The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Litha 2011

Litha 2011

Nove anni fa parlavo di te come si parla del sole che sta tramontando, ma che ancora taglia l'aria con i suoi raggi come spade. Ne parlavo alla luce di decine di candele, su una spiaggia dove un gelido vento autunnale sollevava le polveri che desideravo rimanessero a terra. Ricordo il sapore del vino, il retrogusto dolce dei chicchi di melograno, ricordo il calore all'interno di quel cerchio, ricordo le domande pressanti che avevo dentro, ricordo il peso della coscienza di qualcosa che stava finendo contro la mia volontà. Quella sensazione scomoda... che conosci perché sai che è tua... ma che è scomoda lo stesso anche dopo anni che la provi.
Ricordo bene il mio piccolo desiderio di provare rancore per le ingiustizie che ad una parte sembrava giusto di aver subito. Un rancore che mi avrebbe aiutato a superare le onde soverchianti dal quale venivo investito. Ricordo la mia incapacità di provare quel rancore... la totale piattezza... come se dovessi accettare con un lieve sorriso l'inevitabilità di un destino che sapevo già segnato.
Nove anni fa andavo nei locali e la gente cominciava a fermarmi per chiedermi se ero il cantante dei Silence e parlarmi di tutte le volte che mi avevano visto dal vivo e bla bla bla... Ricordo che avevo così tante cose dentro che a volte non mi riusciva nemmeno di parlare, come se soffocassi, lentamente. Ricordo come sobbalzavo quando squillava il telefono, ricordo come desideravo che fossi tu quando suonava. Ricordo come avrei voluto mollare tutto quanto per andare in giro per il mondo a cercare la mia strada lontano da te, perché era così che doveva essere. Ricordo gli dei che tacevano, gli incensi che lezzavano invece di purificare, ricordo il grande desiderio che avevo di te... Ricordo le parole che scrivevo, che cantavo, ricordo le rune che mi incidevo nella carne, i segni che tracciavo nella polvere, il bisogno di ringhiare che provavo perché mi sentivo ferito e impotente.
Dieci anni fa non ti conoscevo ma sapevo che eri lì, in quel paese. Ti immaginavo su quella finestra intagliata in una parete blu, come se fossi affacciata su un buco nel cielo e guardavi il mondo, con quel bacio sulle labbra. Eri lì ed eri qui... dentro di me, ardente come braci e tizzoni, ma egualmente dolorosa; come se fossimo due esponenti di nazioni lontane che gli dei avevano fatto incontrare per casualità e che, per uno scherzo beffardo forse, avessero fatto innamorare. E noi, forse inconsapevoli per alcuni morbosi istanti delle nostre rispettive nature, abbiamo dimenticato ciò che eravamo, dimenticato quello che ci divideva e abbiamo spianato una strada fatta di catene montuose per toccarci. Talvolta ricordo quella sensazione di estraneità, come se fossi un ambasciatore in una terra lontana e non sapevo come trovare la parola giusta per farmi capire, perché non si travisasse il mio pensiero. E mi nascondevo dietro una lingua complessa per dirti ciò che volevo, un po' per cordardia e un po' perché desideravo che tu capissi che talvolta mi riesce difficile dire ciò che penso, specialmente se si tratta di cose piacevoli.
Sono passati nove anni da quei giorni. Ma me li ricordo bene. Ogni morte è sempre diversa dalla precedente. Piccone e cazzuola... distruggi per ricostruire in modo diverso.
Ricordo un brano di un libro, è di Jeanette Winterson. Le donne hanno sempre una capacità incredibile di secernere sentimenti come punteggiatura in ciò che scrivono... forse è la loro capacità di prendere l'amore più a volo libero, con meno attaccamento ai giorni e più ai fatti. Chissà cosa è giusto... come è giusto viverlo... se è giusto infine amare nel ricordo di ciò che è stato il primo giorno e confrontarlo sempre con il presente, senza quindi riuscire ad apprezzare con giusta misura tutto quanto. Quel brano diceva così: "Perché è la perdita la misura dell'amore? Non piove da tre mesi. Gli alberi scavano sonde sottoterra, inviano radici di riserva nel suolo arido, radici che aprono come fossero rasoi ogni vena gonfia d'acqua. I grappoli si sono appassiti sulle viti. Ciò che dovrebbe essere turgido e sodo, resistente al tatto per aprirsi in bocca, è spugnoso e piagato. Quest'anno non avrò il piacere di rigirare gli acini bluastri fra indice e pollice e di impregnarmi di muschio il palmo della mano. Perfino le vespe sdegnano quelle esili gocce marroni. Perfino le vespe, quest'anno. Non è stato sempre così. Penso a un certo settembre: Colombaccio Farfalla Rossa Messe Gialla Notte Arancio. Dicesti: "ti amo".
