The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Yule 2010

Yule 2010

La Terra gira come una giostra durante l'infanzia
E sulla terra vorticano i venti della Perdita
I venti della perdita, separazione, rancore e rabbia
Non si possono nemmeno contare
Soffiano da ogni crepa
Scardinando la porta del cuore delle persone
Infrangendo le speranze ed insinuando la paura
Soffiano i Venti.. soffiano i Venti


Una volta mi raccontarono di un posto al mondo dove il buio dura sei mesi. Non ci volli credere. Come poteva non sorgere mai il sole in quel luogo? La credevo una di quelle leggende strane e misteriose come... chessò, Atlantide, lo Yeti, la via dai mattoni gialli, i fantasmi, l'amore che dura per sempre, l'Area 51, il bacio sotto il vischio, il prato di stelle alpine dietro i tre picchi nella Val di Cogne, la camera segreta tra le zampe della Sfinge e tante altre cose. Poi un giorno ho scoperto che alla fine non era una leggenda e che un posto così esiste davvero e che è, come dice Tigro, un mistero non più misterioso. Forse questo avrebbe potuto farmi sperare, nel corso del tempo, che anche le altre non fossero solo leggende; secondo la legge transitiva avrebbe dovuto essere così. Diciamo che ad alcune altre cose comincerò a crederci quando il Dottor Zahi Hawass, segretario generale del consiglio supremo delle antichità egizie si deciderà a dare il via agli scavi e a smetterla di affermare che la Sfinge è costruita su un blocco unico di granito. E pensare che alcuni blocchi, diecimila volte più leggeri di quello, nessuno riesce mai a spostarli. E non è perché ci siano sdraiate millenarie sfingi con tutti i loro enigmi e segreti... E pensare poi... che alcuni di quei blocchi li ho scavati con le unghie e con i denti, in lunghe gallerie che li hanno infine fatti afflosciare su loro stessi, vuoti e molli come mute di serpenti. E guardandomi indietro, che è stato? Un dirupo varcato in salto, inseguito dai mostruosi Kalidash? O una lenta caduta ancora non terminata, tanto lunga da apparirti immobile sospeso nell'oscurità? O forse un lento affogare, colto, afferrato, straziato da un vortice che ti tiene per i piedi? Ho il ricordo dello sguardo sulle mani, soprattutto. Non me lo dimenticherò mai. Certe esequie sono premature. Altre no. E con la voce che sa di terriccio e la gola arida, secca, potrei forse descrivere a parole rotte ciò che ho visto.
Dopotutto è solo un punto di vista. In visioni a noi aliene per quanto vicine fatichiamo a credere che tutto il mondo non stia in una scatola di scarpe, quando in realtà nella scatola di un paio di scarpe ci puoi mettere il mondo intero: dipende solo dai luoghi che hai visitato con indosso le scarpe che lasci riposare lì dentro.
E forse che il cuore è anche lui un po' viaggiatore, anche se non narra volentieri dei lidi visitati e abbandonati come di quelli di cui conserva speranza di ritorno, perché caleidoscopicamente vive in questo mondo estraniato dal suo stesso concerto di battiti privi di un vero, reale motivo, se non quello di saper assolvere allo scopo per il quale è stato incastrato nel nostro petto: vita e amore. E che sia amore anche per quei viaggi. E nei viaggi, mappe. E nelle mappe, cicatrici. E nelle cicatrici, ricordi. E nei ricordi, insegnamenti. E negli insegnamenti, esperienze. E nelle esperienze, crescita. E nella crescita, saggezza. E nella saggeza, equilibrio. E nell'equilibrio, ispirazione divina. E nell'ispirazione divina, magia. E nella magia, vita. E nella vita... ancora l'amore.
