The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Imbolc 2013

Imbolc 2013

Non occorre che un uomo sappia cosa avverrà alla fine del giorno dopo, è sufficiente che il giorno finisca e la conclusione sarà nota; se ci rincontreremo allora sorrideremo, sennò, sarà stato lo stesso un bell'addio.

Aro ies evod? Em a otnuig ies ogoul ehc ad? Otanrot ies ogoul elauq a?
Questi i suoni.
Questi i suoni, nonostante la nebbia.
Questi. I. Suoni. Nonostante. La. Nebbia.
Un saggio una volta disse che dalla vita non puoi tirare fuori di più di ciò che vi metti dentro. L'autometamorfosi nella quale passiamo ad ogni tappa che affrontiamo, sia essa un percorso di pochi giorni o di parecchi anni e, a volte, di una vita intera, è sia mettere che togliere in questa vita. A volte scegliamo di fare alcune cose, di chiedere alcune cose, perché pensiamo che non ci sia alternativa. O almeno, a me capita così. Dedico del tempo a qualcosa, che sia una persona, un evento, una divinità, un progetto e poi fatico ad abituarmi all'idea che prima o poi finirà. O almeno, consciamente lo so, ne sono consapevole. Ma emotivamente il piatto di merda è sempre più colmo.
Tutti noi subiamo delle perdite. Che siano esse persone che decidono di andarsene dalla nostra vita, persone che concludono il loro ciclo e muoiono o anche solo cambi di pensiero e attitudine, che sia la fine di qualcosa, il cieco concludersi di un giro di ruota che muovendosi annuncia un nuovo inizio, la difficoltà è sempre in agguato, ricordandoci ciò che dobbiamo lasciare e non dandoci la conoscenza di ciò che troveremo. "Oh fati", diceva Bruto nel Giulio Cesare "conosceremo le vostre volontà. Che noi dobbiamo morire, lo sappiamo, non è che del modo e del protrarsi dei giorni che gli uomini si curano". Mi chiedo quindi come interpretare la sofferenza che scaturisce dalla separazione, dalla consapevolezza che niente nella vita è statico. Perché c'è. Non possiamo farne a meno. Può, a volte, essere misura della consapevolezza con cui abbiamo vissuto la nostra vita fino a quel momento? O a volte può essere solamente incapacità di accettazione, di crescita ed egoismo? La necessità a volte sfocia in questo sentimento contrapposto e che porta al senso di colpa.
Una cara amica mi ha spesso fatto notare che il senso di colpa è segno del nostro bisogno di sentirci al centro, anche quando non è così. È un modo decisamente forte per vedere le cose. In un primo momento, quando sei dentro ad una certa situazione e ti senti responsabile, non ti è facile vederla in questo modo perché implicherebbe il dover smettere di sentirti così. Ma dopo una certa fase riflessiva in realtà io sono giunto alla conclusione che avesse ragione. Non che sia applicabile a qualsiasi cosa nella vita, ma spesso è così. Noi spesso rifiutiamo il concetto perché nel bene e nel male desideriamo essere al centro dello scorrere degli eventi. E non solo esserne partecipi, e non per forza fautori, ma comunque cardine.
Un mio vecchio amico diceva che nessuno è indispensabile e che tutti sono utili. Fatichiamo però ad accostarci a questo concetto quando ci riferiamo a noi stessi. Con assurdità preferiremmo credere che, dopo che siamo morti, tutto muoia con noi e il nostro punto di vista o che, in qualche modo, non sia possibile per le persone che ci sopravvivono continuare a vivere la loro vita. A livello antropologico non è nulla di così anomalo: è semplicemente immaturità di pensiero. È lo stesso principio che vuole far sì che un bambino abbia la sensazione che piova quando è triste e ci sia il sole quando è felice e che quindi questo lo rende responsabile del tempo atmosferico. Crescendo capisci che ci sono cose che si muovono in modo indipendente da te; crescendo ancora un po' capisci poi che funziona così per il novantanove percento delle cose. Ma paradossalmente riusciamo ad addossarci, spesso, anche quel singolo 1% del cazzo e sentirlo addosso come se fosse un macigno che ci trasciniamo dietro. Would you help me to carry the stone? dicevano i Pink Floyd.
