The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Mabon 2011

Mabon 2011

Questo mondo sta girando intorno me
Questo mondo sta girando senza di me
Tutta la vita trasforma il futuro in passato
Ogni passo che faccio mi porta più vicino all'ultimo che farò


È difficile ripercorrere indietro una via talvolta, come arrotolare un filo e sentire i nodi tra le dita, come piccoli calli. Anche se riteniamo che sia giusto farlo. Io ci credo fermamente. E posso dire di aver avuto anche tempo per rifletterci e per giungere a condividere, esprimere e cercare alcuni punti di vista. E a volte raffrontarsi con i pensieri del proprio passato è come fare i conti con qualcuno che non vedi da un po', come uscire a bere una birra con un vecchio amico. Finisci sempre per sbronzarti, cazzo. Eh sì. Lui continua a ordinare da bere, il padrone del locale offre, vuole farti provare quella birra speciale, quella combo da un litro con il bicchierino sul fondo che, grazie al metodo lenta cessione (rubato alle pillole di vitamina c) rilascia il suo ripieno di whisky invecchiato abbastanza da poter prendere da solo l'ascensore. E via. Altro giro altro regalo. Di fronte a questi scontri alla fine ti ritrovi a tornare a casa sui gomiti, o magari in cariola, come Animal House. Ti mollano davanti a casa, citofonano e scappano. Qualcuno verrà ad aprire.
Se ci ripenso mi viene il cimurro. Vorrei fare una di quelle vacanze, tipo portare la belva a conoscere Babbo Natale. Una sorta di viaggio iniziatico al Polo Nord. I sogni bisogna coltivarseli no? E poi là nel regno della massima tenebra, da dove veniamo tutti, io ci sono stato un sacco di volte, ma mai camminando nella neve. Uno dice: che serve? Compri due biglietti low cost, ti organizzi il giubbotto di jeans pesante con la pezza dei Deicide perché farà freddo, sciarpettina avvolta intorno alla faccia del cucciolo e via, che la slitta abbia pietà di noi ed eviteremo la merda di renna se riusciremo.
E invece no cazzo. Invece no. Il business ti stende anche su quello. Sulla cima del mondo ci sono solo due alberghi del cazzo. Dico, ma non ce l'avete lo spazio per costruirne un paio di più? Non ce l'avete un letto, qualche cazzo di seno su cui riposare, una tazza di cioccolata al peperoncino per le serate bollenti, "una tombola per natale, quattro petardini a capodanno e le sbarre alle finestre perché abbiamo paura degli zingari"? Io se proprio devo, lo condivido volentieri il materasso con una lappone per scaldarci... Ma non mi venite a dire che gli elfi devono scavare nel giardino dietro casa per nascondere i soldi, per favore... c'è una tundra talmente vasta che si stende per tanti di quegli ettari che talvolta le renne impazziscono e cominciano a parlare da sole perché si perdono dal branco e le ribeccano dopo mesi per scoprire che hanno sviluppato delle nevrosi da erbivori tanto profonde che hanno cominciato a mangiare salmone perché si sono dimenticate come si rumina e le trovano che bramiscono da sole come i cavalli pazzi di Coagh (Chi ha bramito? Chi è stato?). E se pensi poi che con il piede fesso non è facile organizzarsi la solitudine diventa un problema ancora più grave.
Insomma, può essere che per poter andare a conoscere uno nordico vestito di rosso che lavora per tre giorni l'anno mentre sta seduto su una sedia e che la sua unica fortuna è che ha una vera barba bianca e che mantiene il suo status di lievitazione naturale grazie al giusto apporto di alcol e dolci dovrei praticamente vendere la macchina, l'intera mobilia e con probabilità dover condividere i miei pasti con i gatti per qualche mese? No. È solo che stracciate i sogni delle persone come le lettere del canone Rai recapitate in casella, tutto qui.
