The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Hermes il Ramingo

Ermes il Ramingo


L’aspetto del ramingo è quello del figlio che, accettato o meno dal padre, riveste un ruolo indipendente. La differenza che corre tra il figlio come "erede del padre" e il ramingo è il fatto che quest’ultimo non accetta l’eredità del padre e cerca di scrivere la propria strada. Rifiuta quindi ciò che gli viene imposto, ciò che gli viene offerto, sia come via facile, sia perché è fuori dagli schemi e cerca di tracciare un nuovo sentiero là dove nessuno ha battuto il cammino. In taluni aspetti può diventare la "pecora nera" della famiglia, ossia colui che non ha mai ricalcato esattamente le orme e le richieste dei genitori o che rifiuta di entrare nello schema prefissato. Non nasce quindi come figlio non accettato, ma rischia di diventarlo se non trova una comprensione da parte dei genitori della sua natura priva di schemi fissi.

In genere il ramingo è lontano dal concetto dell’attaccamento famigliare. Sa cosa significa provare amore, ma è libero. Il termine "ramingo" trova la sua etimologia nel provenzale ramenc e richiama decisamente il termine "ramo": era usato per riferirsi ai falchi da caccia che, in gioventù, appena capaci di stare fuori dal nido, saltavano di ramo in ramo, e in seguito venne usato per riferirsi alle persone che giravano per il mondo senza una meta precisa. Un chiaro riferimento è trovato in Tolkien nella saga e nell’ambientazione del Signore degli Anelli, dove si usa questo lemma per riferirsi ad Aragorn, ultimo discendente di Isildur ed erede al trono di Gondor, il regno degli uomini liberi, in quanto faceva parte dei Dùnedain del Nord, un gruppo di guerrieri vagabondi dediti al compito di pattugliare le terre ai confini dell’Eriador. Questi erano visti come torvi e scuri e persone di cui, in genere, si aveva paura in quanto all’aspetto apparivano molto sinistri. Aragorn, sia nel film che nel libro da cui è stato tratto, rifiuta il trono e la responsabilità che ne deriva fino alla fine. Questo portò anche al rifiuto da parte di Elrond, suo padre adottivo, di sposare la figlia Arwen, in quanto la riteneva solo degna di un re. Nel suo caso nemmeno l’amore immortale della bellissima elfa lo fa ricredere. E’ solo il senso del dovere nei confronti della libertà dei popoli della Terra di Mezzo a spingerlo in ultimo a prendere il suo posto.

Ma torniamo alle nostre divinità. Nel pantheon greco-romano, il ruolo di ramingo è incarnato, quanto meno nella visione che traggo, da Ermes, figlio di Zeus e Maia, ninfa silvana di Cillene, a sua volta figlia dei titani Atlante e Pleione e considerata la più bella tra le Pleiadi, oltre che la maggiore. Secondo il mito, partorì Ermes in una caverna solitaria del monte Cillene, in Arcadia, dove viveva. Non appena nacque, la madre lo avvolse in fasce e lo depose in un canestro. Come gli altri dei, il figlio ebbe una crescita straordinariamente rapida. Non appena la madre si fu voltata, lui si tramutò in un uccello e sfuggì dalla culla, mostrando subito la sua abilità di furfante e raggiratore oltre che di vagabondo sempre alla ricerca di avventure. Aggirandosi per i boschi incontrò una tartaruga, la uccise, la mangiò, e incuriosito ne prese il guscio. Dopodiché, giunto in Pieria, nel luogo dove il fratellastro Apollo custodiva la sua immortale mandria di bovini, affascinato decise di rubarli. Per coprire le tracce del misfatto e quelle degli animali, costruì delle babbucce con corteccia di quercia e le legò agli zoccoli delle vacche con fili d’erba: guidò così la mandria nella notte fino ad una caverna a Pilo dove nascose tutti i capi rubati tranne due, che uccise e mangiò, dopo averli suddivisi in dodici parti uguali e averli sacrificati agli dei. Al mattino Apollo ovviamente si accorse del furto ma lo stratagemma che Ermes aveva escogitato fu abbastanza per aggirare il dio del Sole, il quale nonostante le ricerche non fu in grado di trovare le sue bestie e mise una taglia sul ladro. Sileno e i suoi satiri si misero così alla ricerca delle vacche rubate e dopo aver girato un bel po’ a vuoto giunsero in Arcadia dove udirono una musica incredibilmente dolce provenire dalla caverna sul monte Cillene, dove il piccolo Ermes, con le viscere degli animali e il guscio di tartaruga che aveva trovato aveva costruito uno strumento musicale: una lira con la quale era riuscito a far addormentare la madre.

