricchezze e l'oro, le dà Giove a chi gli piace".

Il Sacerdote. "Ma egli, o Saturno mio, non è né facile né alla mano. Io mi sono stanco a pregarlo, e sprecar tanto fiato. Ei fa sempre il sordo, e squassando l'egida, brandendo la folgore, e volgendo una guardatura in torto spaurisce chi vorria chiederli. E se talvolta si piega a qualcuno e l'arricchisce, lo fa senza giudizio, e proprio per istrazio: ché spesso lascia secchi gli uomini dabbene e sennati, e piove ricchezze su i ribaldi, gli stolti, i bagascioni, la gente da forca, ed altra canaglia. Ma le cose che puoi dare tu, vorrei saper quali sono". 

Saturno. "Eh, non sono piccole né spregevoli le cose che posso fare io nel mio regno. Ti pare piccola cosa vincer sempre ai dadi, e nel trarli far sempre asso gli altri, e sei tu? Così si sono straricchiti molti, ai quali il dado andava sempre a favore: ed altri per contrario sono usciti nudi di questo pelago, avendo rotta la barca a sì piccolo scoglio che è il dado. E poi il bere a piacer tuo, il passare pel più bravo cantatore in un banchetto, il farsi servire dagli altri e comandare che sieno tuffati nell'acqua in pena della loro goffaggine nel servirti, l'essere gridato vincitore, e coronato d'una salsiccia, non è egli un piacer grande? E di più, divenir re di tutti per aver vinto agli aliossi, non esser trastullo de' capricci altrui, ma poterti scapricciare e comandare a
bacchetta: Ehi, di' tu, che tu sei un asino: tu spogliati nudo e balla: tu afferrati in collo una zufolatrice, e fa tre giri intorno la stanza; non sono queste pruove della magnificenza mia? Se ti spiace che questo regno non è né vero né durevole, tu sei uno sciocco, perché non vedi che io, che lo dò, serbo il mio per poco tempo. Queste adunque sono le cose che io posso dare; giucare,
vincere, cantare, ed altro che t'ho detto; dimandami liberamente di queste, ché io non ti spaurisco con l'egida e con la folgore".
Il Sacerdote. "O il più buono dei Titani, di queste io non ho bisogno, ma almeno chiariscimi d'una cosa che specialmente desideravo di sapere: e se me la dirai, m'avrai ben compensato dei sacrifizi che t'ho fatti, e ti assolverò d'ogni altro debito".

Saturno. "Di' pure: ti risponderò, se è cosa che conosco".

Il Sacerdote. "Primieramente, è vero ciò che dicono di te, che tu divoravi i figliuoli avuti da Rea, e che ella, sottratto Giove, e posta una pietra invece del fanciullo, te la diede a mangiare: e che esso poi cresciuto in età ti tolse la signoria, ed avendoti vinto in una battaglia, ti cacciò nel Tartaro, ivi ti incatenò, e con te tutti quelli che tennero dalla tua?"

Saturno. "Ehi tu, se oggi non fosse festa, e lecito d'imbriacarsi, e dire ogn'ingiuria ai padroni, sapresti che posso ancora non farmela passare la mosca pel naso, io: farmi questa sorte di dimande, senza aver rispetto a un dio così canuto e vecchio!"

Il Sacerdote. "Io questo, o Saturno, non lo dico io, ma Esiodo ed Omero; e m'incresce dirti che quasi tutti gli uomini lo tengono per vero".

Saturno. "E credi tu che quel pecoraio chiacchierone sapesse il vero dei fatti miei? Pensaci un po'. Ci può esser mai un uomo (non dico un Dio) che voglia mangiarsi i figliuoli, se pur non sia un Tieste, che li mangi per inganno dell'empio fratello? Ma sia pure: come non sentir sotto i denti che è pietra e non carne? Non c'è stata mai guerra; non mai Giove mi ha tolto il regno per forza, ma gliel'ho ceduto io da me, e mi son ritirato. Quali catene, qual Tartaro? io son qui; e tu mi vedi, se non sei cieco come Omero".