Senza dimenticarci poi che la faccenda di Babbo Natale cede ogni anno di più sotto i duri colpi assedianti delle TV che parlano sempre come se i divani e i telecomandi fossero appannaggio di soli adulti, dei genitori che non hanno un cazzo da fare se non distruggere la fantasia dei figli e di tutto il sistema che ci gira intorno. A volte mi sembra di dover combattere queste battaglie a fianco di Legolas e Gimli nel Fosso di Helm. Sul ceppo c'è anche la bellezza e la serenità dei bambini. Loro sono ora ciò che noi eravamo un tempo, ammesso che ci sia stata concessa la possibilità di vivere l'infanzia in modo civile e decente. Con tutto ciò che succede nel mondo a volte vorresti solo poter avere paraorecchi e paraocchi da mettere addosso ai nostri figli affinché possano continuare a sognare e vivere tranquilli, per qualche tempo. Metti la testa sul cuscino, annusa l'odore di lavanda selvatica che si sprigiona dal sacchettino per i bei sogni, chiudi gli occhi e non ci pensare, il mattino è lontano. Quanto meno per qualche tempo poter filtrare il mondo, continuare a credere che quella giustizia universale che esiste e che mette a posto le cose non segua vie burocratiche costituzionali e sapere che alla fine non possiamo risolvere tutto bevendoci una Guinness e sorridendo di lato (uno dei miei sorrisi di cui dicono si possa scrivere un trattato per le diverse espressioni e i diversi significati che hanno) anche se ci piacerebbe da matti che ci fosse possibile. Ma quanta cazzo di Guinness dovrei bermi poi? E quanto è bello pensare che sia così, che il Rock n Roll sia davvero un'opinione, che possano esistere dei Peace Game dove è difficile vincere perché devi pareggiare.
Quando poi guardi un tramonto pensi che i giorni siano passati, sfuggiti, perduti... ed effettivamente non torneranno mai più e il mondo gira, senza che una persona lo possa fermare, possa dire: "cazzo fermi tutti, io voglio scendere!" O forse non è così? Nel senso sì... non c'è cambiamento in questo ma... ogni giorno passato, sfuggito, peruto... è un giorno vissuto. Possiamo aggrapparci con le unghie e con i denti ma questa sabbia scorre via comunque, senza che ci sia possibile fermarla. E se non scorresse, se si fermasse, noi ci fermeremmo con lei. E lo so io, lo sappiamo tutti.
Quanto avrei voluto che Babbo Natale si fosse dimenticato di me per qualche anno... che fosse passato via dritto, senza fermarsi con il suo sapore di torrone e miele e nocciole e l'odore di plastica di quell'abete finto che illuminava la sala dove dormivo di quei colori rossastri e la riempiva del suono elettrico del led che si accendevano e si spegnevano. Chisssà, magari se mi avesse ignorato io avrei potuto ignorare lui. Forse con questo distacco dentro, con questa presa di posizione, il respiro non sarebbe stato così difficile in alcuni momenti.
Quanto c'è da fare. Quanto c'è da vedere e dire. Rami liberi le mie mani. Quanto più legate non lo sono mai state. Niente prigioni ma solo dimore. E come artigli di corvo e piume d'aquila e teschio di gufo, consumata non conosce sosta. Come quella fonte, ventre meraviglioso che sgorgava in cascata libera, scavando sotto di sé, gorgogliando la sua lingua acquatica e antica. Se ti avvicinavi ti attraeva a sé, gelida, immensa, violenta, come sassi sulla pelle, sentivi sparire i ciottoli da sotto i piedi mentre le sue mani di spuma ti afferravano le caviglie e ti trascinava verso le sue profondità vorticanti dal quale niente che non respiri acqua può pensare di uscire vivo. In un eterno su e giù, nel diaccio bacio, nello stringere di carezze ghiacciate, come tante piccole dita lungo la spina dorsale.
Come si arrotola tutto; spire di vento e lingue di nebbia. Vaghi, forte, deciso, scavi nel discendere; spalancate le porte, senza gioielli. Ecco che il sentiero si apre, vago e indistinto. E quante cose possiamo pensare di poter fare nella nostra vita. Decine, centinaia. Mi ricordo quando andai a iscrivermi alla lista di collocamento. Si pretendeva da me che sapessi che fare di ciò che sarebbe stata la mia vita, senza che mai e poi mai avessi mostrato, in tempi addietro, capacità istintualmente profetiche. Mi metto in fila e quando giunge il mio turno mi trovo di fronte un'annoiata impiegata statale con gli occhiali in bilico sul naso. Alza la testa e i suoi occhi divengono enormi dietro le lenti mentre mi chiede: "Mansione?"