I satiri, intuendo di poter essere sulle giuste tracce della mandria e notando due pelli di vacca stese a seccare, domandarono alla ninfa Cillene, nutrice di Ermes, dove avesse trovato quegli armenti, ma questa difese il piccolo che fingeva di dormire nella culla come se nulla fosse. A quel punto Apollo, che aveva notato delle gru volteggiare sopra la caverna, una volta giunto, riconobbe le pelli delle sue vacche, svegliò Maia e le disse che suo figlio avrebbe dovuto restituirgli gli armenti rubati e davanti all’incredulità della ninfa e al suo ribattere che le accuse fossero assurde, prese Ermes e lo portò sull’Olimpo per sottoporlo al giusto giudizio di Zeus, incolpandolo del furto e portando come prove le due pelli. Zeus, incredulo, chiese a Ermes di giustificarsi ed egli, anche se dapprima negò anche davanti all’evidenza con una faccia tosta senza precedenti, in ultima analisi confessò e accettò di rendere gli animali al legittimo proprietario. Mentre si recavano alla grotta, Ermes spiegò ad Apollo che ne aveva uccise solamente due e che lo aveva fatto per smembrarle in parti uguali e offrirle in sacrificio ai dodici dei. Al che a quel punto Apollo chiese quale fosse il dodicesimo dio, dal momento che, fino a quel giorno gli olimpi erano sempre stati undici (sei di prima generazione: Estia, Demetra, Era, Zeus, Poseidone, Ade e cinque di seconda: Apollo, Artemide, Ares, Efesto, Afrodite) e, sempre con la finta modestia e la lingua sciolta che aveva, Ermes rispose che era lui, "il tuo servo", e che nonostante fosse molto affamato egli aveva mangiato solamente un dodicesimo del totale, facendo del resto un olocausto. Secondo Robert Graves, quello fu il primo sacrificio di sangue che venne svolto per le divinità olimpiche.

Giunto alla caverna dove era nato, Ermes estrasse da sotto una pelle di capra la lira che aveva appena costruito e si mise ad accompagnare un canto estremamente lusinghiero nei confronti del fratellastro, mostrando ancora una volta una sfacciataggine incredibile e ottenendo così il perdono per il misfatto. Dopodiché, continuando a suonare, lo condusse fino alla caverna a Pilo dove aveva nascosto gli armenti e glieli riconsegnò. Ormai però, estasiato dalla musica, Apollo propose ad Ermes uno scambio: avrebbe potuto tenere le vacche in cambio della lira. L’accordo fu stretto e mentre la mandria pascolava il giovane dio prese una canna e ne costruì uno zufolo cominciando a suonarlo. Apollo, di nuovo colpito dalla maestria musicale del fratellastro, gli propose di barattarlo con il suo bastone pastorale, promettendogli il suo futuro dominio sulle greggi e sui mandriani. Ermes però non accettò subito, ma chiese che gli fosse insegnata l’arte divinatoria. Ad Apollo ciò non era consentito, ma gli suggerì di recarsi sul monte Parnaso dove avrebbe appreso dalle sue vecchie nutrici, le Trie, la geomanzia.

Tornati quindi i due dei sull’Olimpo, Zeus, divertito e affascinato dalla scaltrezza che il figlio aveva appena dimostrato, lo ammonì però di non mentire mai più in modo così spudorato e di rispettare la proprietà altrui. A quel punto Ermes chiese al padre di essere fatto suo araldo, promettendo di proteggere i suoi beni e di non dire mai più bugie, ma non garantendo di dire sempre la verità. Zeus, che aveva ben intenso il significato di questo giro di parole, acconsentì e gli impose di essere anche protettore dei viaggiatori e di essere patrono dei commerci e presiedere alla stipula dei contratti, dopodiché gli diede una verga da araldo con nastri bianchi che tutti dovevano rispettare, un copricapo circolare per proteggerlo dalla pioggia e dei sandali alati che lo avrebbero condotto in qualunque luogo con una rapidità strabiliante.

