The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Imbolc 2016

Imbolc 2016

Poiché i poeti sono i sogni degli Dei, e in ogni Era alcuni tra loro hanno cantato inconsapevolmente i messaggi e le promesse provenienti dai giardini di loto oltre il tramonto.

Van Gogh, in una lettera che scrisse al fratello Théo, il cui nome avrebbe concesso a chiunque l'illusione di parlare con Dio, asserì con certezza che non sapeva nulla delle stelle, ma la loro vista lo faceva sempre sognare. Eppure sono così lontane. Così lontane che anche la loro luce impiega del tempo per venire a parlarci del tempo in cui brillavano. Ma tutte le volte che le vedo, in parte sento di invidiarle un po'. Quando io sarò polvere mescolata ad altra polvere, quando il mio nome sarà stato dimenticato da chiunque e io non sarò altro che uno dei tanti uomini che si è affaccendato a trovare il suo posto in questa grande umanità, e poi quando immemore di tutto questo tornerò alla vita e mi stenderò ancora una volta a guardarle, lo farò con la stessa invidia perché loro saranno ancora lì, immobili nel tempo e nello spazio. E io invece porterò con me, senza esserne consapevole, la consapevolezza causale di ogni singolo cambiamento che si è perpetrato nel tempo del mio lungo e diversificato vivere.
È strano come a volte riflettiamo su alcune cose e altre volte semplicemente le diamo per scontate. Rileggendo la vecchia Pat lei mi ha fatto ricordare come sia necessario rimanere bambini, dentro, per avere accesso alle vere iniziazioni. Ed è anche un po' un paradosso come noi cerchiamo di sfuggire all'infanzia a tutti i costi per rimpangerla e cercare di riviverla nei nostri figli e nipoti. Non è una ricerca perduta, ricercata e riperduta e cercata ancora per essere riperduta di nuovo? Forse la magia sta proprio nel rivedere le stesse cose ogni volta con occhi diversi. E non provare senso di smarrimento, anche. Perché gli anni che abbiamo vissuto e che viviamo sono sempre lunghi, anche se siamo sicuri di averli vissuti ogni volta in maniera diversa.
Forse ci serve un posto cui appartenere, come diceva Pavesi nella Luna e il Falò: un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Così, quando ce ne andremo in giro per il mondo, sapremo che potremo sempre arrotolare il nostro filo e ritrovare la via fuori del labirinto, trascinandoci dietro la testa mozzata e sanguinante del Minotauro.
Credo che faccia parte dell'identità il decidere chi vogliamo essere. Quanto meno in modo analogo e paritario al chi, in un certo qual modo, siamo a prescindere. Appartenere a qualcuno o qualcosa, insomma, diventa sia un atto di volontà che un legame quasi genetico. Ma decidere chi vogliamo essere è qualcosa che arriva con la maturità. E a volte nemmeno per tutti. Alcuni rimangono talmente condizionati da ciò che hanno imparato o che gli è stato inculcato che si dimenticano, o forse non vogliono, porsi la fatidica domanda: ma è davvero questo che voglio essere? È davvero seguire questo schema, chiamarmi in questo modo?
A volte penso che se non mi fossi posto molte domande nella mia vita molte cose sarebbero state se non diverse quanto meno più semplici. Ma più semplici da un punto di vista personale significa anche meno stimolanti e meno interessanti. Se però non mi fossi posto tutte queste domande non sarei nemmeno arrivato a queste conclusioni. Sempre che di conclusioni si possa parlare.
Sì, perché le conclusioni, quando si parla di scelte, hanno quella brutta abitudine di essere del tutto simili a palloncini gonfi di elio, o cespugli secchi che rotolano, come Rose di Gerico che si lasciano trasportare dal vento arido del deserto fino all'oasi più vicina. Non è facile acchiapparle e non è facile far sì che tornino ad essere verdi e vive. A volte le conclusioni, anche quando vengono irrorate, tendono a marcire. Tendono a non rappresentare ciò che ci aspettavamo. Quando nel cuore ciò che avevamo ci appariva sconfinato, immenso, come solo le emozioni e i pensieri possono essere, trova la via della realizzazione, ecco che tutto si immiserisce. È perché non sappiamo vedere con gli occhi così come vediamo col cuore? Forse abbiamo solo bisogno di non trarre delle conclusioni. Forse abbiamo bisogno di sentirci parte di qualcosa, di essere chiamati ad alcune cose senza dover giudicare con gli occhi. Così quando facciamo come Van Gogh e stiamo fermi lì a guardare le stelle, possiamo sentirle meno lontane.
