The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Litha 2013

Litha 2013

Ama mihi cum mererem minus, quoniam erit cum ne egerent.

Perché è così difficile fare i conti con la propria vita? Non sarebbe più facile dare un cazzo di colpo di spugna, come se fosse una lavagna e cancellare ciò che non vogliamo più? Persone, eventi, situazioni... Più passa il tempo più Danny De Vito in Big Kahuna aveva ragione: "guarderai quelle tue vecchie foto in un modo che non puoi immaginare adesso: quante possibilità avevi di fronte e che aspetto magnifico avevi; non eri per nulla grasso come credevi". Forse è così difficile perché a volte non siamo capaci di andare oltre, di vedere più in là. Solo un po' più in là, come pretendere di rotolare su per una collina.
A volte, sapete, mi piace pensare di essere pronto. Ma non sarebbe la verità. Lo sono, sì, in un certo senso. Ma anche no. Perché in fondo chi è veramente pronto? Quando in quel tempo così remoto correvo verso il mare, in cerca della libertà e della salvezza mentre quegli uomini armati di ascia mi inseguivano, ero pronto? Eppure non raggiunsi mai la riva. Il mio sangue si raggrumò in una macchia oscura sulla sabbia finché l'alta marea non venne a far visita al mio corpo e i granchi pasteggiarono. In fin dei conti non sono mai stato un grande scattista. Quando si tenevano le gare in educazione fisica, a fine anno, mi piazzavo sempre in quella media anonima costituita da quella massa di persone che non spicca in nessuna delle due possibilità: né i primi né gli ultimi. Non provavo quell'esaltazione della vincita, della sfida. Io avrei preferito prendermi una limonata fatta con veri limoni, dei biscotti fatti con veri boy scout, e sedermi sotto un albero, a godermi il fruscio del vento tra le fronde, il tiepido sapore dell'aria estiva che preannunciava le vacanze, magari leggendo la Blixen per immaginare di riuscire ad avere un giorno anche io una meravigliosa antilope che venga a mangiare mais macinato senza mostrare paura perché si sente di casa. Ma ero costretto a partecipare, insomma. Dopotutto quello che passano come un diritto e un'importanza, in alcuni aspetti della vita in realtà è solo un obbligo mascherato. Se non partecipi spacchi lo schema. Se spacchi lo schema sei un disadattato, sei un tipo strano, sei qualcuno che non sa come si vive. Sei una persona che devia gli altri dalla via. Ma non è più facile, in fondo, ragionare così che pensare semplicemente che ci sono modi diversi e che non c'è nulla di sbagliato? I bisogni spesso si creano sulla base di quanto la massa fa uso di alcune cose. È anche per questo che quando parlo con persone e dico loro che io non ho la televisione o che non sono iscritto a facebook mi guardano come se avessi appena detto che sono nato a Stranizia e che mio padre è un alieno sopravvissuto allo schianto del disco volante là a nord.
E poi, al di fuori delle corse, in quelle giornate estive c'è il dolce profumo dei fiori di glicine, l'erotico fruscio dei vestiti leggeri delle ragazze, il sapore dell'erba tagliata, il senso di contentezza e disinibizione che richiamano la fine della scuola, il ronzare delle api che danzano alla ricerca di un luogo, pronte a sciamare, i bombi che secondo Antoine Magnan tecnicamente non possono volare che si posano sui fiori a riportare vita e bellezza al mondo, gli schiaffi sulla pelle nuda per fermare l'assalto delle zanzare e poi il calore dell'asfalto che rimanda l'accumulo tenuto prigioniero durante il giorno e quei temporali, come scatti di rabbia, che sollevano l'odore del terriccio e dell'erba bagnata. I sorrisi e le risate erano contagiose. Della preoccupazione si facevano aeroplanini, perché ormai era passato il peggio e davanti c'erano solamente giorni spensierati.
Che strano chirurgo che è il tempo. Sono sempre di più i fiori che si aprono, rivelando stami di ricordi, cose passate, sepolte, senza luogo né tempo, come croci e lapidi simili a denti rotti. Un tempo avrei cercato di mettere ordine, ora so che non ha senso. L'ordine è un punto di vista trascurabile quando non possiedi un reale indice.