Mansione? Mi è sfuggito qualcosa o questa è una lista di collocamento? Io, che vivevo così, come quei geniali incipit di Andrea De Carlo: "eravamo tutti e due così magri e perplessi, così provvisori nelle nostre vite, da stare a guardare come spettatori mentre quello che ci succedeva entrava a far parte del passato, schiacciato senza la minima prospettiva". E sì, "facevo l'esule in terra natìa, facevo l'artista difficile che non sa ancora quel è la sua arte; cantavo canzoni non mie, cercavo di esprimere non appartenenza a quello che avevo intorno. Ero quaranta per cento modi di essere, sessanta per cento modi di fare, e non c'era un momento in cui non me ne rendessi conto. In compenso stavo attento ai suggerimenti delle circostanze e alle minime possibilità nascoste delle pieghe nelle situazioni, non tralasciavo nessun segnale. Attraversavo la città come un cacciatore in un territorio quasi privo di cacciagione: potevo seguire la pista più sottile per settimane o mesi, fino a che non si dissolveva nel nulla o mi distraevo dietro un'altra traccia". Con questa consapevolezza credo di averla guardata con la decisione di chi si vuole perplimere per forza; e a suon di mi perplimo io, ti perplimi tu, e prima o poi ci perplimiamo tutti quanti, mi sono domandato che cazzo potessi suggerirle di scrivere su quel libretto di lavoro. Suppongo di aver balbettato qualcosa di curiosamente sarcastico o chessò, forse di scene come queste lei ne aveva già viste anche troppe per trovarle buffe o divertenti e non pensare alla fila che si snoda e che si irrita minuto per minuto e quindi senza trovare in tempo record una soluzione; fatto sta che mi ritrovo fuori dal portone di via Lepetit con in mano quel cartoncino desolatamente bianco. Vi trovavo una scoraggiante similitudine con il risultato di una qualsiasi interrogazione della mia professoressa di matematica delle superiori: Giuseppina Lavizzari, quando mi chiedeva di risolvere l'equazione che aveva appena esposto alla nera lavagna dietro di lei: scena muta. Osservai quello strano documento con leggera dovizia. Nel campo riservato alla mansione, con quei caratteri decisi il mio libretto recitava: "Operaio generico". In poche parole ero stato deliberatamente accomunato a quella curiosa categoria di lavoratori che non era né carne né pesce: totalmente nullo in qualsiasi cosa. Fossi stato specializzato in qualche tipo di lavoro quanto meno sarei stato classificato con il più accattivante termine di "operaio specializzato". Specializzato in che cosa poi? Non si sa. Ma dopotutto quello era un problema differente. Una stronzata la si poteva inventare al momento per colmare la lacuna. Ma così era davvero desolante. Andando a casa in metropolitana leggevo Pirandello, ma continuavo a rigirarmi quel libretto tra le mani tra una fermata e l'altra, sospendendo la lettura. Che cosa significava? In che modo tutto era cambiato? Ero senza lavoro prima e lo ero anche adesso, ma in qualche modo la società ora lo sapeva, ne era informata, ne era al corrente. Senza che fosse necessario per me dirlo. Eccezionale. Ora quando nelle loro statistiche istat del cazzo si fossero messi a contare gli operai generici potevano aggiungermi alla lista e se ci avessero messi in ordine alfabetico sarei anche stato uno dei primi, come quando chiamavano a scuola. Sempre il primo cazzo. Stessa sorte toccherà alla belva. Mi dispiace piccolo, è una tradizione che si tramanda da generazioni quella di essere chiamati per primi e non ti arrabbiare: sbaglieranno sempre il tuo cognome. Comincia a non prenderla sul personale ora, ci abbiamo già provato noi. Non abbiamo risolto granché. Pensa che alcuni pretendevano anche di avere ragione su come si pronunciava.
"Tu devi essere Igor".
"Sì, ma si pronuncia Aigor".
"Mah, mi hanno detto essere Igor". "Avevano torto non le pare?"
Arrivato a casa, dopo quei lunghi minuti che, nel loro scorrere, mi concessero il lusso di deprimermi e perplimermi ancora di più, gettai il libretto sulla credenza in cucina affascinato dallo stupendo ruotare che aveva descritto volando attraverso la stanza. Stava cominciando a mostrare una certa aerodinamica propensione al volo. Forse una certa utilità recondita poteva averla. Abbandonatolo assieme alle chiavi di casa sul ripiano in formica me ne tornai sul divano a leggere le Novelle per un Anno di Pirandello. Se avevo fortuna l'incavo del mio deretano non si era ancora deformato e potevo riprendere la posizione comoda faticosamente ottenuta in molti giorni di precario fancazzismo. Quando mia madre entrò in casa e vide il libretto, al contrario mio si illuminò di immenso e venne a congratularsi con me; era un periodo in cui l'apoteosi del nostro dialogo era costituito da qualche mugolio di compartecipazione da parte mia a qualsiasi argomento decidesse di intavolare. Se insisteva a parlarmi significava valicare incautamente e deliberatamente il confine invisibile e dichiarare guerra. L'adolescenza per me finì quando feci scatoloni dei miei libri svuotando i tre quarti della libreria e me ne andai di casa.
