The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Gli Elementi nella Storia e nella Scienza - Un Excursus


Gli Elementi nella Storia e nella Scienza - Un excursus

L'elemento come qualcosa da cui "nasce tutto", è riconducibile, come filone di pensiero filosofico, sin dagli albori dei tempi. Il primo filosofo greco di cui si abbia notizia gettò le basi di un "principio di tutte le cose" suddivisibile nei quattro elementi: questi era Talete (624-545 a.C. circa), vissuto a Mileto, in Asia Minore, ad oggi una città della Turchia. La stessa città è anche il luogo da cui presero poi nome i tre "filosofi naturali", che ricercavano la quintessenza, la sostanza, la forma da cui tutto ha origine, ossia quello che definirono l'Archè, ossia niente altro che il principio eterno da cui tutto è disceso a cascata; il qualcosa che esiste in ogni cosa. Sostanzialmente Talete si chiedeva da che cosa nascesse che cosa, e soprattutto, notando come in natura tutto mutasse, la sua ricerca lo portava a chiedersi quale fosse il principio fondamentale, incorruttibile, che si cela nel segreto della vita e della materia sulla terra. La risposta che Talete si diede a questa sua domanda fu: "l'acqua". Secondo questo filosofo l'acqua era il principio di tutto, dal momento che si trasforma in terra congelando ed in aria evaporando; l'acqua ci scorre nelle vene con il sangue, esiste nei nostri occhi, nel cervello, dà vita con le piene del Nilo, fa crescere le piante. Senza acqua non c'è vita.
In seguito, come discepolo dello stesso primo filosofo, giunse Anassimandro, (596-525 a.C.), anche lui un "milese" alla ricerca del principio, che decise di seguire il pensiero di Talete e perfezionarlo (596-525 a.C.). Questo filosofo definì per primo la condizione di "infinito", mediante il termine épeiron, che in greco significa appunto "senza fine". Secondo lui l'épeiron era il liquido amniotico dell'esistenza, il brodo primordiale da cui tutto ha principio. Il tutto, anche l'opposto, chiuso in un unico scrigno di segreti e molteplici essenze e diversità, anche in contrasto tra loro, influenzate solo dal tempo, unica via di mutazione delle esistenze e delle ere sulla terra. Secondo Anassimandro, l'épeiron non genera in maniera caotica, bensì con un ordine preciso. Purtroppo, dai pochi appunti di Archimede sulle conclusioni cui i primi tre filosofi erano giunti e di fatto unico patrimonio in nostro possesso, non si evince quale sia questo ordine.
Sarà Anassimene a proseguire il pensiero di Anassimandro, senza però rispondere al suo predecessore. Secondo questo filosofo il principio di ogni cosa è invece l'aria. A seconda delle diverse condensazioni e rarefazioni dell'aria avremmo i diversi elementi. Il fuoco si manifesta quindi come aria rarefatta, l'acqua come aria condensata, e la terra com acqua condensata.
Nel corso dei tempi il pensiero venne affinato, fino a giungere, attraverso Parmenide, nato ad Elea, in Grecia intorno al 515 a.C., alla domanda: come può l'épeiron trasformarsi in tutto quello che ci gravita intorno? Secondo questo filofoso antico niente si può mutare in qualcosa di diverso. Gli stessi sensi con i quali percepiamo il mondo possono essere traditi; è la ragione la vera via per comprendere ciò che ci circonda. La razionalità ci permette di capire cosa è frutto di un'illusione e cosa invece è reale.
Eraclito, vissuto contemporaneamente a Parmenide, sosteneva invece che i sensi fossero la risposta, e che bisognava fidarsi di quelli. Ma questo filosofo, soprattutto, sosteneva che la natura fosse in continua mutazione. Questa continua trasformazione, ossia la contrapposizione continua dalla vita alla morte, dalla fame alla sazietà, dalla sterilità alla fertilità, il continuo ribaltarsi di contrapposizioni, porta all'esistenza. Eraclito sosteneva che tutto scorre, e affermò questa sua asserzione con il detto "pantha rèi". Egli credeva che non fosse possibile "immergersi due volte nel medesimo fiume", poiché proprio a causa del continuo mutare dell'universo, al secondo discendere nell'acqua, sia voi che il fiume sareste differenti da prima; sareste mutati. A cambiarvi che cosa sarebbe? Lo scorrere stesso del tempo, che vi farebbe più vecchi, i vostri capelli più lunghi, le vostre cellule morte separate da voi. Eraclito faceva spesso uso della parola "logòs", riferendosi al divino. "Logòs" in greco significa "ragione", e sembra si riferisse all'ordine nel continuo ribaltarsi di contraddizioni che mantengono unito il mondo e l'universo.
Fu Empedocle invece, vissuto nell'attuale Agrigento, il primo ad affermare che fosse errato credere che un solo elemento potesse essere il principio di ogni cosa. Quattro, secondo lui, sono gli elementi, i mattoncini primari di ogni creatura vivente. In dosi diverse, questi elementi possono formare ogni cosa presente in natura, che sia viva o no, e nel momento della morte ogni elemento torna a scindersi dagli altri e tornare al suo stato originario. Secondo Empedocle, potremmo percepire le cose che ci sono in natura perché nei nostri occhi esiste una percentuale, anche minima, dell'elemento che visualizziamo; ciò significa che, se non avessimo una piccola percentuale di fuoco, aria, acqua e terra negli occhi non potremmo vederli in natura, e quindi vedremmo la realtà, compromessa, ossia in parte mancante di qualcosa.