Mi ricordo dei piccoli fuochi sulla spiaggia. Non ne ho fatti molti a dire il vero. Mi tenevo le ginocchia con le mani o mi sdraiavo a perdere il conto delle costellazioni con nelle narici l'odore di mare e alghe e legna bagnata e l'aria era satura dello scoppiettare dell'acqua nelle fiamme e l'emozione delle dolci carezze e di tiepidi baci su lisci corpi di salsedine e sabbia, quella sensazione di fermo nel tempo, come se niente e dico niente avesse potuto mai cambiare. Fintanto che il mare si attorcigliava sul bagnasciuga, portando con sé le promesse dei segreti che mantiene sempre tra le sue onde, come si poteva pensare ad una conclusione? Non avrei mai creduto che sarebbe stato così facile, dopotutto. Era come guardare i miei amici suonare la chitarra, muovere quelle dita in un arpeggio bellissimo, pizzicando le corde, mantenendo sempre un dito fermo, bloccato, che fosse da cardine per far scendere e salire la mano. Il mignolo immobile, fissato sotto le corde, morbido ma deciso. Non ho mai imparato. Quando qualcuno suonava io dovevo cantare ma mi è sempre mancato lo strumento. Sarà che come dice Urban Jungle io sono di quelli che preferiva trovare compagnia che stare lì a mantenere le redini della colonna sonora.
Quegli accordi come mezze lune spaccate, come metà di noci che mio padre usava per farci barchette, ancora mi inseguono. Il fuoco sembrava danzare al suono di quella musica. Io mi nutrivo di farfalle e nuvole, piuma sul cappello e pensiero felice in tasca. Chi è che aveva voglia di crescere in fin dei conti? Quelle distese di buio e oscurità che si celano dietro le colline dove il sole riflette i colori del mondo ancora piangono e chiamano, proprio come i flutti. Il mare richiama sempre a sé, prendendo ciò che deve e rendendo ciò che vuole. Quando vuole, soprattutto. Mia nonna aveva l'abitudine di andare a passeggiare la mattina presto perché diceva che il mare rendeva sulla spiaggia all'alba i tesori rubati tempi addietro. Se non sei veloce poi se li riporta via per riproporteli dopo chissà quanti anni. Alcuni cadaveri non galleggiano più flaccidi sotto la superficie, specchiandosi sul filo dell'acqua, come narcisiste Grimildi. In tempi in cui il sole splendeva su un mondo più giovane, e si era su quella scogliera, alcuni gettavano fiori; altri gettavano figli. E come sotto i lampioni di chi usa un cassonetto, odiando la propria vita, mai avrebbero visto la crescita, la scuola, come carta bagnata e stracciata. Si spaccavano sugli scogli là sotto, come frutti maturi, in attesa che gli dei del mare potessero giungere a pasteggiare.
Mi arrischiavo per la strada, in quei giorni bollenti, e il mio sogno mai realizzato era avere una mountain bike. Il sapore delle granite mi faceva dolere la testa con il freddo intenso che portavano. Nessuno era al sicuro nemmeno allora; ma adesso, che curioso, la consapevolezza che sempre cerchiamo porta con sé anche quei sentimenti di raso, come cieli senza stelle. Ma la cerchiamo davvero la consapevolezza? A volte arriva e basta. A volte è così rancida, terribile, arrogantemente ruvida, che sappiamo con sicurezza che non la vorremmo davvero. Il grande senso di smarrimento si sparge per il mondo come sogno dei folli: riempiendo il cielo. Li vedi sui volti e negli sguardi delle persone che cercano qualcosa. Qualcosa che non si sa se troveranno mai più. Robert Fripp e i King Crimson indovinarono perfettamente con un anticipo di cinquant'anni quello sguardo, rappresentandolo in tinte blu e rosse sulla cover del loro primo album: l'uomo schizoide del ventunesimo secolo. Ed era il 1969.
Ora lo smarrimento corre per le strade, come la follia nel mondo post apocalittico dove viveva e lottava Ken Shiro, facendo esplodere le persone lanciando gridolini effeminati quando colpiva i punti segreti di pressione. Il mondo, nella spazio universale nel quale sono stato assegnato in questa vita si divide in vari tipi di persone: quelli che non vogliono vedere e che preferiscono credere che in fin dei conti potrebbe andare peggio, quelli che decidono che non ne possono più e che, potendoselo permettere, abbandonano tutto e tutti e cercano la loro strada altrove, lontano e poi quelli che invece per un motivo o per un altro rimangono qui, smarriti, e lottano con struggimento, felici di ciò che hanno perché sentono che hanno uno scopo. Io ritengo di far parte di questa terza ed ultima categoria.