Come promesso le Trie insegnarono ad Ermes la divinazione con i sassi nell’acqua ed egli in seguito inventò il gioco divinatorio degli astragali, ossia la divinazione con le ossa, anche se, secondo i Proverbi di Zenobio, fu invece la dea Atena ad inventare l’astragalomanzia.

Ermes divenne il messaggero degli dei, nonché venne incaricato da Ade di divenire il dio psicopompo per eccellenza, in quanto il suo compito era quello di guidare le anime dei morti nel regno infero e favorire il loro passaggio poggiando la sua verga d’oro sugli occhi. Fu inventore dell’astronomia, della scala musicale, della bilancia e delle misure di capacità oltre che della coltivazione dell’ulivo. Assieme alle Moire compose l’alfabeto, come vedremo dopo. Era quindi un dio dell’arte e delle capacità auree. Secondo alcuni miti la lira che costruì con il guscio di tartaruga possedeva in principio solo tre corde o quattro, a ricordare le stagioni, Apollo le aumentò a sette, suo numero sacro, e fu infine Orfeo (al quale poi la regalò) a portarla a nove.

Ermes fu sempre ben accetto tra gli Olimpi per il suo carattere sveglio. Fu lui che ricondusse Persefone dagli inferi alla terra su intercessione di Zeus. Quando Tifone venne scatenato, in seguito alla titanomachia, Ermes sfuggì alla lotta rifugiandosi in Egitto assieme alle altre divinità olimpiche, al di fuori di Atena, tramutandosi in un ibis. Zeus, rimproverato aspramente dalla figlia, tornò al suo posto e lottò contro il mostro, e dopo il primo scontro che lo vide come vincitore dato che lo fulminò con una folgore e lo colpì con la falce che aveva evirato Urano, venne stretto tra le spire del mostro, privato dell’arma, gli vennero tagliati i tendini delle mani e dei piedi e venne imprigionato in una caverna delle Coricia a cui faceva la guardia la sorella di Tifone e la compagna di Pitone: Delfinia. Furono quindi Pan ed Ermes a giungere in soccorso del Padre degli dei: il primo terrorizzò il serpente mostruoso con il suo peculiare urlo mentre il ramingo liberò Zeus dalla sua prigione rendendogli i tendini nascosti sotto una pelle d’orso, consentendo così al padre di vincere la battaglia.

Ermes ebbe molti figli ma, come il fratellastro Apollo, nessuna moglie ufficiale. Il suo ruolo di vagabondo lo rendeva in effetti una persona molto legata all’aspetto aureo, pertanto legato ancora una volta a Zeus, che infatti apprezzò la scaltrezza che aveva dimostrato nella vicenda che aveva interessato la mandria del fratellastro. Lo stesso Pan, secondo alcuni miti, è considerato figlio di Ermes e, a seconda del mito, da madre Driope, a volte Penelope, moglie di Odisseo che coprì con un vello d’ariete, o della ninfa Enide o anche della capra Amaltea, colei che aveva nutrito Zeus in fasce. Ad ogni modo il figlio era così brutto, avendo aspetto semicaprino, che, abbandonato dalla madre appena nato, venne preso da Ermes che lo portò sull’Olimpo affinché divertisse gli dei e dove legò in modo particolare con Dioniso. Nonostante questa visione del mito sono propenso a credere che Pan fosse una divinità molto molto più antica, paritaria a Zeus. Al contrario del suo aspetto zoomorfo, che lo annovera tra gli dei selvaggi e fertilitari, quindi legati ad aspetti ctonii e tellurici, diversi dal distaccato Ermes, gli altri figli hanno preso caratteristiche tipicamente similari a quelle del padre, come Echione, che divenne araldo degli Argonauti, il gruppo di eroi che, sulla nave Argo, capitanati da Giasone, si imbarcò per la cerca del Vello D’oro, come ci narra Apollonio Rodio; oppure Autolico, il noto ladro che sposò Anfitea, da cui ebbe Anticlea che fu in seguito madre di Odisseo; o Dafni, ritenuto l’inventore della poesia bucolica e che fece amicizia con Pan, dal quale apprese a suonare lo zufolo e che, in seguito ad una complessa vicenda, venne trasformato dal padre in una pietra che tuttora è visibile nella città siciliana di Cefalenitano.