C'è chi sostiene che giudicare sia sbagliato, ma d'altro canto il giudizio è forse l'unica cosa che si dovrebbe ricercare nella crescita umana da quando si è bambini fino a quando si è adulti. Nel senso, giudicare non fa solo parte della nostra natura, ma è parte della nostra stessa crescita; ci serve anche per capire quali sono le persone che è bene frequentare, le situazioni che possiamo evitare. Lo facciamo di continuo, in ogni momento. E lo facciamo senza alcuna remora, proprio perché in un certo senso desideriamo solo strade vuote davanti a noi, che ci permettano di sbandare, di fermarci, di fare una pausa al lato. Ma la tendenza che abbiamo è credere sempre che ciò che capita agli altri non capita a noi. E tendiamo ad estendere questa visione anche alla comunità di cui facciamo parte, magari illudendoci che non celi persone di bassa morale quali assassini, stupratori o pedofili.
Tempo fa frequentavo un vecchio forum che ormai sta in piedi solo perché qualcuno paga il dominio. Quando lo frequentavo io era nel fior fiore della sua assurdità e lì ho avuto modo di conoscere e ritrovare alcune persone che tuttora fanno parte della mia vita. Le discussioni su quel forum non erano sempre molto costruttive, per lo più perché spesso accadeva che gli animi si infiammassero con una certa facilità. Dopotutto è sempre stato facile nascondersi dietro un monitor e un nickname per alzare la voce quando si parla con qualcuno. In alcune discussioni veniva facilmente allo scoperto il forte divario tra il giudizio esperienziale e quello accademico. Nonostante nessuno dei due, per quello che mi sento di constatare, possa essere definito più o meno valido dell'altro, la tendenza che vedevo e che vedo tuttora in molte persone è quella di essere soggetti all'influenza di un forte sbilanciamento. Come sospesi nel mezzo dell'etere, a vorticare tra due orbite distinte, attratti e respinti dalla forza gravitazionale di due pianeti diversi, spesso si finisce per diventare ricercatori meramente accademici oppure praticanti totalmente sconsiderati. Su quel forum questo forte divario era facilmente riscontrabile. Ricordo che in una discussione particolarmente virale, ma che io azzarderei a definire più coerentemente virulenta, probabilmente partita come tante altre, si cercava di definire in che cosa credono le streghe che seguono il neopaganesimo. Nell'attrazione gravitazionale c'erano i due poli si schieravano così: chi sosteneva che fosse necessario scegliere un punto di vista superiore, ossia definire cosa avrebbe o non avrebbe dovuto credere una strega per definirsi tale e chi invece riteneva che la scelta potesse essere del tutto personale ed esperienziale senza però inficiare in alcun modo il sentirsi o meno una strega. Ordunque, mi domandai anche io: le streghe sono panteiste o politeiste? Pertanto gli dei sono immanenti o trascendenti? Differentemente da altre volte, in cui ho sempre cercato di prendere una parte (come Gesù Cristo non amo particolarmente far parte dei "tiepidi"), in quell'occasione ricordo che mi comportai come avrebbe fatto Piero Angela e rimasi in un certo qual modo ad "osservare" un fenomeno antropologico genuino che si stava manifestando in tutta la sua bellezza proprio sotto i miei occhi. Ne ero testimone diretto: si stava cercando di concepire l'inconcepibile. Si stava cercando di capire in quale famiglia filosofica e teologica tra quelle definite fino ad ora la nostra spiritualità poteva collocarsi. Nel marasma di discussioni iniziali, in cui non mancarono persone che spernacchiarono