Secondo Lyn Cassady questa cosa si chiama traiettoria ottimale: la vita è come un fiume: se miri ad uno scopo cui non sei predestinato nuoterai sempre controcorrente. Scopri qual è il tuo destino e il fiume ti ci porterà. Tutto chiaro. Noi wiccan, che abbiamo questa abitudine del cazzo di pestare una merda di cane e vederci un segno divino di un dimenticato dio dei cani magari venerato solo da antiche popolazioni originarie di qualche isola sperduta del pacifico di cui ci rimane traccia solo in racconti che erano mitologici all'epoca dei Sumeri e che parlavano una lingua ergativa e agglutinante e non imparentata al proto indoeuropeo, come non potremmo non comprendere al cento percento questo punto di vista? Come diceva quella maglietta: Shit Happens! Il problema che non ci poniamo è: che cazzo voleva dirci questo dio dimenticato?
Il punto è, in fin dei conti: quanto tempo ho io per scoprire qual è il mio destino? Nel senso, la vita è un filo che collega la culla alla tomba e la tomba alla culla. Sia che siamo Candidofili, quindi riteniamo che filosoficamente viviamo nel migliore dei mondi possibili, sia che siamo più vicini ai pentecostali e che quindi riteniamo che qualsiasi evento sia da imputare ad un intervento esterno legato in modo più o meno indiretto all'interesse di entità a noi avverse, o sia che troviamo una via di mezzo come Siddharta e che quindi se la corda è troppo lenta non suonerà e se è troppo tesa si spezzerà, alla fine dei giorni, quello che ci rimane è sempre lo stesso concetto: possiamo perdere giorni ad inseguire punti esclamativi nei territori di Azeroth o spendere ogni singolo minuto per carpire i significati delle cose più svariate, possiamo decidere di divenire asceti e stare senza mangiare e bere come Prahlad Jani che non mangia e beve da 74 anni, oppure riempire ogni singolo istante di qualcosa che riteniamo assolutamente meraviglioso, al punto da fare come Peter Griffin e incolpare la propria famiglia di non godersi la vita, ma comunque i giorni a noi concessi sono limitati prima di dover dare un colpo di spugna e ricominciare.
Un amico prete che conoscevo alle superiori mi ricordo che diceva, anche se nel contesto cristiano, di "vivere in pienezza". Per molto tempo mi sono domandato che cosa intendesse dire, o quanto meno, come potessi interpretare questa cosa al di fuori del puro contesto cristiano. In fasi e momenti differenti ho estrapolato vari concetti da questa unica affermazione e ancora adesso, proprio ieri per dirne una, ho capito qualcosa in più dell'immensità di possibili interpretazioni che ci potessero essere. Mi trovato con alcuni amici in riva ad un lago, in una zona stagnante; un pioppo dal tronco grinzoso gettava un piccolo cappello d'ombra per ripararci un poco dal caldo torrido di questa estate che tanto abbiamo invocato e che finalmente è arrivata. Dietro di me sorgeva un canneto di giunchi e ninfee che creava un labirinto dove le papere giocavano a nascondino. Si ragionava di varie cose, sulla vita, sulla filosofia del vivere stesso e io, come in questo periodo, riflettevo sulle mie scelte passate e di come influenzano la mia vita attuale. È pazzesco pensare alla semplicità con cui alcuni discorsi si legano ad altri come siano anelli di una catena che sprofonda nell'oceano, umida di alghe viscide. Ho sempre pensato, in fin dei conti, che siamo figli di noi stessi, in quanto corresponsabili della maturazione sulla base delle nostre scelte, quanto meno fin da quando ci è stato concesso di prenderne alcune degne di reale significato. Però a volte siamo così fermi su ciò che siamo e che non siamo che dimentichiamo quanto quel "non siamo" possa essere, nella sua diversità, qualcosa di lontano da noi stessi. Possiamo crescere quindi con uno spirito critico degno di Anton Ego, il critico culinario di Ratatouille o avere dentro una tale vastità di permissività e accondiscendenza verso noi stessi che rivaleggerebbe con lo stesso Narciso che si considerava talmente superiore a chiunque che non si cedeva a nessuno se non a se stesso. Però cresciamo. E quando si arriva al dunque, abbiamo sotto gli occhi le esperienze e il nostro punto di vista sulla vita altrui con cui confrontarci. Io so cosa mi sarebbe piaciuto essere e ci penso ogni giorno. So anche cosa sognavo di essere quando ero bambino, quindi cosa pensavo di poter diventare prima che la realtà si facesse spazio nella mia vita a gomitate e senza rispettare la fila, come fa sempre. Di fronte a questo mi rendo conto che sono lontano mille miglia dalla realizzazione delle conquiste delle vette che credevo di scalare; magari considerandole in discesa e per questo raggiungibili. Ma poco spesso mi capita di osservare la strada che ho tracciato, le cose che ho fatto, le conquiste che ho ottenuto, e guardarle con la consapevolezza che nulla mi è stato regalato.