Il Sacerdote. "E per qual cagione, o Saturno, lasciasti il regno?"

Saturno. "Ti dirò. In prima essendo vecchio e perduto di podagra (e questo ha fatto credere al volgo che io ero incatenato) io non potevo bastare a contenere la gran malvagità che ci è ora: quel dover sempre correre su e giù, e brandire il fulmine, e sfolgorare gli spergiuri i sacrileghi i violenti, era una fatica grande e da giovane: onde con tutto il mio piacere la lasciai a Giove. Ed ancora mi parve bene di dividere il regno tra i miei figliuoli, ed io godermela zitto e quieto, senza aver rotto il capo da quelli che pregano e che spesso dimandano cose contrarie, senza dover mandare i tuoni, i lampi, e talora i rovesci di grandine. E così da vecchio meno una vita tranquilla, fo buona cera, bevo del nettare più schietto, e mi fo un poco di conversazioncella con Giapeto e con gli altri dell'età mia: ed egli si ha il regno e le mille faccende. Se non che m'ho voluto riservare questi pochi giorni, alle condizioni che t'ho dette, e ripiglio il regno per ricordare agli uomini la vita che menavano al tempo mio, quando senza seminare e senza arare, la terra produceva tutt'i beni, non spighe ma pane bello e fatto, e le carni già cotte, e il vino correva a fiumi, e c'eran le polle di mele e di latte. Tutti erano buoni, tutti uomini d'oro. Questa è la ragione della breve durata del mio regno, e però ogni parte è pieno di schiamazzi, di canti, di scherzi, e non c'è alcuna distinzione di servi e di liberi; ché al tempo mio nessuno era servo".

Il Sacerdote. "Eppure, o Saturno, io credevo che tu avessi tanta pietà dei servi e degl'incatenati per quella tale voce, per consolare quelli che patiscono come te, che già fosti servo e ti ricordi della catena".

Saturno. "E non la finisci con queste stoltezze?"

Il Sacerdote. "Hai ragione: la finisco. Ma dimmi un'altra coserella. Al tempo tuo gli uomini usavano di giucare a dadi?"

Saturno. "Sì, ma non i talenti e le migliaia come fate voi: ma per lo più si giucava a noci; e così il perditore non s'affannava, non piangeva, non rimaneva egli solo sempre digiuno fra tutti gli altri".

Il Sacerdote. "Che brave genti! E che cosa s'avrian potuto giucare, se eran tutti d'oro? Ma le tue parole mi han fatto venire un pensiero. Se uno di quegli uomini d'oro ci vivesse oggi, poveretto lui! tutti gli darebbero addosso, ed ei sarebbe sbranato, come Penteo dalle Menadi, o Orfeo dalle donne di Tracia, o Atteone dai cani: farebbero a chi ne arraffa il pezzo più grosso, e vedresti baruffa! ché oggi neppur nelle feste si lascia l'amor del guadagno, e ci si va col pensiero di rasparvi qualcosa: e chi n'esce dopo d'avere spogliato gli amici a tavola, e chi rimane a bestemmiare senza pro, e a stritolare i dadi che non han colpa di ciò che egli s'ha fatto con le mani sue. Ma dimmi quest'altra cosa. Perché mai tu, che sei un dio sì vecchio e permaloso, t'hai scelta la stagione più spiacente, quando i campi biancheggiano per neve, spirano rovai, tutto è rappreso dal gelo, gli alberi son tronchi nudi e sfrondati, i prati senza bellezza e senza fiori, gli uomini vanno curvi come vecchi o stanno appollaiati presso al focolare, e tu allora celebri la tua festa? Non è tempo da vecchi questo, né acconcio a sollazzi".

Saturno. "Oh, tu mi fai tante dimande, e già dovremmo stare a bere. Io ho rubato alla festa un tempo non breve, filosofando di cose, non buone a nulla. Lasciamole alla malora, mettiamoci a tavola, facciamo allegria, viviamo alla libera; poi giucheremo a noci secondo l'usanza antica, faremo al tocco, obbediremo a chi sarà il re. E così faremo avverare il proverbio, che i vecchi
tornan bimbi".