E io... nel mio grande essere piccolo, penso così spesso all'amore. Magari quando sono al buio, sdraiato sul divano o sul balcone, al gelo, seduto con i piedi sul tavolino ad osservare la mia candela che brucia, e magari la pioggia che mi fa rabbrividire. E mi domando se esista veramente o se sia solamente un paradigma mentale per giustificare i nostri bisogni, come quando chiudi gli occhi, dormi, e non hai la consapevolezza di cosa cazzo stia facendo il mondo intorno a te, quindi ti escludi dal mondo ed escludi il mondo. Teatralmente "non sei". Ma non sai di non essere, perché non essendo non puoi saperlo. Semplicemente sei sospeso, collegato sì, ma sospeso; e il mondo ticchetta intorno a te, continuando la sua folle corsa di vita e morte. Ma nel sonno cosa siamo? Siamo gli occhi strappati dinanzi allo specchio per non vedere, e poi lasciati cadere in un contenitore di vetro ermetico colmo di formaldeide; occhi che affondano lentamente nell'alcol mentre lasciano la loro nube rossastra di sangue nel fluido trasparente. Che cosa siamo? Siamo le urla nella foresta buia e il gelo che ci assale a morsi sulla pelle nuda mentre ci denudiamo e gettiamo i nostri vestiti nel calderone, fradici di neve, dove il fuoco che ci accarezza appena comincia subito a divorarli. E che cosa siamo? Siamo quelle pagine vergate nell'oscurità, con i polsi incatenati mentre qualcuno piange in un angolo e sai di essere tu; siamo qui la costrizione a dover ricordare sempre e sempre e ancora sempre ciò che abbiamo lasciato andare perché dovevamo e doverlo scrivere su quelle pagine perché altrimenti i pianti diverranno grida e qualcuno si farà male. E cosa siamo? Siamo anche i morsi degli squali che ci sbranano nei pressi di una barriera corallina, eccitati e frenetici per l'odore del sangue; siamo le persone che tentano di entrare in casa a forza, mentre noi le spingiamo fuori; siamo gli occhi che non vuoi rivedere mai più, siamo la voce che non vuoi sentire mai più, siamo il bisogno di fare capire al mondo che non sei tu. A volte speri solo che l'allodola lanci il suo canto, maledetto volatile, e che nessun felino se ne sia fatto colazione. E speri che quando ti svegli, defraudato di quei momenti, intorpidito nell'essenza stessa dei lembi salati che il sonno ti lascia addosso... speri che tutto svanisca, che il mondo parallelo si sgretoli intorno a te come lo scenario di Moulin Rouge quando Ewan McGregor e Nicole Kidman cantano "I Will Always Love You" guardandosi negli occhi. "Mi rovinerai gli affari, già lo so".
Ci pensate a volte a quanto ci appaia vacuo l'attendere il Sole? A volte semplicemente non c'è scelta. Il buio ti assale, gli occhi come fiammelle e il letto diventa ad un tratto così gelido, così dannatamente freddo e ti sembra di sentire aliti ghiacciati spirare intorno a te, come fauci ghignanti, e desideri solo che finisca. Qualsiasi cosa sia che finisca. Qualsiasi sia il prezzo da pagare, desideri solo saperlo, pagarlo e dire basta.
A che punto è la notte? Si chiede alla sentinella. Shomér ma mi-llailah? Con che insolenza, a volte, ci svegliamo al mattino e decidiamo di continuare ad insultare il nostro corpo, il nostro spirito, chi ci sta intorno, gettando falsi sorrisi, vivendo nella circostanza del disconoscere le conseguenze, arrabbiandoci con chi vive la propria vita perché deve e perché non può fare altro per sentirci giustificati in ciò che facciamo; che via comoda credere che il mondo sia ingiusto e che se io semino debba raccogliere qualcun altro e mangiare qualcun altro. E soprattutto stupido credere che se semino assenzio possano crescere margherite. Vivrò in un cimitero sì. E chi ha avuto la sventura di sentire il rumore ragliante del cancello che penzola su un cardine solo, come un bambino smarrito, può ben immaginare che aria si respiri da queste parti. Ma dopotutto i cadaveri puzzano sempre, anche se cospargi le tombe di fiori.