Com'è che la cosa meno originale che sappiamo dirci è tuttavia la sola cosa che desideriamo sentire? "Ti amo" è sempre una citazione. Non sei stata tu a dirlo per la prima volta e nemmeno io, eppure, quando lo dici tu e quando lo dico io, siamo come dei selvaggi che hanno scoperto due parole e le venerano. Io le ho venerate ma adesso mi ritrovo nella solitudine di una roccia scavata dal mio stesso corpo."

Talvolta vedi, osservo ciò che ho e sento che mi manca qualcosa. È assurdo che mi possa mancare qualcosa che non ho mai posseduto, perché se non lo conosco non posso sapere cosa significa averlo e quindi cosa significa non averlo più. Eppure sento che è così.
Hai mai provato la sensazione che qualcosa o qualcuno ti stesse portando via la vita? Io ogni tanto mi sento così... ho fatto delle scelte e sono contento di quello che ne è derivato, ma quando mi fermo ad osservare le cose che mi girano intorno e che come una danza folle attirano a sé altre cose prendendole per mano e facendole ruotare ancora e ancora mi rendo conto che talvolta mi vorrei fermare un secondo per vedere da fuori come sembra lo schema generale. Credo capiti a tutti. Ogni tanto devi fare due conti... ma il momento per me ancora non è venuto. O forse è venuto ed è passato, come quel film con la Roberts, quando passa sulla barca sotto un ponte e vuole baciare quell'uomo ma poi, passata sotto il ponte il momento si sgretola e lei si rende conto di aver buttato via l'occasione.
A volte, sai, mi siedo a terra, in un punto esatto di questa piccola casa. Da quel punto posso vedere fuori l'albero di prugne e l'agrifoglio. C'è un segno rosso che pare un grosso ragno nel punto dove mi siedo. Ho poggiato lì la schiena tempo fa, dopo che tre streghe mi avevano pittato il corpo nudo e mi avevano cantato e suonato intorno. La porta era aperta, e io l'ho valicata. Sedendomi ho lasciato un timbro indelebile sul mobile dietro di me che per sempre mi ricorderà che cosa quelle persone hanno fatto per me. Io mi siedo lì e bevo una birra. Castaneda racconta di come Don Juan gli avesse insegnato a trovare il suo luogo di potere: diceva che è facile capirlo, basta che ti rendi conto dove istintivamente ti siedi più spesso. Il mio luogo di potere è lì. Quando mi siedo lì, contemplando l'esterno, sorseggiando una Corona con fetta di limone, pare che tutto sia più chiaro, cristallino, come se i problemi si sciogliessero come compresse effervescenti, rivelando al loro interno l'anima della soluzione, come le ciliegine dei Mon Chéri. E ti assicuro che a volte sono proprio intricati, annodati su loro stessi, come le matasse di filo da pesca quando andavo sul canotto insieme a mio padre. Mi ha sempre lasciato perplesso questa cosa delle esche. È ancora adesso una di quelle cose che mi lasciano senza parole. Come i quadri che cadono per Max Tooney, insomma. Mi ricordo che quelle tre volte che si è andati a pescare lo si è fatto sul canotto, seduti sul bordo. Io, che ero il più piccolo, stavo sul tribordo mentre sulla prua e la poppa si sedevano mio fratello e mio padre. Dopo una pagaiata di tutto rispetto fino alla boa oltre la piattaforma da cui i ragazzi si tuffavano ci si ancorava con un moschettone e ci si gettava all'opera. Mi faceva abbastanza schifo toccare i vermi quindi mi facevo mettere l'esca sull'amo da qualcuno. Sta di fatto che ogni volta che ci mettavamo a pescare io buttavo giù la lenza e mi mettevo in attesa. Ogni tanto tiravo su la lenza per vedere che era rimasto e chissà come mai trovavo sempre tutto il filo annodato. Era incredibile. Ricordo come mi sporgessi per vedere se le sirene mi avessero annodato la lenza dopo aver dato da mangiare il verme ai pesci. Mio padre sosteneva fossero le correnti marine. Effettivamente la sua teoria suonava scientificamente valida ma io, nonostante tutto continuavo a ritenere più valida la mia sulle sirene. Dopotutto i pesci non avevano le dita e con le pinne doveva essere dura annodare una lenza in quel modo. E poi ritenevo fosse una cosa per cui fosse necessaria un bel po' di pazienza e di fantasia. Non è mica facile sciogliere i nodi... ma non è nemmeno facile farne di così difficili da sciogliere.