Quando mio padre tornò a pranzo un'ora dopo mia madre le mostrò il libretto di lavoro con quell'orgoglio che non capivo, come se si trattasse di una laurea in economia conquistata con maestosa fatica, come un'opera di Verdi. "Abbiamo un altro operaio in casa" esclamò eccitata. Dietro, in sottofondo, c'era quel tono che ormai conosco bene, quello lievemente più alto del normale, come per voler rimarcare una notizia affinché fosse chiaro a me che mio padre lo sapeva e che fosse chiaro a lui che io sapevo che lui sapeva. Era quello stesso tono che sentivo quando mia madre lo informava dei miei debiti o dei miei meriti scolastici. Vedendo questa scena però mi ri-perplimei: ero io l'unico che non condivideva il loro entusiasmo?
Poi nel tempo ho capito il perché di quella recita in perfetto stile francese: secondo il loro punto di vista il vero lavoro era quello, è sempre stato quello e sarà sempre quello: produrre qualcosa, ottenere materialità, avere stabilità. Crescendo con il dubbio del pane in casa quando erano bambini, era il minimo che ci si potesse aspettare. Sono figli della seconda guerra mondiale. Hanno conosciuto il rumore delle sirene che annunciavano i bombardamenti alleati, il suono degli stivali alti dei fascisti che marciavano, la voce pomposa del duce con le mani sui fianchi e la pancia in fuori, il gusto del pane nero e la razionale invidia per chi poteva permettersi scarpe e matite colorate a scuola. E sono parte di quell'inprinting che non li abbandonerà mai.
Ora che da quel momento è passata giusto una dozzina di anni (ad essere gentili con me stesso e quasi a mentire spudoratamente - concedetemi questa leziosità) mi rendo conto che a volte alcune cose non le vediamo quando dobbiamo. Magari se potessi vedere meglio e se servisse mi strapperei le palpebre, così che non debba dormire per non perdermi i dettagli, ma... in fondo non servirebbe. Non sappiamo scegliere se realizzare sogni o vivere una vita comparata a ciò che siamo e che saremo anche perché il più delle volte non sappiamo che cosa siamo e cosa saremo nel momento stesso in cui lo siamo. È anche per quel motivo che il mio microfono è lassù in quello spazio extradimensionale sopra il cesso, stile borsa conservante, dove riesci a dimenticarti di avere alcuni oggetti; infine è anche il ruolo dei ripostigli: aiutarti a dimenticare di ciò che c'è dentro. Inseguiamo questi sogni bellissimi il più delle volte perché la loro realizzazione è un bagaglio che ci portiamo dietro dall'infanzia, dall'adolescenza; perché credere di potercela fare è più economico del lusso di farcela davvero. E arrivi al limite di tante di quelle cose, sempre sul confine, tanto che basterebbe che una farfalla ti si posasse sulla punta del naso perché lo sbilanciamento ti faccia cadere... ma mai che ci sia un lepidottero nei pressi che mostri interesse quando ti serve e così il momento passa e tu rimani lì, con quel sapore di amaro che ti rimane in bocca; e poi, negli anni quando poi ne riparli con qualcuno, magari nelle cene dove il vino scorre come acqua e dove l'alcol ha oliato i cardini delle porte dei nostri piccoli armadi chiusi a chiave, ti rimane quello sguardo sognante e il sorriso lieve mentre racconti, come lembi di un sogno che si perde al mattino, assieme con le lame di luce che filtrano dalle persiane socchiuse affettando l'oscurità nel grigiore dell'ora di alzarsi. E proprio come in quel momento cinque minuti paiono essere vitali per non perdere il torpore del sonno, il caldo accoglimento della nostra forma sul materasso, magari quel frammento di sogno che ti dipingeva intorno qualcosa di diverso, qualcosa che non è sempre in prestito o comunque sempre dedito a quelle situazioni che poi finiscono... insomma quell'imperfezione che è sia lo schifo che la bellezza della vita.