E quanto sa essere estraneo il mondo, quando il freddo ti gela fin dentro le ossa, quando vorresti solo fracassare tutto il tuo appartamento fin nei minimi pezzi, quando quasi speri che la luce di Alban Arthan non giunga, che nessun Mitra rinasca, che nessun Re Quercia vinca; spegnete il sole, accartocciate il cielo, donatemi solo lucciole e stelle lontane. E quando la notte sarà troppo buia chiederò alla sentinella: "Shomér ma mi-llailah?" E accenderò una candela e mi scalderò le dita. Mi accoccolerò ad osservare, come manto di neve steso sul mondo.
Che invidia, dannazione. Tutti paiono disorientati quando a me tutto è lucido e chiaro nella mente. E quando per me tutto era disordine tutti che avevano lucidità. Madre, Dea, mandami un sms, una mail, un fax del cazzo, una raccomandata, quel cazzo che vuoi, ma dimmi che cazzo devo fare. Magari ti sei argomentata anche tu nelle nuove tecnologie e io qui ancora ad osservare il planare dei corvi e il dolce danzare delle foglie d'acero per capire che mi vuoi dire, sempre che tu voglia dirmi qualcosa. Anzi, non è che mi cerchi pure tu su quell'antisocial network covo di gossip che è Facebook e non trovandomi attendi ancora ch'io ricevi il messaggio mentre mi cario i denti di cioccolato fondente? Cazzo sarebbe il colmo. E dato che non c'è limite al colmo, come quella storia del vaso in univesità, magari va a finire che le tue parole le riceve un mio omonimo evangelico o TDG che non sa nemmeno che cazzo farsene perché la sua vita è già abbastanza infelice così senza dover sapere di avere ulteriori sforzi da fare per mettersi in pari. Sarebbe palesemente consono.
Mentre sarete occupati a svitare la lampadina del Sole io camminerò. Scusate eh... Alzo solo il bavero del cappotto perché si è messo a far freddo e metto le mani in tasca: uso solo quei guantini di lana senza dita (per la serie risparmiamo la lana); sapete e a volte, quando arrivo a casa, tra il sovrano smiagolio dei gatti che implorano vivande, ho le estremità così intirinzite che potrei strapparmele a morsi e sentirei solo il calore del sangue che mi colerebbe sulle mani.
Magari nel vagheggiare mi infilerò in qualche aula di università, mi siederò in fondo, masticando in silenzio anacardi salati presi alla macchinetta. Ascolterò qualcosa, qualche opinione, avverbi, aggettivi, pronomi. Prenderò appunti. Dopotutto il mondo è fatto di opinioni, prima ancora che di persone, e noi esistiamo in funzione alle opinioni stesse. Chi se ne frega se non seguo i corsi? Tanto tutti sono sempre così immemori del conoscersi che non farebbero caso a me. Al massimo mi coprirò col cappuccio della felpa dei Saxon. Tra un discorso e un altro mi fumerò una sigaretta all'aperto, nel chiostro/cortile dell'ateneo, tenendola tra le dita intirinzite, dopo averla scroccata a qualche studente pieno di ormoni e voglia di vincere; tipo uno di quelli che non sanno nemmeno come cazzo fa il cervello a interpretare l'immagine bidimensionale proiettatagli dagli occhi e a trasformarla a tre dimensioni, ma che ha quell'innato coraggio (dettato sempre dalla passeggera invincibilità della gioventù - beata finché lo è - mescolata all'arroganza del negare l'incoscienza) di affermare che "vede esattamente dove sta andando".
Allora magari sorriderò un po', buttando fuori fumo e alito condensato. Uno di quei sorrisi senza allegria, che vedi sempre sui volti delle persone anziane; quelli che si scollegano dagli occhi. In bocca avrò ancora il sapore del terriccio. Rimarrà lì per un bel pezzo.