Il Sacerdote. "Possa aver sete e non bere a chi non piace ciò che tu dici, o Saturno. Beviamo pure, e cionchiamo. Tu me n'hai dette anche d'avanzo: ed io penso di scrivere in un libro questo po' di conversazione, le dimande mie e le cortesi tue risposte, e farlo leggere a quegli amici che son degni di udire i tuoi discorsi".


In questo divertente scambio emerge quindi l'aspetto di giustizia ed equilibrio che caratterizza l'aspetto di Crono/Saturno e che spiegherebbe quindi anche il simbolismo stesso della clessidra. Ma c'è un simbolismo interessante che si richiama e che non è collegato solo all'aspetto temporale del dio: la falce che avrebbe usato contro il padre Urano. Come mai un dio del tempo tiene in mano una falce? Questo simbolismo è in effetti un richiamo al fatto che Crono fosse, in primis, un dio dell'agricoltura e che presiedeva quindi al tempo tempo in cui era giusto occuparsi del lavoro dei campi e quello in cui invece si poteva pensare al divertimento e all'allegria. È proprio per questo che le Cronie, nel suo culto che aveva fulcro ad Olimpia, si celebravano d'estate: era il tempo della mietitura. Questo aspetto agreste lo lega infatti anche ad una dea della terra, quale era Rhea, che è interessante notare come sia l'anagramma del nome della figlia Hera, che ne raccoglie solo alcuni aspetti: l'incapacità di opporsi al marito e il legame di fratellanza che anche lei ha con lui, il dio del cielo: Zeus.

Il concetto di re giusto e saggio e il patrocinio sull'agricoltura si riprende anche nel mito romano, dove Crono venne identificato con l'italico Saturno, anch'egli dio agreste. In questo caso mentre le Cronie si celebravano d'estate, mentre i Saturnalia in onore di Saturno erano invece celebrate in coincidenza con il Solstizio d'Inverno, quando si poneva sul Campidoglio il trono del dio, costruito da Romolo in persona.

Secondo la mitologia romana, dopo essere stato scacciato da Giove, Saturno trovò rifugio nel regno di Giano, che, mostrando una gentilezza inconsueta, acconsentì a condividere il trono con lui in cambio dell'insegnamento delle tecniche di semina e raccolta, quindi l'arte di lavorare i campi portando la popolazione ad un'aureo stato di grazia, nota, appunto, come Età dell'Oro. Si tratta quindi dell'ascesa da uno status selvaggio e privo di regole ad uno civile e ordinato. Nonostante ciò nell'Età dell'Oro non esisteva la proprietà privata e gli uomini non si combattevano per una donna, un asino, una casa, poiché tutti si consideravano fratelli e non conoscevano l'invidia, la gelosia e il possesso. Vivevano in perfetta armonia con la natura, senza regnanti, senza tasse e senza guerre. Fu grazie a lui che l'Italia prese il nome di Saturnia e in memoria di questo periodo incantato si tenevano appunto i Saturnalia, che duravano sette giorni, arrivando al culmine il 24 dicembre.

I Saturnalia avevano la caratteristica di essere un periodo in cui le regole venivano rivoltate. Per sette giorni gli schiavi si sedevano a tavola e i padroni li servivano. Veniva eletto un Rex Saturnaliorum che per questo periodo aveva i poteri supremi e poteva fare ciò che desiderava, senza regole e senza problemi di incorrere in sanzioni, punizioni o altro. Si perdeva il concetto di pudore e di morale. Le persone erano libere di essere se stesse senza giudizi. Allo scadere dei sette giorni questo princeps veniva sacrificato come espiazione di tutti i malanni e le difficoltà dell'anno passato, per non portarle nell'anno nuovo. In seguito questo ruolo venne sostituito ad un capro, che divenne il famoso capro espiatorio.