Questi i suoni. Nonostante la nebbia.
A volte mi piacerebbe pensare che se fossi stato più onesto, più pari con me stesso, le maree del tempo non avrebbero sommerso tutto, uno dopo l'altro, come le onde ricolme di sangue della spiaggia di Omaha il sei giugno del '44 e i lunghi singhiozzi dei violini d'autunno non avrebbero ferito il mio cuore con un monotono languore. Ma forse quei violini, appesi ad alberi, suonati da quei rami scheletrici che ne graffiano le corde mi parlano, ancora una volta, solo di ciò che io sono stato capace di portare nella mia vita. E forse è per questo che non vorrei sentirli. E il corvo, che mi attende, osservandomi con quell'occhio scuro, gracchiando avvisi dal suo becco nero e artigliando la mia spalla o beccandomi l'orecchio sinistro, oppure poggiato sui palchi del cervo, lui lo sa. Sa ogni cosa. Plana dolcemente, con le ali tinte a lunghe pennellate. Nella punta del becco, tenendo stretto il nervo rosato di sangue, il nocciola bulbo oculare che ha strappato penzola tristemente.
Il senso di colpa sa essere davvero insidioso; ti accarezza il cuore come una mano gelida, sa far sparire il Sole dal cielo e sa spegnere le stelle del firmamento. Sa farti vedere le cose in una condizione che prima non avevi esperito completamente e lo fa perché affonda le sue radici nell'individualismo. Si nutre della rabbia per se stessi e l'incapacità di perdonarsi, sulla sensazione di dover essere infallibili anche sapendo di non poterci mai riuscire in quanto esseri umani. Di tutto ciò che una persona può pensare, ritenere che sia, in realtà, il parto della responsabilità è il più grande inganno e la più grande illusione in cui si potrebbe incorrere in questo ambito. Molto spesso è la storpiatura della responsabilità, dettata dall'incomprensione di ciò che noi vorremmo e non vorremmo; da ciò che, secondo il nostro punto di vista, per quanto personale e soggettivo possa essere, è un'etica accettabile. La scelta di prendere a destra o a sinistra, sia nei momenti difficili che in quelli facili o che riteniamo tali è un concetto che ci pone di fronte alla responsabilità di fare ciò che riteniamo giusto, di capirlo e di accettarne le conseguenze. Ma se quando agiamo lo facciamo secondo quelli che pensiamo essere gli schemi più vicini possibile alla nostra etica, e non lo facciamo muovendoci sulla base del concetto di punizione che ne deriverebbe dall'eventuale violazione di possibili leggi non scritte allora ci basiamo sul quel livello di lealtà verso i nostri principi più sacri che escluderebbe completamente il senso di colpa. Allora staremo a fianco a chi amiamo perché amiamo e saremmo vicini a chi ci è vicino perché esiste qualcosa che va oltre il semplice condividere un senso, e che prende forza da una comunanza che fa sì che, assieme, possiamo sentirci migliori. Migliori l'uno per l'altro, più forti l'uno per l'altro.
Questo forse, nel renderci speciali per qualcuno, ci fa sentire a casa anche se fossimo lontani mille miglia. Ci fa sentire importanti. Ci fa sentire utili, spiritualmente affini e vicini. Ci fa sentire in qualche modo sia unici che comuni. Perché la diversità è una grande componente, ma l'accettazione è fondamentale.
Cigni morenti, ali contorte, riportate questo Selvaggio a casa. Ovunque sia; qualunque sia. Che sia un cuore, una vita, un bisogno, un sogno, una speranza, una prigione, una panchina, una radura, una tomba. Qualcosa che possa chiamare come tale. E non privatelo della paura o della disperazione che lo assale in alcuni momenti. Ma riportatelo a casa.
Questi i suoni. Nonostante la nebbia.