Secondo Robert Graves, nel suo I Miti Greci, Ermes era in realtà in principio un dio fertilitario rappresentato con il singolo simbolo fallico di una pietra eretta intorno a cui i pastori tenevano i loro riti orgiastici. A questo punto l’antico dio silvano delle greggi e della fertilità divenne il figlio di Ermes e di un picchio, l’uccello che, battendo col becco sui tronchi, si credeva annunciasse le benefiche piogge estive. Il fatto che Ermes fosse in principio un semplice nume rappresentato da un simbolo fallico lo lega anche alla madre stessa, Maia, dea italica della primavera per la quale le danze orgiastiche pastorali venivano svolte. Nel culto romano a lei era sacro anche il mese di maggio, che infatti in latino era chiamato maius. Le erano sacri i maiali, che traggono da lei il nome. Nel culto romano però Maia era moglie di Vulcano e, in quanto personificazione del risveglio silvano, in suo onore veniva appunto sacrificata una scrofa gravida.

Ma c’è un altro figlio di Ermes che è da mettere in luce e che lo lega al mito di Efesto e Afrodite. Questi due dei erano consorti, ma la dea dell’amore, per il quale il dio operaio aveva pagato una lauta dote, non gli era assolutamente fedele e durante la sua assenza, dato che lavorava tutti i giorni nella fucina, aveva una tresca con Ares. Sospettando questo tradimento, come vedremo nell’articolo legato a questi dei, Efesto architettò uno stratagemma per coglierli sul fatto e umiliarli pubblicamente di fronte agli altri olimpi: con una rete di bronzo li imprigionò sul talamo e poi chiamò tutte le divinità a testimonianza. Le dee non si presentarono, per segno di pudore, ma gli dei sì e lì Apollo, vedendo Afrodite nelle sue stupende nudità imprigionata a fianco dell’amante, canzonò Ermes che confessò di essere pronto a trovarsi nelle stesse condizioni di Ares anche se ci fossero state tre reti e non una sola a tenerlo prigioniero. In seguito questa dichiarazione d’amore da parte del dio dei viaggi gli valse una notte con Afrodite, dal cui amplesso nacque Ermafrodito, una creatura che possedeva entrambi i sessi e che nel nome stesso porta i semi di entrambi i genitori.

Ermes è un dio che appare spesso, come le carte false, nel mito greco, come quando liberò Ares dalla prigionia all’interno dell’urna di bronzo dentro il quale era stato chiuso per molti mesi dagli Aloidi, i figli di Aloeo che crescevano ogni anno di un cubito di larghezza e uno stadio di altezza, quando questi, a nove anni ritenuti per una profezia impossibili da uccidere né da dei né da uomini e per tanto non impauriti da nulla, cercarono di attaccare l’Olimpo per prendere Era ed Artemide, la quale andrò loro incontro sotto forma di una cerbiatta bianca e, saltando da una parte all’altra ed esortandoli a mostrare chi dei due fosse il più abile, li portò ad uccidersi vicendevolmente con un giavellotto, realizzando così la profezia.

Ermes si distinse anche come guerriero, soprattutto nella gigantomachia, quando abbatté Ippolito grazie all’uso in prestito dell’elmo di Ade che conferiva l’invisibilità. Gli erano sacre le gru, che poi erano anche gli uccelli che Apollo vide volteggiare sopra la caverna di Cillene dove era nato e che gli consentirono di trovare le pelli delle vacche rubate e uccise. 

Il simbolismo che Ermes porta con sé, oltre ai calzari alati e il berretto tondo, è quello del suo bastone dove due serpi, per tre spire, si arrotolano fino a trovarsi all’apice faccia a faccia. Questa verga, provvista di un pomello sulla cui cima si aprono due ali, è nota come Caduceo e spesso è confusa con il bastone di Asclepio, figlio di Apollo e patrono della medicina, arte insegnatagli dal centauro Chirone, da cui fu allevato. Il legame che unisce Ermes ad Asclepio giunge dall’evento che interessò Coronide, che come abbiamo visto nell’articolo legato al Figlio era amante del dio del Sole, il quale chiese ad un corvo dalle penne bianche di farle la guardia. La figlia di Flegia, re dei Lapiti, era però dominata da una passione per Ischi, l’arcade, e durante l’assenza di Apollo ebbe un amplesso con lui. Dopo aver ricevuto il messaggio dall’uccello, nonostante grazie al suo potere divinatorio ne fosse già al corrente, e dopo averlo maledetto a divenire nero per non aver accecato l’amante di Coronide, chiese ad Artemide di vendicare l’onta subita. Ella uccise Coronide colpendola con molte frecce ma Apollo venne colpito dal rimorso e mentre il corpo dell’amante bruciava sulla pira chiese ad Ermes di intervenire e lui giunse per prendere dal ventre della donna il bambino che vi stava crescendo e che era ancora vivo.