Ma perché Crono è un personaggio così controverso? Qualcuno potrebbe giustamente osservare che in fin dei conti la visione orfica dei miti è sempre diversa, basti vedere le vicende che hanno interessato Dioniso e Zeus o la differenza che corre negli Inni Orfici in confronto a quelli Omerici. Dobbiamo qui vedere chi scrisse questo mito. Esiodo era Cadmeo, ossia veniva dall'Asia Minore, e portò in Grecia il mito ittita della castrazione, di origine primariamente urrita, e che rappresentava l'evirazione del re sacro per gettarne poi i genitali in mare affinché i pesci fossero più prolifici, nonché, probabilmente ciò che le popolazioni indigene pre-ellenice dovettero subire dalle invasioni delle popolazioni dell'Africa orientale che portavano appeso al collo un falcetto con cui eviravano i nemici sconfitti, in modo da non permettere che i loro geni continuassero a preservarsi. È lecito supporre che con l'evirazione di Urano venne portato anche un mito di un dio più violento, che si scontrò e vinse un dio precedente, che decise di sua spontanea volontà di lasciare il regno ai figli quando giunse il momento, e che si siano così creati due sincretismi.

Oltre la clessidra, simbolo del tempo di cui è patrono, e la falce, simbolo del suo dominio sull'agricoltura, Crono aveva anche le ali. La visione stessa di un dio alato con una falce e la clessidra richiama chiaramente le rappresentazioni dell'angelo della morte e a quelle di Thanatos, sua personificazione stessa, che venne incatenato dal re corinzio Sisifo e sconfitto da Eracle. Questo aspetto, sommato al fatto che Crono veniva rappresentato spesso in compagnia di un corvo, mi ha fatto ricordare che Robert Graves, nel suo I Miti Greci dice: Per i Greci di epoca più tarda, Crono fu Chronos, cioè «il Padre Tempo» che avanza inesorabile con la sua falce. Egli viene dipinto spesso con un corvo al fianco, come Apollo, Asclepio, Saturno e l'antico dio britannico Bran; e cronos probabilmente significa «corvo» come il latino cornix e il greco corone. Il corvo era un uccello oracolare e si supponeva che ospitasse l'anima del re sacro dopo il suo sacrificio

In quanto uccello oracolare, troviamo il corvo legato a Bran. E guarda caso, Bran è noto anche come il Signore del Malgoverno, ossia il personaggio che si contrapponeva al Signore del Ceppo, e che nel culto britannico di Robin Hood portava un periodo di confusione, come ci fa notare Graves nel suo La Dea Bianca: "La banda di fuorilegge costituiva quindi una conventicola di tredici membri: Marian era la pulzella che presumibilmente riprendeva gli abiti femminili durante le orge di Calendimaggio, come sposa di Robin. Grazie alla sua vittoriosa opposizione al clero, Robin diventò così popolare da essere in seguito considerato il fondatore della religione di Robin Hood, di cui è difficile rinvenire le forme primitive. Tuttavia "Hood" (anche Hod o Hud) significava "ciocco", e proprio in questo ciocco, tagliato dalla sacra quercia, si credeva un tempo risiedesse Robin. Da qui l'espressione "il destriero di Robin Hood" per indicare il pidocchio del legno che scappava quando si bruciava il ciocco della festa di Yule. Secondo la superstizione popolare Robin stesso scappava su per il camino sotto le spoglie di un pettirosso e, quando la festa volgeva al termine, muoveva, come Belin, contro il suo rivale Bran o Saturno, che era stato "Lord of Misrule", "Signore del Malgoverno", nelle celebrazioni di Yule. Bran, inseguito, si nascondeva nell'edera travestito da regolo dal ciuffo, ma Robin riusciva sempre a catturarlo e ad impiccarlo."

Il simbolo di Bran erano quindi il Vischio, l'Edera e l'Agrifoglio e lui incarnava l'aspetto del re dell'anno calante, della metà oscura dell'anno, ossia quella che comincia con il Solstizio Estivo e si chiude con quello Invernale, quando muore sacrificato a se stesso. Non è quindi un caso che Saturno, nel mito romano, avesse trovato rifugio proprio nel regno di Giano. Egli era infatti il dio Bifronte, il guardiano degli ingressi, e patrocinava le due porte solstiziali, quella di Noto e quella di Borea e che si aprivano e chiudevano durante i solstizi, in coincidenza con il rafforzarsi e l'indebolirsi del calore solare.