Mi ricordo che quando feci il servizio civile studiavo quel mio latino perpetuamente zoppicante che nessuno mi ha mai insegnato e che mai ho imparato come si deve e vicino alle crocette dei giorni che passavano, proprio là, sul muro sporco a fianco al letto inferiore della struttura a castello sulla quale dormivo scrissi a matita quel passo dell'Ecclesiaste che conoscevo a memoria e che asseriva: omnia tempus habent, et suis spatiis transeunt universa sub caelo. Tempus nascendi et tempus morendi, tempus plantandi et tempus evellendi quod plantatum est. Tempus occidendi et tempus sanandi, tempus destruendi et tempus aedificandi. Tempus flendi et tempus ridendi, tempus plangendi et tempus saltandi. Tempus spargendi lapides et tempus colligendi, tempus amplexandi et tempus longe fieri ab amplexibus. Tempus acquirendi et tempus perdendi, tempus custodiendi et tempus abjiciendi. Tempus scindendi et tempus consuendi, tempus tacendi et tempus loquendi. Tempus dilectionis et tempus odii; tempus belli et tempus pacis. Quid habet amplius homo de labore suo?
E in tutta la verità di queste righe quello che era veramente uno spargendi lapides era quella domanda finale, che risuonava violenta: qual è il guadagno di colui che lavora con grande fatica?. Oh sì. È lì che tutto trova la sua epifania. Tempo per seminare e tempo per raccogliere ciò che è stato seminato. E quindi ciò che dice è vero. Qualsiasi sia la credenza, la via che seguiamo: siamo qui per un'occupazione, per credere e realizzare qualcosa, per costruire e distruggere quel qualcosa e per considerare lo scorrere di quel tempo che inesorabile ci sfugge dal principio di ogni vita alla sua fine. E come dice questo ignoto autore che narra dell'inevitabilità della vita, quella stessa "fatalità" che Hugo ricorda fosse scritta in quella parte perduta della cattedrale parigina che ha ispirato uno dei pilastri gotici di tutti i tempi: ogni cosa scorre e goderla in modi diversi è parte del grande dono della propria vita. Chiunque ce l'abbia donata. È questa la felicità dell'uomo umile e di quello colto. È la felicità del gretto e dell'ignorante, dell'arrogante e del perverso, del saggio e del genio; la natura si muove in molte direzioni diverse ma... il motivo che la spinge a muoversi follemente è uno solo.
Quindi ciò che avviene è già accaduto, ciò che dovrà avvenire, già è accaduto. Solo Dio può cercare ciò che è perduto e scomparso.. Ma dentro di noi, in quel profondo oscuro e sognante, trepido di ragnatele, là dove, ratto, si nasconde ciò che non vuol essere trovato, negli abissi di quegli oscuri recessi polverosi, del tutto simili alla camera delle necessità, dove migliaia di oggetti sono stati dimenticati, non è forse lì che noi poveri panteisti senza fissa dimora dovremmo cercare ciò che abbiamo perduto? Siamo forse sì diversi, ci fa notare, dalle fiere che vivono cacciando sotto questo stesso cielo, sopra questa terra, sotto questa stessa luna e questo stesso sole? La medesima sorte ci appiana. Come loro muoiono, noi moriamo. Per tutti il medesimo soffio vitale su cui non abbiamo alcun tipo di vantaggio; poiché ogni cosa è vanità e tutto è venuto dalla polvere e nella polvere è destino che torni.
Una volta si sosteneva che fosse il pensiero a distinguere l'uomo dalla bestia e può anche essere che sia ancora così. E questo era poco dopo il tempo in cui si riteneva che avessimo grazia di assoggettazione di ogni creatura che camminava, strisciava, nuotava o volava e di ogni fiore, pianta che germinava, fruttificava, metteva radici e di ogni pietra e lembo di terra e stagno o ruscello e di ogni onda del mare. Poi vedi elefanti dipingere e uomini riportati ai loro istinti primari e ti domandi se non sia lo stesso gioco del costruire mura intorno alle tombe per non permettere che qualcuno entri, quando invece è una mera scusa per sovvertire il reale e mostruoso pensiero che ci ha spinto a farlo invece per non permettere che qualcuno esca. Non è quindi propriamente il pensiero, sono i sogni. La vera creazione della bellezza è il pensare a ciò che potrebbe essere e cercare di realizzarlo. Questa è la risposta alla domanda di quell'ignoto adunante (o adunatrice, se vogliamo soffermarci sulla forma ebraica Qohèlet) padrone o padrona di quella forma di pessimismo che porta a leggere tra le sue righe vanitas vanitatum. No. Non tutto è vano. Forse lo poteva essere per te, adunante, in quei tempi antichi dove il potere di usare nomi divini per comandare "entità superiori" era appannaggio di re ebraici cui veniva attribuito ingiustamente (e solo per via della loro grandezza e notorietà) l'aver scritto le chiavi di quella stessa conoscenza imperitura che ora, stoltamente, pare poter essere comprata per meno del prezzo di una serata in pizzeria. Forse al tuo tempo lo sterco di vacca non produceva fiori o forse il pensiero era portato ad un desiderio di completezza che disconosceva l'imperfezione come un computo proprio di ciò che ci dà un significato stesso nel vivere, nell'esistere.