A volte ripenso a te, che chissà dove sei ora e se leggerai mai queste parole. E ripenso a quella volta, più di quindici anni fa, quando eravamo seduti su quel muretto e faceva caldo. Avevi le gambe incrociate, stretta nei pantaloncini e il tuo motorino era parcheggiato poco lontano. Vicino scorreva il fiume dove quel tipo si era gettato. Poco più di una leggenda, oramai. Solo i più vecchi lo ricordavano e morti loro, anche il suo ricordo sará trascinato a fondo. Si dice che fosse passato pedalando per il paese diretto verso l'esterno, quando si faceva sera e che qualcuno, data l'ora e l'anomalia del gesto gli avesse chiesto: "Dove vai?" e lui aveva replicato: "Vado a buttarmi nel Mincio". Nessuno lo aveva preso sul serio, ma lui aveva rispettato i patti e non si era nemmeno scomodato a scendere dalla bici, a quanto so. Si era gettato dentro così come era arrivato lá.
In quel luogo mi dicesti che non ti importava cosa avrei fatto nella mia vita, purché dentro me potessi avere uno spazio riservato solo a te. E io, che a quei tempi ero nei miei primi passi sul cammino e sulla scoperta della mia identità e vivevo in quel mondo dove internet era una cosa amorfa e sconosciuta, mi sentivo sfuggente. Come Apophis, che orbita nel sistema solare, non avevo dimora dentro il cuore e i fiori che crescevano nei miei gardini erano sempre teneri germogli. Vivevo amando senza sapere né come né perché, proprio come quella poesia di Neruda, perché non sapevo amare che così. E tu mi portasti là, in quel luogo dove i due fiumi convogliavano. Il motorino era scomodo ma mi stringevo a te, giovane e bella, e sentivo i capelli lunghi che si intrecciavano in nodi tutti nuovi. Quel piccolo boschetto era così annoiato in quella luce crepuscolare, che mi portava anche un po' di inquietudine. Mi chiedo ora cosa volessi dirmi lì, tra quelle betulle pendule dai tronchi juventini. Io avevo fretta e non ricordo cosa dovessi fare quella sera, ma tu mi conducesti là per un qualche motivo. Qualche motivo che io non volevo conoscere; né in quel momento, né dopo un anno, né mai. Così ti chiesi di riportarmi indietro, ad un tratto meno adulto di te che eri una ragazzina appena diciottenne. Ma mi rimase sempre il dubbio di cosa mi avresti potuto dire se fossi rimasto, se avessimo passato qualche tempo lì, ad assaggiare la frizzante aria della sera. Mi chiedo anche cosa avrei potuto dirti io, se fossimo rimasti lì. E non è servito scrivere di niente e di nessuno in racconti che pochi hanno letto, anche per la mia poca attitudine a promuoverne le pubblicazioni, a dire il vero; in culo a chi diceva che scrivere placa i demoni. Col cazzo. A volte li scatena. Mi chiedo quindi se tutto questo, in ultimo, abbia contribuito in modo diverso dal naturale scorrere del mio senso di responsabilità o quanto il mio bisogno di sentirmi quella piccola fiamma per quel piccolo qualcuno che possa ad essa scaldarsi abbia condizionato le mie scelte. E mi chiedo se poi sia un male, nel contesto se non nell'oggettività stessa della mia vita.
Questi i suoni. Nonostante la nebbia.
La mamma di Forrest Gump sosteneva che la vita fosse come una scatola di cioccolatini nel fatto che non sai mai cosa ti capita, ma forse c'è anche da dire che lo è anche nel contesto che se non sai essere mediamente veloce va a finire che ci metti mano quando i pezzi migliori sono già stati presi da qualcun altro. Un po' come capita con le caramelle gommose, che ad osservazione plurima sono uno dei cibi più sociali possibili. A parte il fatto che, indipendentemente dai gusti, è difficile che in un sacchetto misto una persona abbia una sola preferenza. Ma soprattutto è difficile trovare chi getta la mano a caso e pesca ciò che capita. No, si sviluppa una certa attitudine, dopo una certa esperienza nel settore, a scegliere sostituendo la vista con il tatto per individuare i pezzi migliori. Ma poi dipende anche dalle persone. Io amo osservare chi ho di fronte allargare i bordi del sacchetto, rigorosamente di carta, per sbirciare all'interno e cercare di pescare ciò che preferiscono. Ne ho osservate un sacco. Sui visi di tutti si dipinge sempre un sorriso critico, malizioso, infantile. Una cosa contagiosa a dire il vero. Ed è il sorriso sornione di chi sa che ha trovato