Il termine stesso Bran in gaelico significa proprio Corvo. Egli era figlio di Llyr e fratello di Branwen, che significa Corvo Bianco e il cui mito è narrato nel Romanzo di Branwen. Interessante è notare come il culto di Bran richiami molti aspetti legati a quello del pelasgico Asclepio e che si potrebbe supporre sia stato importato dall'Egeo. Graves nella Dea Bianca ci fa notare che Asclepio, come il Corono («corvo») ucciso da Eracle, fu un re della tribù tessala dei Lapiti, che aveva come totem il corvo. Asclepio era corvo da entrambi i rami della sua famiglia: sua madre era Coronide («cornacchia»), probabilmente un epiteto della dea Atena cui questo uccello era sacro. Taziano nel suo Discorso ai Greci avanza la possibilità che Atena e Asclepio siano madre e figlio: «Dopo la decapitazione della Gorgone ... Atena e Asclepio se ne spartirono il sangue, e mentre lui se ne servì per salvare vite, lei, in virtù dello stesso sangue, divenne assassina e istigatrice di guerre».

Il padre di Asclepio era Apollo, che aveva anch'egli come animale sacro il corvo e il cui celebre santuario di Tempe si trovava in territorio lapita; a lui inoltre è attribuita la paternità di un altro Crono, re di Sicione in Sicilia. Secondo la leggenda, Asclepio, dopo una vita dedicata a guarire gli infermi, resuscitò Glauco, figlio di Sisifo di Corinto, e fu per questo incenerito da Zeus in un impeto di gelosia. Da bambino era stato salvato dal rogo in cui erano periti sua madre e il di lei amante Ischi («forza»). Anche Bran fu distrutto dal suo nemico geloso Evnissyen, compagno di Matholwch re d'Irlanda, a cui Bran aveva donato un calderone magico in grado di richiamare in vita i soldati morti; ma nella leggenda gallese è il nipote e omonimo di Bran, il ragazzo Gwern, che, subito dopo essere stato incoronato re viene scagliato nel fuoco e muore bruciato. Bran fu ferito a un tallone da un dardo avvelenato (come il minio Achille, discepolo del centauro Chirone, e come Chirone stesso) e quindi decapitato, ma la sua testa continuò a cantare e a fare profezie. Nella leggenda irlandese Asclepio figura come Midach, ucciso dopo la seconda battaglia di Moytura da suo padre Diancecht, l'Apollo risanatore, geloso dei suoi metodi di cura. Asclepio e Bran erano entrambi semidei, dedicatari di numerosi templi e patroni dell'arte della guarigione e della resurrezione. Essi si assomigliano anche nelle vicende amorose: Asclepio giacque con cinquanta fanciulle in una sola notte, Bran ebbe un'avventura simile nell'isola delle Donne, una delle cinquanta isole da lui visitate nel corso di un celebre viaggio.


Bran venne mutilato, decapitato in questo caso, e la sua testa, come abbiamo visto, continuò a elargire profezie, come si narra nel Secondo Ramo del Mabinogi. Secondo il mito venne infine sepolta sotto la Collina Bianca, dove adesso sorge la torre di Londra, popolata da corvi addomesticati che vengono trattati dai custodi con un rispetto e una reverenza che ha del superstizioso, in quanto secondo una leggenda, il destino della Corona è legato alla loro presenza su quella torre. Se disgraziatamente un giorno dovessero volare via, allora il regno cadrebbe. E a questo proposito è interessante notare appunto l'assonanza che collega il termine anglosassone crow, corvo, con crown, corona, anche se l'etimologia delle parole pare differente, come per la stessa parola italiana.

Nel secondo ramo del Mabinogi, quello dedicato ai figli di Llyr, si narra quindi delle gesta di Bran, figlio di Llyr e di Penardim e fratello di Branwen, Manawyddan e dei due fratellastri gemelli Nyssien e Evnyssien, nati da una notte in cui, per un inganno crudele, la regina Penardim giacque con il malvagio Euroswydd. Uno dei due, Nyssien, era un giovane luminoso e benvoluto e l'unico che riusciva ad avere un rapporto con Evnyssien, che, al contrario era profetizzato come portatore di sventura. Egli detestava e odiava tutti tranne il fratellastro e il suo stesso nome significava infatti "Diverso da Nyssien".

