The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Oestara 2010

Oestara 2010

Sai, Madre, una volta su un libro della Yoshimoto lessi che le storie d'amore finiscono quando ne vedi la fine, e che se non ne vedi la fine significa che sono destinate a durare per sempre. Mi pareva fosse "L'Ultima Amante di Hachiko". Per un periodo della mia vita ci ho creduto. Ora non ci credo più. Ora vedo e so che ci sono dei cicli e che questi cicli si ripetono, come anelli di una catena che scorrono giù, nelle oscurità di un oceano, ad inseguire la loro ancora che sprofonda negli abissi. E non li puoi fermare, interrompere. Man mano che passano gli anni me ne rendo conto sempre di più.
Tu mi hai insegnato che i nuovi inizi in genere hanno sempre tanti propositi, ma seguono sempre una morte, uno schema ben preciso. La vita comincia dalla morte. La vita si basa sulla morte stessa. Le mie piante lo sanno bene. Sono morte quasi tutte; per quanta acqua abbiano preso si sono ingiallite e sono morte. Ma stanotte, sai, ho fatto un sogno peculiare. Ho sognato che davo loro da bere e che in pochi minuti il mio mandarino cinese, l'alberello, aveva già due o tre foglioline verdi. Io non ero sorpreso, me lo aspettavo. Dal giallo le foglie tornavano ad essere vive, intense, color smeraldo. Era una visione estatica. Quei rami, piccoli, in miniatura, si riempivano di nuovi germogli e le foglie vecchie non cadevano, ma tornavano verdi e giovani proprio come se avessi messo dito alla lancetta e avessi fatto girare l'orologio al contrario.
A ripensarci adesso, in merito, mi dico che avrei dovuto passare sotto le tue gambe a Samhain. Avrei dovuto davvero. Eri lì, con il telo nero e bianco addosso, il volto meraviglioso diviso in due, metà nero e metà bianco. Eri l'equilibrio della bellezza. Mi hai guardato e mi hai detto: "Rinasci anche tu" e io ho detto di no. Avevo aiutato molti a venire al mondo, abbracciandoli, tenendoli stretti a me e dovevo essere io, quella volta toccava a me. Ora mi chiedo perché. Perché ti ho detto no? Perché ho tentennato in quel momento? Quando i fuochi bruciavano dietro di me, mentre il vestito mi aderiva addosso nel freddo della notte, perché ho esitato? Avevo bisogno di rinascere, di tornare al mondo, di cambiare pelle, proprio come il serpente e la farfalla. Eppure ti ho detto no. E se tu avessi insistito, anche solo una volta, mi sarebbe bastato. Ma tu non hai detto nient'altro e io ho taciuto con te. Poi ci sono stati i canti intorno al fuoco, l'idromele e così tutto è sbiadito.
È stato così che nel percorrere, nello scorrere, nell'esistere stesso ho turbinato. Madre, ti ricordi quella canzone che scrissi? Sì lo so, è così vecchia ormai! Ma come quale? Dico quella che finì in classifica su Vitaminic! Settimo posto al mondo tra le più scaricate. Mi arrivò la mail del sito che mi avvisava che la canzone della mia band era in classifica. E pensare che era una registrazione di merda, fatta giusto perché il batterista ci stava lasciando e ci serviva avere una base per il sostituto. Andai a vedere e notai che prima di noi c'erano gli Aerosmith e dopo di noi c'erano gli Slayer. E in quei giorni strani, senza aspettative perché io ero senza uno scopo, senza consapevolezza perché io ero senza alcun limite, ci fu la mia occasione. Venni contattato da case discografiche, promoter, produttori. Ma ecco la beffa: quella classifica, quella mail, le notai troppo tardi. Complice fu la mia poca dimistichezza con internet (parlo di undici anni fa) e forse anche la mia svogliatezza dei ventun anni. Insomma, la band si era già sciolta. E nei mesi e anni a venire, quanto ripensai a quelle mail, a quelle proposte, mi tormentavo, sempre e sempre. Vissuto il non vissuto, che ti rimane?