E ci sono momenti in cui penso ancora a quelle correnti marine a come possano esistere corridoi di acqua che scorre in altra acqua e in cui, come si vede in "Alla Ricerca di Nemo" le testuggini si gettano per risparmiare tempo e fatica nelle loro traversate oceaniche, da una parte all'altra del mondo. Misteriosi correnti che corrono senza posa, portando caldo e freddo. Sono quelle forze passive del mondo. Passive perché non le consideriamo parte del nostro vivere, ma sono forti e violente. Le cose che non consideriamo fanno parte del bagaglio della nostra non preoccupazione. Spesso è comodo credersi grande di una grandezza latente sosteneva Italo Svevo. Ma spesso è anche comodo non considerare i diversi aspetti emotivi delle persone. E come dicono i Crematory in quella canzone che ho risentito proprio oggi: "Non ripetermi quanto sei forte quando le emozioni per te sono un sentimento che puoi descrivere in due parole. Non guardarmi con gli occhi chiusi, come un buco nero. Il buco nero dentro te è il buco nero che ho dentro anche io. Non ripetermi quando sei forte, forte come un bambino che non ha sogni. Non sognare un sogno dove speri di svegliarti in tempo. Col tempo imparerai".
A volte è proprio così. Ci è facile sia credere che non sia mai nostra responsabilità in quello che capita con le nostre emozioni e i nostri sentimenti, sia credere che invece sia tutta responsabilità nostra. Ma più facile è sempre credere che tutto ciò che noi facciamo o diciamo sia sempre giustificabile dalle persone che ci sono intorno. Due parole, proprio due parole. La forza non sta nel guarire subito, la forza non sta nel non sanguinare, la forza non sta nel saper ribaltare le cose e smettere di pensarci. La forza sta nel capire cosa ci è successo. La forza sta nell'accettare quelli che sono i nostri lati e non rimanerne soggiogati o non utilizzare la giustificazione dell'accettazione come scusa per quello che facciamo. La forza sta nel saper riconoscere quando qualcosa non funziona nella nostra vita. La forza sta nell'avere le palle di lavorarci per mettere a posto questa cosa.
Nove anni fa era tutto diverso forse. Non immaginavo la mia vita, non cercavo di programmarla, non la vedevo nell'inevitabilità delle scelte che condizionano tutto quanto. Nove anni fa credevo che l'immortalità fosse solo nelle parole. Nove anni fa era come essere ad un parco giochi in una sera estiva, e giocare cun un'altalena che oscilla perché qualcuno dà la spinta. E la spinta la davo io, ma seduto su quel seggiolino chi c'era? E via, andava e tornava, andava e tornava. Ma ogni volta il seggiolino sembra più lontano dal perpendicolo e devo aspettare sempre di più che torni indietro, finché un giorno mi renderò conto che non c'è più nessuno seduto. Sparito, svanito, volato via. E l'oscillare cigolante di quella catena arrugginita di acqua piovana e rugiada notturna mi gracchierà la verità che non riesco ad ascoltare ora: chiunque ci fosse stato seduto ora non c'è più e come una rondine ha cambiato direzione, sparendo alla ricerca di luoghi caldi. Nove anni fa non avrei mai creduto di potercela fare in questo modo, di poter avere una riserva di energia che mi spingesse a infilare le dita nella terra, ad aggrapparmi con i denti a radici che spuntano dal terreno, a righiare mentre arranco, le unghie nere di terriccio morbido e grasso, il volto segnato e graffiato, quando ormai le gambe non mi sostengono più, abbandonate, amputate a morsi.