Gli Elementi Alchemici

Sorvolando sulla storia dell'alchimia, che esula dal discorso e che sarebbe un argomento ampio e poco trattabile, tocchiamo solo brevemente il punteggiare degli elementi nella storia a pari passo con questa proto scienza filosofica.
Nelle terminologie alchemiche, sia quella orientale che quella occidentale, di epoche remotissime, gli elementi vengono scissi in maniera differente. Là dove in occidente si riconoscevano e si riconoscono tuttora solo Aria, Acqua, Terra e Fuoco, in oriente, in particolare in Cina, dove l'Alchimia metteva radici fin dal III secolo A.C., gli elementi sono cinque e sono riconosciuti così

 



La tradizione alchemica cinese, di origini antichissime, trova la prima documentazione nel Ts'an T'ung Ch'i, un testo di Wei Po-Yang, un filosofo alchimista definito senza mezzi termini "Il padre dell'Alchimia". In questo famosissimo testo taoista, redatto, secondo le fonti accertate, intorno al 142 A.C., si definisce una cosa precisa, tra le altre. Secondo Wei Po-Yang tutti i procedimenti alchemici, oltre che I-Ching stessi (un metodo divinatorio noto anche come Libro delle Mutazioni) sono esclusivamente sorgenti da un'unica essenza che porta nomi differenti. Questo filone di pensiero, che includeva anche il principio taoista, era appunto basato sui cinque elementi della tradizione orientale alchemica, a differenza dell'oro (metallo nobile nella trasmutazione), che sostituiva il generico metallo, e sul principio universale dello Yin e dello Yang (che tutti dovremmo conoscere bene) e che rappresentiamo per comodità qui sotto.

 



La fusione di ogni singolo elemento con uno dei due principi dello yin e dello yang (giorno e notte, sole e luna, maschile e femminile) sarebbe diverso e aprirebbe nuove evoluzioni di materie su altri piani.
In sostanza gli elementi, in natura, sono stati riconosciuti come tali sin dall'antichità, quando si ricercavano le risposte ai quesiti che sorgevano mediante l'osservazione degli eventi e delle manifestazioni che avvenivano in natura.
Nelle culture orientali, quindi, gli elementi sono cinque: Acqua, Terra, Fuoco, Metallo e Legno; viene anche riconosciuto un "sesto" elementale: il fulmine, ma non in tutte le tradizioni, e di sicuro non in quelle alchemiche. L'Akasha viene attribuito all'Aria, lo spirito, il divino.
Le tradizioni alchemiche occidentali, al contrario, riconoscono invece gli elementi press'a poco come li riconosciamo noi. I primi proto-alchimisti, se vogliamo, erano proprio quegli stessi filosofi milesi che abbiamo ricordato poco sopra, e che hanno poi dato il via, mediante il loro pensiero, all'alchimia nota come greco-alessandrina.
A questo punto possiamo prendere quello che ci dicono i filosofi come Empedocle per oro colato, e al giorno d'oggi, comprendere il mondo in diversi stadi. Non è forse troppo alla portata della vita che facciamo, ma ci permette di riflettere in maniera un po' più ampia. Una cosa che in definitiva ci serve per capire, se vogliamo, come tutto quello in cui noi crediamo, abbia un principio di pensiero antico e radicato. Capire il principio delle nostre credenze, ci permette di capire meglio come rapportarci con il nostro stesso operare magico.