Se tutto fosse realmente vanitas vanitatum, come tu del resto affermi, perché mai (ecce homo) privi di speranza avremmo accumulato secoli di sogni realizzati e costruiti per avvicinarci a ciò che desideriamo essere, che sia il divino stesso o anche solo la piccola realizzazione di noi stessi e del futuro di chi amiamo? Nel piccolo come nel grande, come sopra così sotto, è questo che ci distingue, che ci eleva e che ci rende diversi. E già. Perché sul mio libretto di lavoro, attualmente in mano all'azienda per cui lavoro come consulente informatico c'è ancora scritto: "operaio generico" a penna. Eh sì. È forse questo ciò che sono? È questa targhetta scarabocchiata che permette a qualcuno di poter decretare ciò che una persona sarà, incasellata in precisi schemi senza una via di uscita? Ciò che è stato è già stato e ciò che sarà è già stato perché è stato deciso da principio? E nelle immense e dedaliche vie che il destino, se proprio vogliamo credere che sia immutabile, prende forma e crescita, qual è il ruolo della volontà, della decisione, della scelta? Non c'è? Ogni scelta è portata ad una precisa e principale visione d'insieme in cui siamo come marionette prive di un reale desiderio e del potere di realizzarlo? Questo è ciò che tu, adunante, ci vuoi dire? E tu, cazzo, duemilatrecento anni fa che cosa l'hai scritto a fare quel libro se non per realizzare un pensiero, anche se pessimistico? Lo hai fatto solo per ricordare ai giovani di rallegrarsi della loro giovinezza? Se non volevi che qualcosa cambiasse, anche solo nel prendere coscienza di ciò che tu hai concluso, che tutto è vanità della vanità, perché hai perduto tempo ad esprimerti? È umano e, in questo caso, pretende di esserlo anche dal nostro limitato punto di vista estetico. Quindi secondo tale principio imperituro non può essere vano e fine a se stesso perché nel momento in cui, (e considerate se questo è un uomo che muore per un sì o un no), decidiamo di lottare per cambiare la nostra situazione e lo facciamo anche nel momento in cui potremmo pensare che è vanitas; lo facciamo anche quando lo schiacciante peso dell'ineluttabilità di una situazione ci rende qualcosa di meno di un essere umano, quando la rassegnazione fa a pezzi ogni sogno e ogni speranza. Anche in quel momento, nella vanitas vanitatum il nostro ruolo ha un cardine per noi stessi su cui possiamo far muovere le cose e cambiarle. Possiamo così afferrare quel cibo che nei sogni ci appare innanzi prima che scompaia.
Quindi, sì, puoi anche dimenticarti di me Babbo Natale, vai via dritto. Io ho dato. Ma io non mi dimenticherò di te perché voglio credere nei sogni, nell'infuso che ci dà la possibilità di realizzarli senza vivere in funzione di loro ma anche solo attendendo per anni (proprio come un'arpa vicino al letto) che il momento giunga e che tutto ciò che si frappone fra noi e loro si discosti per permetterci di scorgerli un pochino più vicini. A volte il tempo passa e poi guardi indietro e ti rimane il sapore in bocca di ciò che è stato e questo ci permette di ricordare, vivere e assaporare. L'esperienza in se stessa, come giorni, non è perduta ma vissuta. Se realizzi questo molto puoi fare. In fondo, come dicono gli Spandau, pensavo fossimo la razza umana, ma siamo solo un altro caso limite. Ma le stelle ci dicono che c'è sempre una via di uscita. Anche se siamo nati in punti differenti della vita e del mondo proviamo tutti quanti le stesse cose e ci ritroviamo innanzi agli stessi identici conflitti. Magari li risolviamo solo in modo diverso. Dopotutto c'è sempre chi si spacca la testa contro i manganelli e chi invece sta seduto a dirti come potertela far spaccare in modo più adeguato e senza far sì che il tuo sangue schizzando gli sporchi i vestiti mentre sta a guardare. Dopotutto è anche questa virginale arte naïf che fa parte dello scazzo spirituale no?

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