Ma torniamo al bastone. Come abbiamo visto, Zeus regalò ad Ermes una verga con nastri bianchi che servisse come simbolo di rispetto del suo ruolo di araldo e Apollo gli diede un bastone pastorale. Non appare però chiaro come mai Ermes non avesse due verghe, ma una sola. Pertanto il bastone era sempre lo stesso. Secondo il mito che spiega il significato del Caduceo, il dio viaggiatore, durante uno dei suoi vagabondaggi, incontrò due serpi che lottavano tra loro, contorcendosi in spire. Per portare la pace tre le due gettò il bastone donatogli da Apollo a terra e i due rettili vi si avvolsero intorno in spire, mostrando una perfetta armonia. Secondo Robert Graves i due serpenti non furono altro che i due nastri bianchi che rappresentavano il potere araldico di Ermes. Non per niente il nome stesso del bastone, kerykeion, è un aggettivo derivato da karix, che significa appunto "araldo". Il suo simbolismo diviene quindi quello del "paciere", ossia il ruolo stesso che un araldo dovrebbe avere, e il mito che interessa i due serpenti spiegherebbe proprio questo aspetto di spegnimento delle liti; veniva appunto mostrato dagli ambasciatori a simbolizzare il loro ruolo di mediatori e a caratterizzare e ricordare la loro immunità. Aveva quindi una duplice valenza, perché aveva carattere di disposizione morale, dal momento che rappresentava la condotta onesta che si doveva tenere nelle trattative degli affari, in quanto Ermes era stato insignito da Zeus del ruolo di patrono dei commerci e doveva supervisionare anche le stipule dei contratti e inoltre, essendo messaggero degli dei, rappresentava la mediazione della volontà divina tra uomini e dei. Il significato di questo bastone però richiama anche Mercurio, il dio italico e romano che è stato sovrapposto al dio greco. E prima ancora il bastone era stato il simbolo di Ermete Trismesgisto, il tre volte saggio, quello che è considerato il progenitore della magia. Il suo significato quindi riconduceva al potere della suprema saggezza, della conoscenza e quindi incarnava la sapienza religiosa, medicamentosa, morale, filosofica, scientifica e matematica e, di conseguenza, alchemica. Non per niente è da notare come il mercurio (Hg), oltre a rappresentare il dio italico e romano è anche il nome con cui ci si riferisce all’elemento della tavola periodica con numero atomico 80, l’unico metallo che si presenta allo stato liquido a temperatura ambiente. Il suo colore argentato ha portato anche al suo simbolismo chimico, ossia Hg, che deriva da hydrargyrum che significa "acqua d’argento". Questa peculiarità di "scorrevolezza" gli è valsa il nome del dio italico. Nell’arte alchemica era considerato come uno degli elementi primordiali della materia e uno degli stadi di elevazione dei metalli che portavano all’oro.

Il Caduceo quindi contiene dentro sé un simbolismo antichissimo e vasto, difficilmente trattabile qui senza andare fuori tema. Basti dire che i due serpenti, secondo alcune tradizioni, rappresentano il solve et coagula e vengono posizionati uno in salita e uno in discesa lungo l’asse del bastone stesso. Ma è proprio questo simbolismo a collegare Ermes a diverse divinità. In primis c’è da notare che la verga alata con tre spire di serpenti è stata rinvenuta anche su antiche tavolette di civiltà vediche oltre che su manufatti di origine mesopotamica.