Prometto che non interverrò più. Mio è il bacio mio è il pegno e mi autoincarico con questo segno. Gebo sul cuore, starò zitto e lascerò che dicano mostruose stupidaggini, che insultino la bellezza reale esaltando l'irrealtà, che scambino congiuntivo con condizionale; lascerò che reputino valido solo un modo di fare, come dire che per amare bisogna andare a lezione da Shakespeare. Li osserverò inciampare, cadere, ferirsi, alzare gli occhi e non trovare nessun conforto. Una persona non può comprendere ciò che di bello ha la carezza della dolcezza se non prova quanto può graffiare dentro l'amarezza. Graffi o carezze, cosa scegli? Spegnerò quella sigaretta, fumata fino al filtro, perché ne fumo veramente poche, quindi quelle che fumo voglio che mi diano la sensazione di ustione sulle labbra, come era quando baciavo amando perdutamente. Come ci accontentiamo dei surrogati a volte. Forse è per questo che prendo sempre quella cazzo di Paella disidratata alla Carrefour.
Poi sapete che farò? Me ne tornerò a cercare qualche aula dove è in corso una discussione interessante. Qualcuna di quelle materie con i nomi che mettono i brividi tipo trituratologia uro-genitale applicata. Mi siederò di nuovo ad ascoltare le vibrazioni della voce del docente nella sala gremita, il gentile russare di quello a fianco a me che indossa occhiali scuri, il fruscio delle biro sui fogli a quadretti, il bisbiglio sottile di quei due che ridacchiano, il fruscio del vestito della ragazza con i capelli neri e la treccia, il lieve tossicchiare di quella con i capelli biondo cenere a metà dell'aula sulla destra. Una caramella balsamica?
Quando le parole saranno tante uscirò, mi farò una Coca Cola Zero (che è meglio della Light perché ha davvero lo 0% di zuccheri mentre la Light ne ha lo 0,1). Forse lascerò che le bollicine mi esaltino l'acidità dello stomaco, forse scaglierò la lattina attraverso il corridoio e prenderò a calci il vetro del distributore. Forse un giorno ritroverò, forse non ritroverò mai più. Forse morirò prima di scrivere l'editoriale di Imbolc, forse seppellirò qualcuna delle persone che amo. Forse un giorno riuscirò a capire veramente anche io ciò che dico sempre: lo scorrere ci ferisce, non le persone. Avere il segreto per essere felici a portata di mano e gettarlo nel cesso perché non lo si vuole conoscere, è sapere che il segreto di essere felici è non essere capaci di amare. Come rimaniamo aggrappati per non cadere. Ad una corda, ad uno stronzo, a qualsiasi cosa ti possa impedire di cadere. Allunghi la mano, sì, e scopri che ti hanno offerto solo mozzarella cui aggrapparti, del mascarpone, una nocciolina tostata, del pane bianco. E tutto questo è la tua incapacità di vedere cosa hai di bello e desiderare solo quello che non hai perché pensi che ottenerlo sia il segreto della realizzazione. E quando lo ottieni? Credi di essere migliore? Credi forse che la tua stessa vita sarà migliore? Forse ti guarderai indietro e vedrai quello che hai dovuto sacrificare per averlo e ti domanderai se ne valeva effettivamente la pena. O forse scoprirai che è un circolo vizioso e che poi desidererai qualcosa che comunque non hai e sacrificherai ciò che hai ottenuto per avere qualcosa d'altro. E alla fine dei giorni sarai comunque insoddisfatto. Bisognerebbe smettere di aver bisogno di amare per essere felici; ossia non avere bisogno di essere importanti, non sentire la necessità di seminare fiori nel giardino ma solo seppellire bottiglie con spilli e cocci, coltelli, vino rosso e piscio perché non saper amare significa non sapersi fidare. In culo anche al Jazz. Per inseguire ciò che non abbiamo, cosa siamo disposti a sacrificare? Noi non siamo eterni. E la felicità lo è anche meno. Il mio parere onesto? In culo anche alla felicità eterna, ma datemi la possibilità di amare davvero qualcuno per un giorno soltanto; come il mech David in quel film che mi commuove sempre: A.I.; passa duemila anni ad osservare una fata turchina chiedendogli di farlo diventare un bambino vero, perché così la sua mamma lo amerà. "E per la prima volta nella sua vita andò nel luogo dove nascono i sogni..."