cose senza senso solo per far capire alle persone che c'erano anche loro, si delinearono due filoni di pensiero contrapposti l'uno all'altro: quello che parlava di esperienze dirette che sentiva o credeva di aver fatto facendo "l'amore con gli dei" (citando la seppur poetica ma a mio parere sminuente visione di Phyllis Curott - per quanto io onori Pan non mi sentirei proprio realizzato a pensare di far l'amore con lui quando lo invoco nel cerchio, ma sì sa: de gustibus et coloribus non disputandum est) e quello che invece cercava di calcolare, attraverso complessi indotti matematici, l'area fisica occupata dal pene spirituale di Priapo. In netto contrasto con le mie aspettative, sulla base delle mie esperienze passate, quella volta non si arrivò a scagliare anatemi che coinvolgevano svariati oggetti contundenti e orifizi naturalmente adibiti ad altre mansioni, ma si riuscì a mantenere i toni della discussione su un livello più che civile, considerati soprattutto i precedenti. Il problema è che non si giunse ad alcuna conclusione che valesse davvero la ricerca: mentre una fazione sosteneva che fosse necessario definire coerentemente in cosa crediamo, ossia decidere una volta per tutte se siamo panteisti o politeisti, dall'altra la risposta era: siamo entrambe le cose assieme.
Se do uno sguardo indietro nella concezione umana, il bisogno di definire ciò che siamo è un costume comune e normale che risale ad un principio lontanissimo nel tempo, quando la filosofia era ancora una scienza, quando pensavamo di essere diversi, superiori, benedetti, eletti prima di definirci poi tutti uguali, inferiori, maledetti e ritenuti indegni. Ma ora rifuggiamo alla definizione pensando di poter essere da una parte immuni a tutto questo pur rimanendo parte di una società e nello stesso tempo cercando in ogni momento di essere parte della stessa, anche solo facendo di tutto per sentirsi diversi. Io, che non presi parte attiva in quella discussione sul "chi siamo", pensai ingenuamente che fosse un modo per non dover fare una scelta, per dover dire "sono panteista" o "sono politeista" essendo costretto ad escludere una cosa o l'altra. E questo perché mi sentivo davvero sia l'una che l'altra cosa e mi sentivo esattamente come Llew Llaw Gyffes: un piede su una capra e uno sulla sponda di un catino. Ma quella era solo la mia parte esperienziale che chiamava, perché la parte accademica invece mi urlava di non essere "tiepido", di prendere una decisione, di scegliere da che parte stare e decidere, finalmente di definire te stesso. Stupidamente credevo quindi che se non avessi preso una decisione, se non avessi fatto una scelta sarei stato immune dal tormento. Non prendere una scelta, in quel momento, per me era come decidere che la mia risposta poteva aspettare, dal momento che non avevo ancora abbastanza le idee chiare. Poi però sono passati anni, il fiume ha scavato più profondamente il suo letto, l'amore mi ha ferito e non uccidendomi mi ha fatto diventare più forte, gli dei hanno accolto le mie richieste e accettato le mie offerte anche se a volte ho avuto con loro qualche screzio. In tutto questo tempo quella scelta: decidere di essere qualcosa e non qualcosa d'altro, non ha ancora trovato risposta. Mi sono rivolto a divinità specifiche nello stesso modo in cui mi sono rivolto ad entità generiche. Ho così capito che alla fine questa è la grande fregatura di non voler prendere una decisione: anche quella è una scelta e fa pendere comunque l'ago della bilancia in una precisa direzione al fine di decidere qualcosa.