Mentre eravamo sul prato a parlare schiettamente di ciò che siamo, una cara amica ha osservato qualcosa riguardo la sua vita di madre. E quella cosa mi ha fatto riflettere. Sostenne che, non avendo studiato e fatto ciò che ci si aspettava da lei, nella realizzazione di sé ha incontrato moltissime difficoltà, proprio perché nella sua vita ha deciso di seguire quella che riteneva essere la sua via. Si è spesso trovata a dover scegliere tra i figli e il lavoro che doveva fare perché immancabilmente le capitavano le occasioni di lavoro coincidenti ai momenti in cui doveva occuparsi dei bambini. Ha dovuto quindi fare dei sacrifici, delle scelte magari difficili, che di sicuro l'hanno portata lontana, resa diversa da ciò che desiderava diventare. Poteva diventare un'incazzata, ma questa cosa, per quanto potesse apparire frustrante come prezzo da pagare, le ha comunque donato ciò che le serviva per essere ciò che doveva essere davvero. Stare con i proprio figli l'ha resa più umana, meno distaccata, più comprensiva. E nel campo di lavoro in cui opera questo è ciò che fa la differenza tra un medico che ti considera un paziente e un medico che ti considera una persona. Era qualcosa che, in questo momento della mia vita, io avevo bisogno di sentire.
Io non sono diventato un musicista di successo. Lo volevo, cazzo. Ho studiato anni di canto per farcela. Ma alla fine potevo cominciare prima, potevo fare in modo diverso e vuoi perché la mia vita mi ha reclamato, vuoi perché non era la mia via, anche se c'è stato un periodo in cui il mio piccolo l'ho conquistato, il tempo è passato. Potrei vedere questa cosa come una sconfitta, però ho fatto cantare trentamila persone davanti a me per due volte. Quanti possono dire di averlo fatto? Non sono diventato uno scrittore di successo, anche se qualcosa ho pubblicato, ma scrivo comunque continuamente e la scelta è stata mia di non scendere a compromessi. Non guadagno uno stipendio notevole e faccio un lavoro che non amo. Ma, come mi ha fatto osservare questa mia amica... sono dodici anni che questo lavoro con non amo mi consente di avere il tempo di studiare, scrivere articoli, mettere ordine nei miei pensieri grazie a questi editoriali. Avrei voluto dare una stabilità a mio figlio. Essere io a cullarlo sempre e non avere dei momenti in cui avevo bisogno che fosse lui a consolare me. Ci ho provato, sì. Però sento persone che, ancora oggi, mi dicono che avrebbero voluto avere un padre come me, nonostante io non mi senta mai abbastanza per lui. Penso troppo, mi dicono alcuni. Come dice Lucio Dalla: "io sto sempre in casa, esco poco, penso solo e sto in mutande. Penso a delusioni, a grandi imprese, a una Thailandese ma l'impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale". Già. Essere normale. Insomma, un redento Anton Ego diceva, alla fine del film: "c’è più dignità in un'opera d'arte mediocre che in una mia stroncatura, che pur è divertente da scrivere per me e da leggere per voi".