Tutto muore e l'immortalità non esiste. Nessun uomo o donna che abbia mai camminato sulla terra, dalla culla alla tomba è mai riuscita e mai riuscirà ad abituarsi a questa idea del passaggio delle cose. Noi stessi pagani, contadini, villani, poveri idioti abbraccialberi, come cazzo vogliamo farci chiamare o ci chiamino non ha importanza, celebriamo e onoriamo questo scorrere, lo accettiamo perché sappiamo che fa parte della nostra vita, sappiamo che non possiamo controllarlo, sappiamo che in tutto il corso della storia da duemila anni a questa parte abbiamo vissuto su un'asse che ci portava da un punto ad un altro ma che la realtà è che noi giriamo solo in tondo e che tutto quanto ci suggerisce da sempre che noi siamo al centro, come degli stupidi e ci sono persone che ci stanno saltellando intorno tenendosi per mano e deridendoci del fatto che cadiamo al suolo piangendo perché non comprendiamo questa giostra. Lo sappiamo bene, ma non la comprendiamo veramente.
Noi soffriamo del passare del tempo. Noi soffriamo della perdita e dello scorrere. Noi rimaniamo ancorati come pietre in mezzo ad un fiume e stiamo lì, a sentire il freddo gelido dell'acqua che ci corrode lentamente, che ci consuma e vorremmo solo che tutto si fermasse, si congelasse. Vorremmo poter chiedere al tempo di farci un cazzo di unico favore: "inchioda il tuo culo santo sul tuo asse universale e fallo in questo momento speciale, affinché io possa viverlo per sempre, senza doverlo perdere mai". Ecco perché siamo infelici: non capiamo lo scorrere. Siamo statici ed osserviamo il Sole farsi i suoi rimpalli tra equinozi e solstizi, ma di base stiamo qui giù e osserviamo la neve, i fiori, i frutti e le foglie che cadono. Osserviamo le stelle erranti della volta celeste e tentiamo di contarle. E il tempo che passa ci porta via ogni volta quel poco, trascurabile, che giorno per giorno fa crollare ogni nostra sicurezza: "È impossibile da capire. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no esci matto. Quando cade un quadro. Quanto ti svegli un mattino e scopri che non ti ama più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi 'io devo andarmene da qui'. Quando guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio".
Un tempo cazzo, il padre prendeva con sé il figlio, lo conduceva nella foresta, uccideva un animale. Che fosse un cervo, un cinghiale, un coniglio, metteva il bambino di fronte all'agonia di quella creatura riversa nella neve, con l'occhio consapevole della morte che lo guardava dritto negli occhi. Dopodiché diceva al figlio di affondare le mani nella carne, nella ferita aperta, di sporcarle col sangue. Davanti ai suoi occhi gli mostrava come il sacrificio di quella creatura permetteva a lui e alla sua famiglia di vivere per alcune settimane. Gli insegnava il rispetto di quella vita. Ora non abbiamo più questa dimensione del sacrificio, del vivere in funzione alle cose che vivono; crediamo che tutto ci spetti perché è lì. Ci comportiamo come se non fosse necessario avere pazienza per veder crescere una pianta, per arrivare da qualche parte, per guarire dentro, per crescere con la consapevolezza dei passi che abbiamo fatto e che stiamo facendo, per perdonarci. Lo facciamo senza il tempo per capire cosa vogliamo e distinguerlo da ciò di cui abbiamo bisogno. E il tutto senza guardarci in giro per cercare qualcuno da incolpare per le nostre cadute.
Bastardo di un Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus Von Hohenheim! Ti spaccherei quella tua tavola davanti agli occhi, calpestandola sotto i piedi e saltandoci sopra, con un sorriso sadico, come il Panda nella pubblicità del formaggio! Perché deve essere davvero così? Sopra, sotto, dentro, fuori: non cambia un cazzo. È solo l'abbandonare. È il coraggio di dire: "Io so di cosa ho bisogno" e saperlo distinguere da "Io so cosa voglio". Non esiste l'immortalità per noi nella singola vita. Siamo esseri umani. Anche l'amore non ha senso si chiami così. Scardinerei questo nome perché nessuno di noi lo conosce. Noi dimentichiamo il suo segreto! Lo disconosciamo. Gli imponiamo un ruolo in base al nome che ha. Ci fanno studiare a scuola come cazzo sommare x ad y ma non che cosa significa realmente ciò che siamo.