Nel mito vediamo come un giorno, sulla scogliera dell'Isola dei Potenti, sulla quale regnava Bran il Benedetto, si videro apparire tredici navi che arrivavano dall'Irlanda e su cui viaggiava il re Matholuc, che giungeva per chiedere in sposa Branwen, la sorella del re e per poter così stipulare una nuova alleanza tra i due popoli.

Nonostante fosse la prima volta che lo vedeva, la giovane rimase subito affascinata dal nuovo arrivato e, a discapito del dubbio della famiglia reale di mandarla in sposa ad un re straniero su un'altra isola, alla fine Bran accettò e i festeggiamenti si prolungarono. Purtroppo il costume prevedeva che tutti i fratelli della casta reale avessero diritto di essere coinvolti in una tale decisione, ma così non fu. Per combinazione, infatti non venne coinvolto Evnyssien, che dopo una discussione che riportava i termini del suo mancato coinvolgimento in decisioni importanti si era allontanato senza farsi vivo per alcuni giorni. Quando questi però scoprì il fatto compiuto, ancora una volta senza che fosse stato coinvolto, trucidò un guardiano di cavalli del Re d'Irlanda e mutilò e seviziò con crudeltà gli stalloni tagliando loro orecchie, code, palpebre e labbra. Questo orrendo evento scatenò l'ira del popolo e Matholuc annullò il matrimonio. La testa di Evnyssien, l'unica cosa che poteva saziare la rabbia del popolo, per costume dell'Isola non poteva essere offerta e, per amore di Branwen, Bran il Benedetto dovette offrire enormi ricchezze per ripagare il torto e tra di esse anche un calderone magico che, secondo la leggenda, era stato portato sulle coste dell'Isola del Potenti da creature non totalmente umane fuggite dall'Irlanda. Il potere del calderone era quello di riportare in vita i morti se i cadaveri fossero stati messi a cuocere al suo interno. Ciò che tornava però non era più un uomo, ma un demone incarnato che avrebbe combattuto con una furia terribile contro i nemici e si sarebbe poi scagliato sui loro stessi creatori una volta che nessun avversario era più in vita.

Sposa e sposo ripartirono per la patria di Matholuc e i druidi irlandesi tennero a bada le voci di ciò che era successo perché temevano che il popolo chiedesse una guerra.

Per tre anni Branwen visse come una regina ed ebbe un figlio da Matholuc: Gwern. Ma la voce di ciò che era avvenuto sull'Isola del Potenti presto cominciò ad affiorare e il re, timoroso di una rivolta, per placare il popolo che voleva la sua testa, bandì la regina a vivere come una sguattera, facendo crescere il figlio lontano da lei. Dopo tre anni di prigionia, grazie un incantesimo imparato dalla stessa Rhiannon degli Uccelli, Branwen istruì uno stornello a volare verso l'Isola e avvisare i fratelli della sua sorte malaugurata. Per la gioia di Evnyssien, che adorava l'idea di vendicarsi, immediatamente questi si misero in marcia per l'Irlanda per liberare la sorella. Matholuc, vedendoli arrivare, chiese a Branwen cosa potesse calmare le ire del fratello e questa gli suggerì di costruire una casa per lui. Bran accettò e venne istituito un banchetto. Evnyssien, vedendo però i suoi propositi di vendetta andare in fumo, durante il banchetto prese il bambino di Matholuc e Branwen e lo uccise gettandolo tra le fiamme e scatenando una battaglia lunga e terribile durante la quale il Re Bran rimase ucciso e in cui il Re d'Irlanda usò il calderone riportando in vita i morti e gettandoli nella mischia.

In ultimo fu Evnyssien a risolvere le sorti della battaglia; in un lampo di altruismo, dopo aver visto il fratello Nyssien massacrato per salvare la sua vita, usando uno stratagemma si fece gettare nel calderone ancora vivo e questo lo fece esplodere. La distruzione dell'esplosione portò morte ovunque in Irlanda.