qualcosa che, cascasse il mondo, non si farà scappare e che potrebbe essere sostituita da un possibile surrogato momentaneo, nel caso che, dopo aver memorizzato geometricamente la posizione della caramella anelata, pescando poi con la mano si finisca con il prendere qualcosa di diverso. Anche perché la tempistica è fondamentale. Non puoi impiegare più di dieci secondi per fare la tua scelta. La gente diventa impaziente, ti osserva, ti minaccia con lo sguardo, inveisce su di te mentalmente intimandoti di affrettarti a scegliere, perché, come si sa, la fretta è cattiva consigliera. Anche se magari mangerebbero per terra o limonerebbero normalmente con il cane in quel momento ogni scusa è buona, quindi anche solo il fatto che tu tocchi tutte le caramelle con le mani a loro dà un improvviso fastidio. Spesso, poi, quando molti amano lo stesso tipo di caramelle, istintivamente si scatena quella rivalità dello sperare che la mano subisca un improvviso attacco di artrite, una momentanea epilessia o un isolato caso di morbo di Parkinson così che, per un caso del tutto fortuito, la persona non vada a cogliere proprio quella caramella che noi tanto desideriamo e che, per la legge di Murphy, sarà presente in numero inversamente proporzionale al numero dei pescanti che desidererebbero mangiarla. Inutile dire che, da streghe, in quei momenti si maledice l'etica che ci impedisce di lanciare anatemi terribili sulla persona che sta scegliendo, in modo che possa d'un tratto perdere la totale consapevolezza dei propri gusti, la memoria visiva della sua esperienza tattile e chessò, magari sviluppare ed acuire anche un irresistibile e impellente desiderio di cibo salato e di rifiuto per quello dolce.
E poi, diciamocelo, cazzo, non so voi ma io non ho mai infilato una mano in un sacchetto di caramelle o in una scatola di cioccolatini senza sapere che cavolo mi potesse capitare. Non per dire che la signora Gump non fosse saggia, ma il paragone che fa lei non è proprio totalmente calzante. Diciamo quindi che nella vita saper scegliere è importante e che non siamo destinati al totale caso, anche se talvolta, insomma, ci sentiamo come se fossimo ciechi, sordi e muti ed incapaci di capire e ascoltare e comprendere ciò che ci capita, finché non si verifica un evento determinante che ci spacca in due, che ci schiaccia il volto verso terra, costringendoci ad avere un punto di vista dannatamente ravvicinato. O quando ci capita di incontrare qualcuno che ci spieghi le cose in un linguaggio che noi interpretiamo, che parla direttamente a noi, dentro, nel profondo. Un po' come quando si dovevano fare le foto della band e il fotografo ti diceva come posizionarti. Poteva mettersi anche lui nella posizione, per mostrarti cosa intendeva, ma per riuscire a raggiungere il tuo mondo, ti doveva spiegare cosa dovevi sentire, cosa dovevi provare... a cosa dovevi pensare, perché solo nell'empatia delle sensazioni si chiudeva a doppia mandata la sincera espressività, quella che potevi cogliere davvero, come quando ti rigiri tra le dita la foto di qualcuno e stai lì ore a guardarla e a domandarti a cosa mai stesse pensando in quel momento, o cosa stava guardando, quali fossero i suoi desideri, i suoi pensieri, le sue speranze, i suoi sogni. Da una parte è anche questo che mi spinge a rispondere a tutti quelli che mi scrivono, che, a distanza di quasi dieci anni dall'apertura del lato Craft, sono ancora una media alta. E io so che lo faccio in parte perché è una soddisfazione dell'ego. E come potrei non ammetterlo? Lavoro per me stesso e per chi legge, ma se qualcuno mi scrive non potrei mai ignorarlo. Sarà anche che la mamma mi ha insegnato ad essere educato. "Domandare umano, rispondere educazione", diceva sempre. Ma se dovesse venire un giorno in cui non vorrò più parlare con nessuno e vorrò rifugiarmi in un incubo taciturno e senza fine, in quel luogo dove i sogni fanno mostri degli uomini, circondato dai resti carbonizzati di ciò che significavano per me le persone che mi amavano, io non mi sentirei in colpa. Il mio egocentrismo non mi porterà a credermi responsabile del loro destino perché non toglierò loro la scelta, anche se fosse solo quella di rivolgersi a qualcun altro. Come del resto non ho mai fatto, insomma.