Le Origini del Quinto Elemento

L'Akasha, chiamato etere, è sinonimo di quintessenza. La parola "quintessenza" deriva dal latino quinta essentia, che prende poi piega ancora dal greco pémpton stoichêion, che significa letteralmente "quinto elemento". Questo era appunto quell'elemento riconosciuto da Aristotele che altro non era se non la fusione di quattro elementi naturali. In alchimia occidentale, l'etere era l'ingrediente fondamentale per la creazione della pietra filosofale.
Facciamo quindi questo passo indietro. Aristotele, alla ricerca della quintessenza dell'esistenza, si imbatte nell'idea lasciata dagli altri filosofi milesi. A questo punto sviluppa una sua teoria, e intuisce che l'etere (il quinto elemento) sia impossibile da modificare; propriamente il contrario di ciò che capita sulla terra, dove il cambiamento è costante, come sosteneva Eraclito. L'etere, quindi, risulterebbe di sostanza trasparente e senza alcun tipo di peso, pertanto non misurabile. E dato, inoltre, che si tratta di una sostanza di natura immutabile, è anche priva della possibilità di deteriorarsi e quindi di smettere di esistere. A livello fisico questo sarebbe dimostrabile grazie alla legge della conservazione della massa, che deriva dal postulato fondamentale di Lavoisier: "nulla si crea, nulla di distrugge, tutto si trasforma". Nella storia umana, possiamo definire che è qui che ci scontriamo, per la prima volta, con qualcosa che si ritiene esista ma che non possa morire o svanire, cambiare o trasmutare: qualcosa che, quindi, è di fatto eterno. Aristotele, a quanto ne so, riteneva che tutto il cosmo al di fuori del pianeta Terra fosse eterno e privo di mutazioni. Con le nostre osservazioni astronomiche e astrofisiche abbiamo avuto modo di accertarci (come esseri umani) che lo spazio esterno alla terra non è assolutamente privo di cambiamenti, ma per quanto ne sappiamo ora, ciò che l'ha generato, in sostanza, potrebbe esserlo.
E qui facciamo un balzo avanti, quando l'antica e misteriosa scienza dell'Alchimia comincia a farsi spazio tra gli intellettuali del medioevo e del rinascimento. L'etere viene qui identificata come l'energia che muove i corpi, un fluido vitale che ci permette di esistere. Questo stesso fluido vitale avrebbe il potere, secondo le leggi alchemiche dei metalli, di trasmutarli in sostanze più nobili. Partendo quindi dal piombo per giungere fino all'oro. Questa stessa misteriosa sostanza, sarebbe anche alla base dell'altra ricerca degli alchimisti: l'elisir di lunga vita.
Supponiamo (entrando nel campo delle ipotesi) che l'etere sia una particella di energia che ci permette di sopravvivere per un tempo definito, ma che, come una batteria, si consuma e si spegne dopo un tot di anni, cominciando a sfaldarsi e alterando l'equilibrio degli elementi dentro noi, che porta, come ben possiamo capire, alla malattia e la morte. Rifocillare, se fosse possibile (e gli alchimisti lo credono possibile) questa energia con nuove dosi, porterebbe alla possibilità di "ricaricare" questa particella deteriorabile e permetterci di vivere più a lungo, se non per l'eternità. Questa stessa energia, quindi, permea ogni cosa, e noi ci manteniamo in vita grazie anche all'assunzione, come ben sappiamo, degli elementi che la compongono, nei modi e nelle specifiche che il nostro corpo ci permette.
Gli alchimisti del tardo medioevo, fino al diciottesimo secolo, giunsero alla conclusione che questa quintessenza fosse possibile ottenerla distillando gli altri elementi di cui era composta, separandone la sostanza primaria.
Nel diciannovesimo secolo, i fisici che studiavano l'etere supposero che fosse il mezzo tramite il quale le onde elettromagnetiche si potessero diffondere. Un'ipotesi avvalorata da Newton, con la sua teoria sulla forma corpuscolare della luce. Fu nel secolo scorso che Fresnel e Young proposero la teoria della luce ondulatoria e, diffusasi, questa teoria portò alla ricerca di un altro mezzo per il trasferimento della luce; un mezzo che fosse materiale, per intenderci.
L'etere come lo vedeva Aristotele e Newton quindi, e noto in fisica come etere luminifero, perché si riteneva fosse il mezzo grazie al quale la luce viaggia nello spazio, era in poche parole l'ipotesi che l'aria fosse formata da una qual sostanza invisibile, e che il movimento dei corpi all'interno dell'universo desse adito alla formazione di un vento spaziale, o vento d'etere, che si muoveva in direzione opposta al corpo stesso, ma alla stessa velocità, e che questo vento influenzasse anche la luce, trasportandola.