Nove anni fa non erano monconi strappati e sanguinanti quelli che mi spuntavano da dietro le spalle. Non c'erano tutte queste cicatrici bianche, che spiccano ovunque come una mappa di autostrade. Tante cose erano diverse. È proprio vero. Un giorno ti svegli e la vita ti è passata davanti agli occhi mentre dormivi. Che stato mentale che è certi giorni. La matematica dell'esistenza è una mera stronzata. Emily Dickinson la sapeva lunga quando disse che uno e una fa uno e che il due va bene solo per le scuole ma che per la scelta interiore c'è la vita o morte o l'eterno. Due è troppo vasto perché l'anima lo contenga. Un giorno sei vivo, un giorno sei morto. Un giorno sei innamorato, un giorno sei deluso. Un giorno sei sorridente, un giorno piangi. Un giorno sei tutto, un giorno non sei più nulla. Per quante migliaia di sfumature possiamo trovare in un arcobaleno, sono sempre luce e acqua a crearlo.
A volte dimentichiamo le cose importanti, dopotutto. C'è troppa inutilità di cui occuparsi in giro per il mondo per preoccuparsi dell'utilità; tutte quelle rose ti fanno dimenticare le spine.
Ora dopo nove anni ho sentito di nuovo le spine del tuo roseto. Mi hanno ferito di nuovo. Come bisturi grondanti. Sai sempre come colpire, te le prepari bene le cose. Io non lo so come andrà a te e non so come andrà a me. E non so come andrà a nessun altro al mondo. E dopotutto comincio a credere che non mi importi poi molto di saperlo. Se quando togli il coltello dal fianco e goccioli sangue sul mondo e se da quelle gocce la terra fa sbocciare fiori il senso del dolore prende un aspetto più forte e maturo. Ma se tu infili il coltello nel fianco, come un'ostetrica che punta i gomiti sul ventre di una madre gravida, e lo fai solo perché non conosci altro modo che quello e sei pronta a cambiare tutto il mondo perché tu ti possa sentire a pieno regime della tua vita allora non stai facendo un torto a qualcun altro che a te.
Ci sono cose che devo bruciare ancora nel fuoco di Litha questo giro. E ci sono cose che devo gettare nel lago perché se le tenga per sempre. Avrei voluto che non fosse così. Ma molte cose avrei voluto fossero diverse. Ad esempio quell'altalena che oscilla debolmente cigolando e che mi parla di ruggine e alberi mai raggiunti e di reumatismi da agenti atmosferici. O quelle voliere dove gli uccelli sono morti di mancata libertà o quella piscina dove le lucertole perdevano la coda. Come suona a volte la campana e per chi suona? Scheggie sotto le unghie e morsi sotto le scapole o come abbeverarsi di acido solforico. Tenersi sempre strette le proprie ali, come braccia intorno al petto appena usciti dall'acqua gelida, e al di sopra cieli di cobalto striato di nubi, come lunghe distese dense di pennello di un tramonto pittato per la guerra. Mi stendo su quella sabbia fine, dove i sassi ancora rotolano portati via. La Luna arriva presto, corre. Ha fretta. È già al suo posto mentre il Sole si sta ancora congedando.
Nove anni fa. Che anno immenso, lungo. A ricordare tutto è cominciato, tutto è finito, tutto ha avuto scopo. Se lo ha avuto. Sentivo l'energia come acqua fuori sul volto, come sangue sulle mani. Tenevi la luna tra le mani, disco immobile come piatto da portata. Contorte dita e braccia, come rami di castagno, le ho sentite dentro qui, in profondità. Parevano scavare, scavare. E rimuovere. Un momento immobile, congelato nell'ambra, come un talismano per sempre appeso al collo, infilato nella carne, fuso con il mio corpo. Lo porto per sempre qui. Uno spaccato in piccolo del mio mondo immenso, senza confini dove posso spostare la mia sedia di poco per vedere un altro tramonto; il mio serpente che ha mangiato l'elefante, la mia pecora nella scatola, la mia volpe che mi aspetta impaziente.
Stringerò tra le dita quel piccolo bastoncino di legno di pino e strofinerò la capocchia di zolfo, polvere di carbone e clorato di potassio su una superficie parte abrasiva, quale può essere la mia stessa anima. Il ruggito della fiamma incendierà il buio e allora potrò gettarlo là, su quella massa di legna in attesa e dar fuoco a tutto quanto. Siederò. Osserverò. Attenderò.

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