Questi i suoni. Nonostante la nebbia.
È che a volte, in questi giorni soprattutto, è come se allungassi la mano nella nebbia. La affondassi profondamente, fino al gomito, come se fosse panna, tessuto di nuvola. E lo facessi sperando di trovare dall'altra parte, o nel mezzo, quel qualcosa che si aggrappi a me e che mi faccia capire che c'è. E nel profondo esame di me stesso, mi rendo conto che non so se ho guardato nella direzione giusta e nel modo giusto, finora, nella mia ricerca di ciò che è determinante per me. Le persone vanno via, tornano, se ne vanno di nuovo... e ogni rito che faccio io lo chiudo sempre con questa benedizione: "...la nostra benedizione giunga anche a coloro che per motivi vari, anche se lo avessero voluto, non hanno potuto essere qui con noi, ma che sono vivi, da qualche parte, sotto questo stesso cielo". Perché abbiamo bisogno di quel qualcuno che si aggrappi a noi? Perché io aiuto le persone che mi chiedono aiuto, a volte, nel farlo, sacrificando la mia vita profana perché quella sacra sia sempre forte e degna? Mi sono sempre risposto che lo faccio perché credo nella spiritualitá, nel potere delle persone di cambiare loro stesse. Mi sono sempre risposto che lo faccio perché io so chi voglio essere, perché credo nell'elevazione spirituale di ognuno di noi e che questo porti all'elevazione spirituale dell'umanitá, e mi sono sempre risposto che lo faccio perché voglio sentirmi migliore, più forte, più equilibrato con me stesso e più consapevole e che credo nel fatto che aiutare gli altri, nel limite delle nostre possibilitá, sia un modo per aiutare noi stessi. Mi sono sempre risposto, citando l'Imperatore Cinese in Mulan, che "un chicco di riso può bastare per spostare l'ago della bilancia" e che non sappiamo quanto noi possiamo essere utili con un singolo piccolo ed apparente inutile gesto, al fine ultimo del complesso sistema di aggregazione e scorrere dello schema più grande del mondo. Mi sono sempre risposto che la vita è un mosaico e che noi siamo le tessere e che ognuno ha un suo esatto posto e che nessuno di noi è privo di importanza: aiutare gli altri a capire quale sia il loro posto, ammesso che ci chiedano cosa ne pensiamo, è una cosa nobile e una responsabilitá di ognuno di noi.
Questi i suoni. Nonostante la nebbia.
Ma ora mi chiedo se tutto questo non sia solo una soddisfazione del mio ego. Mi chiedo se aiuto gli altri, dedicando loro tempo, energia, e tutto il resto, solo perché altrimenti mi sentirei assolutamente inutile, rifiutato, privo di scopo. E non lo faccio perché mi riesce bene, perché di fatto non lo so se mi riesce bene e poi perché sto imparando ad essere più socratico nel mio modo di pensare (e di questo, ancora una volta, devo ringraziare Luce), ma mi chiedo se lo faccio perché, dentro, ho bisogno che le persone guardino a me non come qualcuno da seguire o come qualcuno da appoggiare... ma come qualcuno che può essere utile, anche in forme diverse da quelle canoniche. E quando riguardo indietro, in quei tempi di aggregazione, quando mi sceglievano per ultimo nelle partite di calcio a scuola, giochi cui mi sforzavo di partecipare anche se ho sempre detestato quello sport (e all'asilo quando ognuno voleva impersonare un calciatore, io che non ne conoscevo nemmeno uno, dovevo essere sempre Tasterelli - che non ho nemmeno idea di chi diavolo fosse e in che squadra giocasse ma che per me significava essere uno sfigato che al massimo poteva fare il tifo); quando preferivo stare con le ragazze perché non misuravano il loro valore sulla base di chi sputava più lontano, e perché la retorica e la dialettica erano incipit del mio pensiero più che la capacitá di riuscire a non spaccarsi la testa contro il muro quando si giocava a chi ha il cranio più duro; quando mi sembrava di non essere esperto in nulla ma poco esperto in tutto e non riuscivo ad invididuare quali fossero i miei punti forti, ma mi sembrava di riconoscere dannatamente