In Egitto ad esempio il serpente era simbolo di potere, mistero e saggezza: qualcosa che ritroviamo ancora in Ermes, nella sua scaltrezza e nel potere di "strappare" il segreto della divinazione alle Trie di Apollo in cambio di uno zufolo. Dunque, se questi dona al fratellastro un pastorale, che porta il significato di "guida" e che lo riconduce al suo aspetto psicopompo, ad esso vengono aggiunti due aspetti: le ali, simbolismo di rapidità e di messaggio e simbolo aureo legato all’intelletto che lo contraddistingue anche come figlio di Zeus padre celeste, e i serpenti che richiamano il misterioso Pitone, figlio di Gea e custode dell’oracolo, ucciso da Apollo per ottenere il controllo dei sulfurei fumi sotterranei che inducevano la trance alle sacerdotesse, le pizie appunto. I serpenti sono quindi simboli di divinazione: la stessa che Ermes chiede ad Apollo come "aggiunta" al bastone che riceve, in quanto non è ritenuto abbastanza per chiudere un baratto con lo zufolo. Plinio, nel suo Naturalis Historia, ci narra di come vennero attribuite al serpente le peculiarità dell’intelletto e della letalità. Dal veleno che secernevano poteva giungere la morte, ma anche la vita, dal momento che era proprio con il veleno di quei rettili che si ottenevano le prime rudimentali medicine (non per niente il serpente era simbolo anche di Asclepio e appariva anche sul suo bastone). 

Ma c’è un ulteriore aspetto, forse azzardato, e che richiama l’alchimia. Come dicevamo il mercurio è considerato, secondo la scienza suprema, uno dei metalli primordiali; sembra che fosse cambiando il tipo e tenore di zolfo che il mercurio poteva subire la sua mutazione ed elevazione attraverso la trasmutazione dei metalli per giungere infine a quello più nobile: l’oro. Il mercurio quindi, di suo tossico ma ritenuto in antichità un metodo per garantire la vita eterna, e legato al dio stesso dei viaggi a cui erano sacre le gru (da qui le ali), trova la completezza della sua elevazione grazie all’ausilio dello zolfo, rappresentato dai serpenti, simbolo tellurico della dea Gea, patrona della divinazione. Era quindi l’abbraccio metafisico dell’incontro tra la materia più grossolana e quella primordiale che si incontrano in discesa e in salita.

In Egitto il serpente, in questo caso il cobra, si trovava sulla corona di Iside e quindi anche sulla corona del faraone stesso, e il simbolo del Caduceo era rappresentato su monumenti pre-osiridei. La testa e la coda delle due serpi andavano a richiamare i punti dell’eclittica in cui i due astri, Sole e Luna, ossia, come abbiamo visto sull’articolo dedicato ad Apollo, i due occhi del falco, rappresentato da Horus, si incontravano nel cielo.

Come abbiamo visto poco sopra, l’ingiungere di Tifone mise in fuga gli dei Olimpi che si rifugiarono in Egitto, dove venne così introdotto il culto zoomorfo che tutti conosciamo. Zeus, tramutato in Ariete, divenne Ammone, Ermes divenne Thot, Era divenne Iside-Hathor in forma di vacca, Artemide un gatto, quindi Bast, Apollo un falco, quindi Horus, ecc. Al di fuori delle altre divinità, Thot, il dio lunare, era anche l’inventore della matematica e il dio scriba. Sotto questo aspetto il legame con Hermes è molto stretto. Se non che l’ibis è anche l’uccello che si nutre di serpenti, a richiamare ancora l’acquisizione di un potere ctonio e un legame con la saggezza. Thot era ritenuto il sommo conoscitore ed era anche l’inventore della scrittura, una particolarità che appunto era stata attribuita anche ad Hermes. Ad inventare le cinque vocali del primo alfabeto e le consonanti B e T furono le tre Moire. Palamede, figlio di Nauplio, fu l’inventore delle undici consonanti ma fu proprio Ermes a riprodurre questi suoni in forma scritta creando così l’alfabeto pelasgico in segni, utilizzando in principio la forma cuneiforme a richiamare il volo stesso delle gru, che si muovevano in stormi a forma di cuneo.