Amore significa "immortalità". Deriva dal latino: a-mors. E tu lo sai che non cambia niente, caro mio. La teosofia non è mica una materia certa. Viviamo comunque nell'oscurità e la luce non è portata dalla conoscenza fine a se stessa, bensì dalla comprensione; queste sono le cose che ci elevano, non la ricerca tormentata di qualcosa che ci soddisfi. Tutte le tristezze e i dolori che neghiamo se sono dentro di noi, anche se non li vogliamo ne abbiamo bisogno. Di contro tutti gli amori che non viviamo per cercare qualcosa che vogliamo ma di cui non abbiamo bisogno, anche se non immortali, sono solo respiri che non prendiamo. Sono cambiamenti che non accettiamo. E quando hai coltelli infilati nella carne, anche un abbraccio sincero ti provoca urla. Provare per credere.
Ecco, io tornerò ad accoccolarmi su una sedia, in fondo all'aula di qualche università degli studi di chissà che cazzo e lascerò che il docente parli, sempre che io riesca a sentirlo. Alternativamente prenderò appunti sul cuore, me li inciderò nella carne, come memento; così tatuato non dimenticherò le lezioni della mia vita. E tornato a casa, sanguinante, mi farò una delle mie tisane al tiglio, camomilla e fiori d'arancio. Poi mi leccherò là, dove porto quella ferita che non sembra destinata a guarire mai, perché alcune cose sono proprio come le spade dei Nazgul, e mi metterò ad esservare Salsi che guarda la neve cadere. Lo affascina sempre il turbinio dei fiocchi, anche dopo sette anni che li vede ad ogni Yule. Che magia il dimenticare con quella facilità. E che fortuna, oserei dire. Se volessi realmente dimenticare forse non dovrei prendere più appunti. Forse dovrei smettere di scrivere qui, perché poi ogni tanto rileggo. Ma fa sempre parte dell'avere un Libro Specchio. Fa parte della malinconia dello stare al mondo. Fa parte dell'essere ciò che sono diventato, per mia scelta fino ad un certo punto. Fa parte di quelle cose che nessuno riesce ad accettare: lo scorrere, il perdere, l'abbandonare, il bruciare, il lasciare andare.
Quasi quasi vado al pub in fondo alla strada. È sempre deserto in questo periodo. Mi siederò al bancone e saluterò la cameriera dai capelli rossi. Mi sembrerà strano poterla guardare come se fosse un albero. Sì. Mi ordinerò un solito al barista che sputa nel bicchiere per lavarlo e poi mi alzerò e me ne andrò a spasso per il locale, passando le dita sui tavoli appena puliti, lasciando ditate. Poi mi metterò là, nell'angolo, dove mi metto sempre. Chiuderò gli occhi e dimenticherò anche io, come fa Salsiccia: per lui la neve scende sempre per la prima volta.
Qualcuno ascolta? C'è qualcuno che sta ascoltando? Puoi sentirmi? C'è qualcuno là dentro?
Alla TV immensa nel locale, al posto della partita, daranno su uno di quei canali assurdi del digitale quella magistrale interpretazione di Mel Gibson, quando sugli spalti di Elsinore incide con la spada che produce scintille, guardando il re ubriacarsi e ridere: "Questa voglio annotarmela: che un uomo possa sempre sorridere, sorridere, ed essere il peggiore dei ribaldi!"
E poi, quando il mio solito sarà lungamente evaporato dal bicchiere, nella penombra morale e nella leggera bruma che precede sempre il belluino urlo nella notte fredda e ingiuriosa, proprio nell'estraneità di quel momento, quando mi mancherà come mi mancherebbe un organo vitale, come mi mancherebbe il respiro, il pensiero, la voce, il desiderio, il sonno, mi volterò e là ci sarà un pianista russo. Lo guarderò con gli occhi rossi e pesti e gli dirò: "Suonalo ancora, Gustajev. Un'altra volta. Il pezzo che sai".
Riposerò un giorno. Un giorno, sì. Riposerò.

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