bene quali fossero quelli deboli; quando una critica feroce era capace di distruggermi e farmi crollare in pezzi; e sopra ogni cosa, quando riesamino ora la mia vita riflettendo su mia madre (la formica travestita da leonessa), su mio padre (che col passare del tempo diventa sempre più incomprensibile) e mio fratello (che mi ha iscritto ad una privata news di sms su cui mi aggiorna dell'andamento dei libri di Stephen King che sta leggendo) e sui quei conflitti inspiegabili che mi sono portato sotto la pelle per anni, come tutti del resto, e che a volte, anche distanza di tutto questo tempo, anche e forse proprio ora che ho imparato ad osservare ed isolare queste sensazioni, questi ricordi, queste "mezze veritá", come le chiamava Mia Martini, mi fanno sentire ancora sperduto come la favola di Pollicino che mio padre mi raccontava per farmi mangiare. In un momento, in un solo istante, come strappato indietro, afferrato per le caviglie e trascinato via, mi sento come quel bambino che, durante lo tsunami del 2004 in Thailandia, in un momento di terribile scelta, fu lasciato andare dalla madre alla terribile corrente oceanica dell'onda anomala che smembrava ogni cosa; lei scelse di tenere a sé il fratellino più piccolo per evitare che morissero tutti e tre, ritenendo che, essendo più grande, lui avesse più probabilitá di salvarsi; e si salvò. Per un gioco del destino, forse, o perché lei capisse e non se ne potesse fare una ragione, lui sopravvisse. E si salvò a poche decine di metri da lei perché qualcun altro, vedendolo passare sulle acque, lo afferrò al volo mettendolo al sicuro. E lui, all'epoca dell'etá che ha mio figlio ora, quando finì tutto, nel mezzo della distruzione globale che avvolgeva quei luoghi come un manto oscuro, pianse disperato senza sapere perché e senza riuscire a smettere: era troppo piccolo per capire il significato dell'immensa ferita, sanguinante, che si era aperta dentro lui. Era incapace di comprendere il tormento, sia suo che della madre, il significato della scelta terribile ed infausta in un momento drammatico, e ciò che quella scelta aveva provocato dentro di lui: una lunga, tiepida ed incomprensibile morte.
Questi i suoni. Nonostante la nebbia.
A volte è proprio così. Ti porti dentro qualche ferita che non sai da dove viene, nata dall'incomprensione, nata dall'inappetenza all'amore, nata dal non riuscire a capirsi per motivi vari, sia il non voler vedere che il non voler sentire e ti ritrovi a non riuscire a fare chiarezza su ciò che ti sta attorno, e affondi così le mani nella nebbia. E la senti che ti invade le narici, ti imprime sensazioni umide agli occhi, la gola, ti fagocita e ti digerisce. Poi ti risputa, lasciandoti addosso la sua bava, il graffio del suo freddo abbraccio, la sensazione di rifiuto, di incapacitá di accettazione. E ti strappa via la faccia perché è la sua maschera. È così che poi non distingui il sogno dalla veglia, i tornado che vedi dalla finestra e la sensazione di disagio con la malinconia d'esistere, la consapevolezza che Eddie Cochran ci aveva visto giusto e che non c'è proprio rimedio, sia d'estate che d'inverno. Sembra proprio acqua gelida quando ti circonda, acqua nella quale pinne caudali spuntano come coltelli, a minaccia, a monito. Violini e canti. Canti di cigno, per l'esattezza.
Cigni morenti, con le ali contorte, conducete questo Selvaggio di nuovo a casa. E se potete, spiegatemi voi come fa questo amore, dall'ansia di perdersi, ad avere in un giorno la certezza di aversi. Perché in fondo, nelle ore più buie, in quel giorno dei giorni, ti chiedi se stai cercando davvero qualcosa, come pensi di fare da anni, o forse ti aggiri sorseggiando umiditá e assaporando sogni solo perché speri che, in quella massa spumosa nel quale un po' galleggi e un po' affondi, ci sia qualcuno che stia cercando te. E tu non fai altro che sperare che ti trovi.
E sono questi, sì. Sono questi i suoni. Questi i suoni, nonostante la nebbia.