Ti rimane l'illusione. Ed era proprio ciò che dicevo in quella canzone, ispirata alla nota tragedia di Euripide, quella che parlava della strega infanticida, della madre tradita, divoratrice e vendicativa, la moglie di Giasone: Medea. "E allora satura anche il mio cuore, cosicché io non possa più amare, perché grande è l'illusione di essere importanti". Quando cantavo quella parte, nel microfono, sapevo che cosa stavo dicendo? Oppure semplicemente erano belle parole? E se era così perché le scrissi? Perché colsi e mi lasciai cullare. Perché sentii ciò che era. Perché forse uno spiraglio mi si aprì innanzi e io vidi e cantai. O forse furono solo le parole giuste che mi giunsero da chissà chi e chissà perché e io le urlai nel mio rozzo e ancora ineducato stile di canto in quella registrazione che finì nel momento giusto al posto giusto. Peccato che io dormissi.
Sono questi i momenti di cui parlavo in quella canzone? Quando sai che devi tornare a casa e mettere la tua vita dentro degli scatoloni di cartone? Quando sai che ti aspetta quello: ti aspetta il rivedere ciò che sei stato in tanti anni e metterlo via, chiuderlo al buio, trasportarlo e non sapere quando potrai dargli una nuova dimensione, una nuova vita, un nuovo spazio, un nuovo respiro. Quanto è difficile crescere, Madre. Cazzo. Quanto è difficile accettare, imparare, capire, maturare; ed è difficile proprio perché dobbiamo farlo e non possiamo scegliere. Perché se potessimo scegliere davvero, con la cognizione di causa che ci serve... rimarremmo tutti bambini per sempre. Vivremmo la nostra infanzia ignorando l'età adulta e le fasi intermedie e continueremmo così, a piangere per un gelato caduto a terra, a litigare per due caramelle o per chi deve usare per primo un gioco, a fare la gara per vedere chi è più veloce, a morire dietro i cataloghi dei negozi di giocattoli. Ma come sempre, tutto va al contrario.
Sai, questo Oestara ti ho invocata due volte nel cerchio. Una ad alta voce e sei calata subito, violenta come un ferro da stiro sulla faccia, e poi di nuovo, lentamente, ti ho sentita crescere durante la danza del risveglio. Quando ho preso quei semi di belladinotte e li ho messi nella terra dopo aver disegnato il mio intento, ecco che ti ho invocata di nuovo e ti ho sentita. Ed eri una carezza ed un abbraccio, eri sia la culla che la coperta. Ed io ero al sicuro perché ero sia il seme che l'acqua.
Ti ricordi quando ero sulle rive di quel lago magico, sul colle del Grauson? Quanti anni sono passati? Quanti??? Ventidue? Accidenti. L'acqua era bassa e faceva specchio, immobile, del cielo e dei monti, come coltelli con le punte a pungere il culo alle nuvole. E ti ricordi? C'erano quegli stambecchi che si arrampicavano su quell'anfratto pietroso come se fossero i tre scalini che portano ad uno scivolo per bambini e non un pezzo di roccia a strapiombo sulla valle del Gran Paradiso; lo facevano con quella disinvoltura tutta loro, senza provar vergogna di non aver le vertigini. Si muovevano disinteressati, con i palchi ricurvi che si stagliavano contro il bianco azzurro del ghiacciaio. Certo, come faresti a non ricordartelo? Fu in quel giorno che io imparai a far rimbalzare i sassi sull'acqua. Mio fratello mi aveva sempre insegnato a scegliere quelli piatti, ma al mare con le onde ero un impedito e, non essendo mai stato dotato di eccessiva pazienza, la frustrazione del non riuscire mi portò a gettare la spugna. Fu così che su quel lago immoto, specchio stesso del grande cielo, mi feci una promessa. Vi sarei tornato altre due volte nella mia vita: una volta per capire che ne sarebbe stato di me e una volta per donare quel luogo in eredità a qualcuno. La seconda volta ci sono già stato, ti ricordi Madre? Erano passati sedici anni dalla volta prima e io mantenni la mia promessa. Versai lacrime quel giorno. Mi ararono il volto come rastrelli. Lunghi solchi profondi. Poco dopo Sara rimase gravida e nacque lui, il mio piccolo campione. E allora capii che quello era il mio destino e che il mio erede era scelto. Adesso quel lago ancora attende, Madre, la mia terza volta. Non so quando sarà, ma sarà. E ci andrò con lui. Perché le cose belle, quelle cui siamo tanto legati, si regalano alle persone che si amano; è così che le si tiene belle e meravigliose per sempre. È così che le si protegge da chi vuole portarcele via.