Potevo essere un delinquente. Magari mettere incinta una di quelle sbarbe che aspettavano solo che si scendesse dal palco per togliersi le mutande in qualche cesso sporco di piscia e fumo dei locali dove suonavamo. Potevo quindi avere un figlio disadattato, magari non voluto. Poteva capitarmi di perdere un arto in autostrada perché è divertente fare l'incosciente, o ammazzare qualcuno per aver guidato da ubriaco. Potevo essere un povero strafatto con la kefia intorno al collo e la bottiglia di vino in mano a parlare di rivoluzione, a citare autori russi come Bukowsky nei bar alle cinque di mattina, impegnato politicamente a far finta di voler essere proletario. Potevo fare un lavoro in cui non mi restava il tempo per respirare, per dedicarmi alla crescita personale e così rimanere sempre nel "vorrei ma non posso". Potevo essere morto suicida vent'anni fa, raccolto col cucchiaino o trovato dissanguato nella vasca. Chissà come mai pensiamo sempre alle cazzate che abbiamo fatto e mai a quelle che non abbiamo fatto e a come la probabilità di essere diversi "in peggio" confronto a quanto siamo sia una realtà vicina, vicinissima.
In fin dei conti, cara la mia estate, qui non c'è nulla da fare: io devo finirla di cercare di prendermi in giro, così come devo finirla di cercare di coltivare piante sul mio balcone sempre in ombra, di insegnare a Polpetta a tirare lo sciacquone dopo aver pisciato nel water e a Salsiccia di chiudere il frigo dopo essersi servito, così come devo finirla di bere caffé perché sono intollerante, o quando sono fermo ai semafori smettere di fissare quello che, con convinzione e sognante armonia, si esplora le vie respiratorie con le dita. La vita è piena di brutte abitudini... eppure ho deciso di smettere di mangiarmi le unghie e non ho impiegato più di un minuto per riuscirci: mi serviva uno scopo reale, una decisione, il voler smettere di non saper aver paura di nuotare mi ha concesso, venticinque anni fa, di imparare; il desiderio di smettere di aver paura di appartenere a qualcuno mi ha concesso di innamorarmi; la consapevolezza di essere in grado di tracciare un cerchio mi dà il potere di saperlo fare: sono io e nessun altro l'antilope che un giorno non tornerà se non per mangiare mais macinato. E nella notte mi tormento, tra sogni di abbandono e difficoltà, perché so che anche io sono passato per ben due volte su quella strada polverosa, al mattino e al tramonto e ho ignorato quei bambini Kikuyu che mi porgevano l'animale cercando di vendermelo, nonostante i suoi occhi scuri profondi mi guardassero con confusione e paura. E poi mi sono svegliato anche io, come Karen Blixen, e nella notte di luna piena ho scandagliato la foresta per trovarla, girando come un pazzo nel timore di saperla uccisa perché io non l'ho salvata, perché non volevo credere di poterci riuscire. E il mistero del come più che del perché mi rimarrà per sempre, come l'autore della canzone della sigla di Lamù degli anni ottanta. Chi cazzo ha cantato quella canzone? Nessuno lo sa, come nessuno sa che verso fa il coccodrillo o per cosa viene appeso nell'aldilà un islamico che non vuole fare l'amore con sua moglie (dato che nel caso contrario la donna viene appesa per i seni).
Woody Allen in quel bellissimo film, diceva: "Milioni di libri scritti su ogni concepibile argomento da tutte queste grandi menti e alla fine nessuno di loro sa niente più di me sui grandi misteri della vita. Ho letto Socrate, sapete, ma schiappettava i ragazzini greci. Che diavolo ha da insegnare a me? E Nietzsche, con la sua teoria dell'eterno ritorno. Diceva che la vita che noi viviamo la vivremo ancora, ancora e ancora, e esattamente nello stesso modo per l'eternità. Splendido! Questo significa che io dovrò vedere ancora Holiday on Ice. Non vale la pena".