I due fisici di cui sopra, alla fine dell'ottocento, con alcuni esperimenti che esulano dal nostro discorso, dimostrarono invece che non esisteva nessun vento d'etere e (o quanto meno che non fosse misurabile con i mezzi umani). Albert Einstein, grazie al risultato di questo esperimento, partì con la famosissima ipotesi della teoria della relatività ristretta. In sostanza: l'etere non esiste affatto (per quanto tuttora, nonostante la teoria dell'etere luminifero sia stata abbandonata, in fisica ci si riferisce ancora ad etere quando si indica lo spazio dove si propagano le onde elettromagnetiche).
I due fisici dimostrarono che le onde luminose si muovono trasversalmente, e se l'ipotesi di un etere di natura fluida o gassosa prima poteva reggere, ora non era più possibile, data l'elevata velocità della luce stessa. L'etere doveva essere immobile e non, come sosteneva Newton, corpuscolare. Era quindi come una tavola di marmo su cui la luce, come una biglia, scivola a velocità incredibile. Nonostante ciò il dilemma rimaneva l'impossibilità di verificare un'effettiva resistenza al moto dei corpi sul tessuto dell'etere. Come ben sappiamo, infatti, un corpo lanciato ad una data velocità nello spazio, viaggerà a quella velocità senza fermarsi finché non incontrerà un ostacolo o incontrerà una forza cosmica (gravitazionale ad esempio) che ne alteri la direzione o che attrarrà il corpo stesso verso di sé.
Tutto questo esula dal discorso magico e sfocia nel campo (arduo) della fisica, e le informazioni a riguardo sono molto più attendibili su libri appositi, per cui mi fermerò qui (anche perché non sono un fisico ma una strega, quindi più vicino ad un filosofo che ad uno scienziato).
Quello che ho potuto capire, vedere, e che ogni persona può comunque vedere con i propri occhi è che la storia non mente, e che gli elementi esistono in natura nelle manifestazioni più pure ed essenziali, e scisse nei diversi stadi della materia di cui sono fatti i corpi.
Una persona qualsiasi potrebbe anche domandarsi il perché si manifestino in questo modo. La risposta è quella della bolla. Una bolla di sapone, per quanto la sua superficie sia flessibile e per quanto possa essere sollecitata, finirà comunque con il riposizionarsi su una dimensione sferica. Perché? Perché quella è la sua manifestazione ottimale. Un altro esempio? Un atomo di idrogeno e un atomo di ununoctio, il primo e l'ultimo degli elementi della tavola periodica attuale, seguono comunque le stesse leggi fisiche. Al centro i protoni, e in orbita ellissoidale gli elettroni, su diversi strati e con diverse cariche energetiche. Per quanto instabili, alcuni degli elementi scoperti o prodotti qui su questo pianeta rispettano comunque le leggi di quelli già esistenti. Perché quindi non gli elettroni al centro e i protoni all'esterno? Perché la materia, per manifestarsi, cerca sempre la via più equilibrata, stabile e ottimale.
Anche noi esseri umani esistiamo per condizioni ottimali. Se solo fossero lievemente diverse, come diceva Cutie, il robot inventato da Isaac Asimov nel romanzo "Io, Robot", la nostra efficienza si abbasserebbe e finiremmo per non poter vivere più, se non trovassimo un modo per adattarci alle nuove condizioni.
Immaginiamo quindi che l'Akasha non sia altro che l'energia stessa che fa muovere gli elettroni, che carica positivamente i nuclei degli atomi; quella stessa energia che permette il bilanciamento della materia stessa. Come potrebbe esistere la materia come noi la conosciamo, se non ci fosse quell'equilibrio che la mantiene stabile? Sarebbe un collasso continuo di elettroni su protoni, una non materia, fino a giungere allo sbilanciamento bilanciato: l'anti-materia stessa. E se quell'equilibrio si ristabilisse, nell'inversione globale dei poli negativi e positivi, allora la materia esisterebbe di nuovo, in forme e stabilità differenti. Ecco che cosa celebriamo con l'Akasha: quella forza indissolubile che sostiene i pianeti, che fa ruotare gli elettroni, che fa esistere l'universo grazie ad un equilibrio a cui nessuno può pensare di opporsi, e che non può non esistere, ma che può trasformarsi, in casi estremi, in equilibrio inverso, ma comunque equilibrio.