Adesso, in questo momento solstiziale, tra luce e tenebre, io ci penso, sai Madre... e mi ritrovo invidioso di quei sassi, di quel lago, di quegli stambecchi. Perché vorrei saltare anche io sull'acqua, perdermi i momenti in cui non sono a contatto con la superficie; e così rimbalzare via, lanciato a velocità supersoniche fino all'altra riva. E vorrei anche io essere come quella superficie: avere solo il cielo e i monti che mi guardano, poter stare placido e immobile senza dover per forza vivere di dinamismo, ma solo steso nella mia conca di roccia ad attendere il ghiaccio e poi il disgelo. E vorrei anche essere come quegli stambecchi, e come loro non aver paura di cadere mai, ma poter essere sulla cima del mondo e guardare tutti di lassù, come fossero formiche; non avere altro che il vento dell'altezza nei capelli, poter guardare la grande aquila negli occhi iniettati di sangue e sedermi a dormire sulle stelle alpine a giocare ai fischi con le marmotte, senza temere né la vipera né la valanga, né la frana né il cacciatore.
Quanto inseguiamo la consapevolezza, Madre. La inseguiamo sempre. Eppure quando l'abbiamo, spesso in cambio della giovinezza e del dinamismo del corpo (come soleva dire una mia vecchia amica), ecco che non la vogliamo più perché ci fa soffrire, ci fa star male, ci fa vedere le cose per come realmente sono e ci fa accorgere tutto ad un tratto di ciò che è stato, di ciò che abbiamo perduto, di ciò che non avremo mai perché lo abbiamo scambiato, barattato. E ci sono momenti, e ci sono per tutti, in cui vorremmo poter avere la possibilità di barattare al contrario. Con un terribile cambio a perdere, piuttosto, pur di poterlo fare, averne la facoltà. Anche solo il sapere di poterlo fare ci farebbe stare meglio, più in pace, più in armonia. Ma sarebbe anche quella una grande illusione del cazzo. Lo sappiamo bene. Perché ci sederemmo anche su questa cosa e ci perderemmo nei tramonti, spostando solo un po' la seggiola, o coltivando fiori venuti da chissà quale pianeta e ascoltando le loro lamentele, o addomesticando volpi per avere un amico e poi ci ritroveremmo a disegnare scatole bucate per permettere alle pecore al loro interno di respirare. Anche gli aviatori che cadono nel deserto sono malinconici. È così che prende e perde senso tutto quanto: a fasi alterne. A cicli. E non è forse così che ti piace gestire sempre le cose? A spirali? Tutto va e tutto torna. Sempre.
Cazzo lo sai che i nuovi inizi fanno sempre paura. Lo sai. E lo so anche io quanto questo nuovo inizio mi fa tremar le gambe. Ma devo affrontare questa cosa a nervi saldi, a pugni chiusi e devo mettere la rabbia da parte. In una casa deserta le mura potranno apparirmi più opprimenti, più chiuse su di me, ma a lungo andare diventerà un rifugio. L'attesa, la rinascita, la forza, li sento ora come tre spettri dietro di me, che mi deridono ghignando malamente, ma io so che urla e ringhi non sono sempre la risposta e che tutti abbiamo diritto ad una nuova possibilità per ricominciare, per rivedere ciò che siamo e cercare di sistemare le cose. Tutti quanti. E non conta più quanto è giusto o quanto è sbagliato. Conta solo che è giunto il tempo del nuovo ciclo e con il nuovo ciclo comincia una nuova serie di cambiamenti.
Sai Madre, con quell'egoismo tutto umano, a volte mi piacerebbe prendere Morgan per mano e andare via. Portarlo via e ricominciare io e lui. So che lo farei solo perché so di non poter nemmeno immaginare la mia vita senza stargli vicino, ma maschererei il mio bisogno per una soddisfazione di un suo bene, quando non è quello che lui vorrebbe; ed ecco dov'è l'egoismo. La nostra vita è nostra di diritto, ma i cambiamenti cadono anche sulle persone che amiamo e se le vediamo soffrire, le vediamo stare male, se le vediamo rifugiarsi sotto il letto a tenersi le mani sulle orecchie e urlare per ore, facciamo fatica a capire cosa possiamo fare perché non piangano più.
Madre, ti prego, aiutami a non dimenticare. Aiutami ad accettare, sì; a perdonare, certo; anche a cambiare ciò che posso, ma anche a non dimenticare. Perché quando il dolore è forte tendiamo a difenderci e a dimenticare. E io non voglio dimenticare.

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