Insomma, un tempo sostenevo di come il mondo si dimentichi, tavolta, di stare al mondo. Ora, nell'elaborazione del mio pensiero mi sono convinto invece che il mondo, talvolta, perda contatto con la consapevolezza di se stesso e della propria natura perché è sempre alla ricerca del non trovato, scambiandolo per perduto, o magari vedendolo in quel contesto così diverso seppur simile. Domanda: "Che cosa hai perduto?" Risposta: "Non so, devo ancora trovarlo". Nell'occupazione della ricerca ci dimentichiamo cosa stiamo cercando, un po' come la mamma del piccolo Kevin che scorda a casa il figlio in "Mamma ho Perso l'Aereo" e in volo si mette a cercare come una pazza nella borsa perché sa di aver dimenticato a casa qualcosa ma non sa cosa. Quello che mi domando ora è: facciamo bene a continuare a cercarlo, e quando lo troveremo... se lo troveremo, saremo sicuri che sia ciò che stavamo cercando?
Io paradossalmente so che ho perduto tanto tempo. Tante strade e ore e giorni. Perdute, sì, come lacrime nella pioggia. E oltre quei giorni altri giorni e altre strade e ore. Ho perduto un gelato. Quando ero bambino, circa otto anni e in gita con la scuola uno stronzo, adulto, è passato, me lo ha preso dalle mani e se l'è mangiato davanti ai miei occhi. È stata una piccola botta per l'epoca vedere un adulto comportarsi in quel modo. La confusione della scena è stata talmente forte che al momento sono rimasto di ghiaccio. Solo dieci minuti dopo sono scoppiato a piangere. La gelataia cercò di offrimene un altro ma io lo rifiutai. Non era mica per il gelato che stavo così male; era per la delusione di aver visto un adulto comportarsi in modo così scorretto. Era per l'impossibilità di redenzione, di presa di posizione. Era la frustrazione di avere otto anni e non potergli tirare un pugno sul muso. Era una delusione così profonda, che mi faceva piangere di rabbia oltre che di perdita. Era quel pianto di reazione a qualcosa che ancora non capisci razionalmente, ma che rimetti in ordine nel tempo e che si chiama rispetto. Era una mancanza di rispetto. Una violazione da parte di quella fetta di mondo in cui le persone adulte non si comportano come dovrebbero nei confronti dei bambini. Poi è passata, le maestre sono state in gamba e i compagni di classe a quell'età sanno avere una sensibilità che tendiamo a dimenticare crescendo e poco dopo non ci pensavo già più, ma quel gelato... è sempre stato rubato. Già, rubato, non perduto. Rubato assieme all'innocenza, simbolismi che nei sogni mi vengono riproposti sotto forma di un cane nero che azzanna mio figlio mentre io non riesco a proteggerlo. E poi ho perduto l'amore. E mi è anche stato rubato. Entrambe le cose. Oltre che averlo gettato via. E il tempo. E una serie completa di Masters of the Universe che ho dimenticato sulla spiaggia come un coglione (che pianti). E anche alcuni amici che valeva la pena tenersi vicini e perdonare oltre che cercare di farsi perdonare.
Molte volte ho temuto di aver perduto me stesso. Ci ho pensato spesso a questa eventualità. Dopo tanti anni ho capito che Shakespeare aveva ragione: totus mundus agit histrionem. Se fossero solo gli attori a recitare, allora i teatri sarebbero luoghi sacri. Ma dato che tutti al mondo recitano la loro parte allora i teatri stanno al mondo come una goccia d'acqua sta al mare.
Forse nessuno, quindi, perde mai se stesso. Quanto meno se non fa un uso troppo ordinario di sostanze allucinogene. Quanto meno se ha un certo riguardo del equilibrio psicofisico. Cambiamo la parte che dobbiamo recitare, o scopriamo semplicemente che il tempo che abbiamo a nostra disposizione si assottiglia e decidiamo di comportarci in modo conseguente. O a volte, semplicemente, non dedichiamo abbastanza tempo a sederci sotto un albero a mangiare biscotti fatti di veri boy scout e bere limonata fatta da veri limoni, o quando siano intorno al fuoco pensiamo a suonare e non a trovare compagnia. Ma da una parte... meno male che ci sono quelli che suonano, così almeno qualcuno può divertirsi. Forse, nelle rivelazioni che il sonno della ragione mi porta, spero di trovare davvero la mia nave incagliata, come mi si profetizza e che quella belva feroce non mi annusi troppo presto. Che mi lasci il tempo di sfuggire, mettermi il salvo, perché se la uccidessi, sarei ancora io a sanguinare.