La grossa differenza, a quanto ho avuto modo di notare, è il modo in cui riesci a vedere il mondo e di conseguenza la tua stessa vita. Personalmente ho passato così tanti anni, fumandomi anche delle gran canne, solamente per arrivare a capire che vivere è sempre e comunque compiere un viaggio e quello che conta non è dove cazzo vai, quanto ci metti, con chi decidi di viaggiare, quante pause pensi di poterti permettere e quante volte decidi di cambiare strada. No: quello che conta è solo la consapevolezza del farsi il viaggio. E conoscere se stessi è anche capire chi abbiamo di fronte semplicemente chiacchierando in modo anonimo; chiedere dei figli, delle idee, e perché no, se ce lo permettono, di come sentono di far parte del grande reame della spiritualità, di come sentono di voler e saper attraversare il fiume. E non aver paura di giudicare. Giudicare ciò che per noi è buono e ciò che non lo è, secondo il nostro punto di vista. Quello che conta, insomma, sono le domande, non tanto le risposte.
Nonostante ciò abbiamo bisogno di definirci, finanché solo per sentirci parte di quel qualcosa, come diceva Pavesi. Finanché solo per avere l'appoggio e la solidarietà di chi può condividere il nostro sentire, il nostro dolore, la nostra gioia e avere un alleato con cui combattere le nostre sanguinose battaglie. Anche solo per avere qualcuno che ci dica che stiamo sbagliando, qualcuno che ci faccia sentire speciali e meno soli. E queste battaglie le combattiamo spesso perché possiamo, non solo perché vogliamo. Mulder, in una puntata di X Files sosteneva che avrebbe desiderato una gamba di legno per assomigliare ad Acab proprio perché "se hai una gamba di legno o un uncino, il solo fatto di vivere è un atto di coraggio. È come se sfidassi la vita con la tua menomazione. È già eroico sopravvivere. Ma senza questi handicap, pretendi di fare qualcosa della tua vita, di darle un senso, di costruire chissà che. Quindi ecco," diceva lui, "casomai io sono l’esatta antitesi di Acab, perché se avessi avuto una gamba di legno sarei stato molto più sereno e soddisfatto, non sarei mai corso dietro a creature sconosciute, non ne avrei avuto bisogno".
Nel piccolo come nel grande lottiamo per dimostrare a noi stessi di essere chi siamo. A volte incontriamo persone che fanno della propria fibra morale e della propria integrità, sia spirituale che umana, un dogma inesprimibilmente forte, infrangibile ed inossidabile. Ma ciò nonostante siamo mutamento e umanità. Parlando con Janet lei mi ha descritto come era Alex Sanders. Lo ha definito un bugiardo assetato di potere, un falso e un fedifrago, ma di contro, diceva lei, era anche un uomo di buon cuore, che amava i bambini con grande tenerezza e che era capace di slanci di incredibile gentilezza e umanità. Mi sarebbe stato difficile credere alle sue parole se avessi fatto una scelta che escludeva quell'altra, se avessi deciso di sentire quelle stelle che Van Gogh osservava come soli lontani e irraggiungibili e non, anche, come piccoli buchi da cui filtra la luce dell'infinito e come l'immensa mappa del destino universale. Questo perché di base siamo più complessi di una definizione semplice e per quanto cerchiamo in ogni momento di fuggire dall'identificazione forzata, abbiamo bisogno di identificare noi stessi, di sapere da che parte stiamo, quali luoghi comuni rispecchiamo, per non ritrovarci davanti allo specchio, un giorno, e scoprire che non ci riconosciamo più.