Secondo quanto racconta il Mabinogi, nella versione romanzata di Evangeline Walton: "Era venuto e se n'era andato, quell'essere dall'anima cupa e malata di cui i druidi avevano previsto la mala ventura. Aveva mandato in frantumi il mondo, così come aveva mandato in frantumi il Calderone la cui forma simboleggiava il mondo; e la sua stessa carica di odio, dissolvendosi negli elementi più rapidamente del suo corpo disintegrato, aveva contribuito forse ad avvelenare quei vapori. Ma a nessuno è dato sapere con quali ignote forze la sua essenza si mescolasse e quali poteri si annidassero realmente in quel Calderone di provenienza ultraterrena: il Calderone datore di vita che, sacrilegamente rimosso dal suo posto, era stato trasportato attraverso il Passo della Bocca del Cane e si era trasformato nel simulacro pervertito e avvelenato di se stesso".

Bran, che nel Mabinogion è rappresentato come un Re saggio, continua a portare i suoi consigli anche dopo la morte, tramite la sua testa. Questo aspetto, che lo lega ad una visione infera dello stesso dio, richiama in pieno l'aspetto di dio saggio, consigliere, il cui potere travalica il tempo e la morte. Il concetto legato al corvo come forma di consiglio, di profezia, è anche, come abbiamo visto, legato alla morte e alla Morrigan, la Signora dei Corvi, perché è colui che si nutre dei cadaveri dopo la battaglia e pertanto, non solo pulisce il non seppellito, ma resiste al concetto della morte, nutrendosene e quindi favorendo il passaggio. Non per nulla il corvo è anche un animale psicopompo, noto per essere in grado di condurre i defunti attraverso i due mondi. Il mito quindi, ben articolato e intrecciato di simbolismi, riporta le gesta di un re giusto, premuroso, saggio e portatore di abbondanza e benessere: ciò che, combinato con il mito romano e nordico divenne infine Babbo Natale, il vecchio anziano vestito di rosso e che in antichità era invece vestito di verde, in quanto signore arboreo che non muore, a cui era sacro l'abete o il ciocco di Yule che si bruciava nel camino.

Crono, infatti, come anche Saturno, era il signore che riportava l'abbondanza e il benessere dopo un anno di fatiche. Era quindi colui che era capace di riportare allegria e buonumore e sopratutto di incarnare un aspetto apotropaico nella selezione a sorte del princeps, un popolano che veniva investito di un temporaneo potere nobiliare, vestito ritualmente con una maschera e con un abito rosso, il colore divino e regale per via della rarità del colorante, ottenuto dalle cocciniglie o dalle radici di robbia Rubia tinctorum, e a cui venivano offerti doni per preservare e propiziare i raccolti, su cui Saturno/Crono era comunque patrocinante. Crono rappresenta così l'aspetto dell'anno che si chiude e che lascia spazio ad un solare dio bambino, il Sol Invictus. La distruzione o l'antropofagia rituale di questo figlio non avrebbe avuto un reale senso di buon auspicio in un periodo in cui anche nel culto romano ci si scambiava auguri e regali, noti come strenne (in latino strēna significa "regalo di buon augurio"). Nel grande periodo di oscurità in cui Satrurno regnava incontrastato al posto degli altri dei, i romani ritenevano che il Sole fosse al minimo potere e che le divinità e i poteri ctoni ed inferi vagassero sulla terra. Offrire loro doni li avrebbe soddisfatti o placati nel loro vagare, in modo che potessero ritornare nei regni inferiori dove avrebbero propiziato e protetto il raccolto futuro. Il princeps dei Saturnalia rappresentava proprio le divinità ctonie e, come abbiamo visto, questo Rex Saturnaliorum diventava il capro espiatorio dei mali del mondo: finita la festa, infatti, veniva ucciso o si toglieva la vita sgozzandosi sull'altare di Saturno. E con lui si sperava di poter avere un anno nuovo libero dai gioghi infausti del passato.