Quando mi domandano in cosa credo in genere dico sempre che credo nel dubbio, perché è una forma di ricerca, perché è il trampolino che mi ha sempre permesso di vedere oltre. Perché senza il dubbio, di fatto, non sarei qui. Questo non significa che non ho delle certezze, che non sento di sapere dove sono, chi voglio essere. D'altro canto quando sono chiamato alle urne io non ho mai le idee chiare, ma ho ben chiaro chi non voterò e a volte sapere con sicurezza che cosa non vuoi è, in realtà, più utile di sapere quello che vuoi. Quando cominciai il cammino della stregoneria, pressoché vent'anni fa, mi sentii dire moltissime cose. Come molti altri io presi queste cose come una santa verità; dal momento che non conoscevo nulla, era ovvio che qualsiasi base fosse valutabile come una buona base, non avendo termini di paragone che potessi considerare come valido riscontro. Ricordo che provavo una forte ansia di "scoprire il mistero", di svelarlo. Non sapevo se la parte di me che mi spingeva a voler conoscere la verità dovesse la sua esistenza alla semplice curiosità o se ci fosse dietro qualcosa d'altro, ma sta di fatto che era come se fossi ad uno spettacolo di prestidigitazione e mi stessi trattenendo con tutte le forze dall'alzarmi dal mio posto, salire sul palco, e togliere il velo dalla donna stesa sul tavolo pronta ad essere tagliata in due. Quando vidi David Copperfield far sparire la Statua della Libertà o lo vidi attraversare la Muraglia Cinese, ricordo che mi sentivo più irritato che affascinato. Certo, riconoscevo la sua bravura, ma dentro di me qualcosa spingeva per uscire ed era la consapevolezza che rimanere affascinati di fronte ad un trucco di illusionismo conclamato mi toglieva una parte della soddisfazione del vederlo messo in pratica. Sentivo che mancava qualcosa. Un trucco di illusionismo a se stante non era abbastanza. Io volevo carpire il mistero, farne esperienza. Vedere l'illusione senza aver modo di raggiungere la consapevolezza era come un viaggio mancato. E mi sentivo in qualche modo male anche solo perché non riuscivo a rimanere stordito dalla semplicità di un trucco di illusionismo in quanto tale mentre tutti, intorno a me, rimanevano soddisfatti. Allo stesso modo, quando ho cominciato il viaggio per diventare una strega la cosa che più mi frustrava erano le risposte senza senso a domande dirette non per forza volte a svelare un mistero. Ricordo che posi questa domanda ad una strega di un sito che frequentavo: "Che differenza corre tra un esbat e un sabba?". Una domanda assolutamente logica e misurata, senza fronzoli, del tutto simile a quella che porrei a Lyrio se avessi bisogno di capire la differenza tra una angiosperma e una gimnosperma. Una domanda che, secondo me, meritava una risposta altrettanto facile, misurata e logica. Invece mi sentii rispondere: "La risposta è dentro di te". Ora, mi sarei anche accontentato di qualcosa in stile Wicca.it: "Leggiti un libro e non rompere il cazzo". Sta di fatto che ogni volta che mi veniva data una risposta come questa la mia frustrazione cresceva e io sentivo sempre di più allontanarsi il momento in cui avrei potuto cominciare a capire e svelare il grande mistero. Ma non ho mai smesso di farmi domande, ovviamente. Nel tempo che è passato, ho imparato molte cose e ci sono stati periodi in cui ho sinceramente creduto che tutto ciò che avevo imparato all'inizio fosse falso ed inutile, semplicemente spazzatura. Ma mi sbagliavo. Magari non nel fatto che fosse spazzatura, certo e magari anche sul fatto che fosse in qualche modo inutile. Mi sbagliavo sul fatto che non fosse vero e, in parte anche sul fatto che fosse inutile.
Già. Che palle, vero? Cioè non sarebbe stato più facile definire vero o falso? Marcare dei confini cazzutamente precisi, così sai che se ti muovi dentro quei confini sei in ordine e se esci invece qualcosa non va. Sono queste le volte in cui invidio un po' i cristiani ortodossi: quello che c'è scritto nella Bibbia è vero. Tutto il resto è falso. Punto. Semplice come ordinare una birra negli anni ottanta. Una volta andavi lì e dicevi: mi dai una birra? Manco ti ponevi il problema del fatto che te la desse rossa, scura o bionda. La birra era solo bionda. E alla fine uscivi che stavi in relax. Adesso quando ordini una birra anche nel bar più stronzo che hai sottocasa il tipo prima di versartela ti deve raccontare tutta la rava e la fava di come il cazzo di luppolo dello Sri Lanka prodotto solo in quantità limitatissime è stato raccolto accuratamente frutto per frutto con la mano sinistra da vergini cingalesi che sono cresciute lontano dalla civiltà, della varietà di orzo coltivato solamente in una zona particolare del Turkmenistan dove c'è l'abitudine di mangiare solo cavolo bollito così che la fertilizzazione dell'humus in cui le spighe sono cresciute conserva il sapore della foglia larga della pianta, del controaroma alla cenere (e mi chiedo come cazzo uno può desiderare che la propria birra sappia di cenere ma credetemi se ho visto e sentito anche questo) ottenuto solo con i più selezionati scarti del filtraggio delle cremazioni e del retrogusto al carbone vegetale ottenuto solo dalle piante carbonizzate in Viet Nam dopo l'uso dell'Agente Arancio. Esco dal pub e penso alle povere ragazze cingalesi costrette a non poter provare l'ebbrezza della sessualità, ai Viet Kong ammazzati dal napalm, delle regione dell'Ex URSS dove quando pisciano d'inverno si congela il pisello e non mi godo più la birra. Allo stesso modo nella religione esistono tanti dogmi quante contraddizioni, ma alla fine chi la segue se non si fa domande se ne sta in relax. Accetta alcune cose perché crede che siano vere e non è che si pone il problema se Gesù si fosse lavato le mani dopo essere andato a pisciare in latrina prima di tagliare il pane e rendere grazie.
Ma purtroppo per me, e immagino anche per chi legge queste righe, non esiste il vero e il falso assoluti, quanto meno in una religione esperienziale e in un cammino spirituale. Per cui anche se quello che ho imparato all'inizio potrebbe apparire spazzatura, mi è comunque servito per discernere, dopo, ciò che era vero per me. E dal momento stesso in cui era vero prima, non lo rende del tutto inutile. A dire il vero, sotto questo punto di vista nessun insegnamento è inutile, ma mi perdonerete se sono sono frenato dal dirlo: se facessi un'affermazione come questa in piena consapevolezza violerei uno dei miei dogmi e una delle asserzioni più sentite e convinte che mai ho espresso nella mia vita; in quel caso fu alla mia professoressa di Algebra alle superiori nei riguardi dell'uso che mai avrei potuto ricavare dall'imparare a risolvere le equazioni di secondo grado. E io in quel giorno fatidico asserii: "Non mi serviranno mai ad un cazzo e pertanto è inutile che le impari". Per quanto sono sicuro che Giuseppina Lavizzari non leggerà mai queste righe, non me la sento, onestamente, anche dopo vent'anni, di rimangiarmi quella affermazione e dargliela vinta, anche se solo in senso metafisico. È una questione di inviolabile principio e di orgoglio.
Ma di fatto, in tutto ciò che impariamo esiste una verità assoluta. Una sola. Ed è quella che, dentro di noi, non possiamo confutare mantenendo, allo stesso tempo la nostra integrità, la nostra tempra morale e sapendo in profondità che non stiamo mentendo a noi stessi, che poi è quello che conta: essere sinceri con noi stessi, quanto meno, se proprio non ci riusciamo anche con gli altri. Possiamo domandarci qualsiasi cosa e trovare riposte diverse. Ma se ogni domanda che noi ci facciamo, in qualche modo, ci può portare sempre più vicini a quella che è definibile come la "nostra verità", d'altro canto ci allontana anche di un passo da quel palloncino gonfio d'elio che è la conclusione. E dopo che la nostra domanda è stata fatta e la risposta è stata data, se siamo consapevoli della nostra scelta forse non dovremmo lasciare che nessuno ci dica mai chi dobbiamo essere, a cosa apparteniamo e qual è la nostra vita. A ripensare quindi al mio desiderio di sollevare il velo, insomma, mi sento antipatico come il Principe Leopoldo d'Asburgo quando, nel film The Illusionist cerca di svelare i trucchi di Eisenheim mentre la folla voleva solo divertirsi senza troppi problemi. A volte alcune cose bisogna solo godersele come si poteva fare con la birra fino a qualche anno fa. Tuttavia non è mai stato il bisogno di svelare il mistero fine a se stesso, ma di entrare a farne parte, di comprenderlo per poterlo fare mio e, in questo modo, diventando anche io parte del mistero, sentire di poter capire meglio anche me stesso.
Ma come diceva sempre mia madre: non è che si può sempre avere tutto dalla vita, no?