Secondo Roberto Graves, L'alfabeto greco era una semplificazione dei geroglifici cretesi. Gli studiosi sono ora quasi unanimemente concordi nel ritenere che il primo alfabeto scritto nacque in Egitto durante il diciottesimo secolo prima di Cristo, per influenza cretese; ciò corrisponde all'ipotesi di Aristide, citata da Plinio, secondo la quale un egiziano chiamato Meno («luna») inventò l'alfabeto «quindici anni prima del regno di Foroneo, re di Argo». Esistono tuttavia prove che prima dell'introduzione dell'alfabeto fenicio modificato, esisteva in Grecia un alfabeto il cui segreto era gelosamente custodito dalle sacerdotesse della Luna, cioè Io o le tre Parche; tale alfabeto era strettamente legato al calendario e le sue lettere non erano rappresentate da segni scritti, ma da ramoscelli recisi da alberi di specie diverse, che simboleggiavano i diversi mesi dell'anno. L’invenzione dell’alfabeto egizio, come ci segnala Graves, è legato al calendario, che era di origine lunare, in quanto agreste, e la cui invenzione, ancora una volta, è attribuita allo stesso Thot, un dio lunare.

Anche il dio scriba, come il "cugino" greco, ebbe dalla sua il ruolo di paciere. Dopo che si fu consumata l’ultima battaglia tra Horus e Set, egli intervenne come medico, curando le ferite dei due e riportando la calma e la considerazione. Come ci narrano I Testi delle Piramidi, non a caso fu proprio nei pressi di Hermopolis che si tenne lo scontro conclusivo della faida, una città sacra appunto a Thot e che richiama il nome di Ermes. Egli svolgeva anche il compito di trascrivere le gesta dei morti e assisteva Osiride nel giudizio dei defunti. Al dio scriba venne attribuito il merito (o demerito) di aver compiuto una delle opere più misteriose e maledette che mai abbiano visto la luce per mano di mortali o immortali che fossero: il Libro di Thot. Il mito narra di come infuse tutta la sua saggezza e la sua conoscenza in un unico tomo (o rotolo di papiro) ma che, una volta terminato, ritenendolo troppo pericoloso, lo chiuse in una stanza segreta del tempio a lui dedicato che sorgeva a El-Asmunein, l’antica Khemnu. Sembra però che questo manoscritto fu utilizzato da molti per fare del male. Esso conteneva nozioni di un tale potere che in ultimo spinsero il dio a distruggerlo in quanto lo ritenne decisamente inadatto alle mani di un mortale.

A Thot sono attribuite altre invenzioni come i tarocchi, che secondo alcuni non sono altro che le settantotto tavole nelle quali infuse il potere esoterico della sua arcana conoscenza e il cui significato ermetico primario sia ancora eclissato dietro i loro simbolismi. 

Il legame di Thot con i serpenti ritorna ancora vivo in quanto questo rettile è un animale lunare, legato al cambio stagionale come al cambio della pelle. Il mito narra di come il cobra fu creato dal fango da Iside affinché morsicasse il tallone di Ra mentre attraversava il cielo e gli instillasse così un veleno che nessuno tranne lei poteva curare. La dea usò questo stratagemma per riuscire a strappare al sommo dio solare il suo nome segreto, dal quale poteva ottenere un potere magico superiore a qualsiasi altro. Il serpente, con la sua attitudine all’ipnotizzare la preda, secondo Plinio richiama ancora la scaltrezza di Ermes. Come anche Horus, Thot porta con sé la croce ansata, simbolo della vita.

Secondo alcune trasposizioni Thot aveva una sposa, la dea Heket, dalla testa di rana. Anche questo aspetto richiama il legame che ha con il dio greco, in quanto questa dea è legata ad Ecate ed era considerata la dea ostetrica. Secondo gli egizi, che ritenevano il Nilo come fonte della creazione della vita, dove i girini crescevano e diventavano rane, esisteva un richiamo al fatto che qualunque essere umano nasce dalle acque. Anche Ecate era patrona dei parti e a sua volta in quanto divinità psicopompa è a stretto contatto con Ermes per il ruolo di entrambi di guida dei defunti. Un ruolo però che nel culto egizio è tributato ad Anubi, il dio imbalsamatore dalla testa di sciacallo nero. Questa divinità rappresenta l’altro aspetto di Ermes ed è colui che svolge il compito di guidare le anime dei morti al cospetto del giudice Osiride e dello scriba Thot affinché il loro cuore venga pesato sulla bilancia rappresentata da Maat e, se ritenuti degni, venga loro garantito l’accesso al regno di Osiride, il Duat, oppure, al contrario, finiscano nelle fauci del dio coccodrillo Ammit.

Secondo alcuni egittologi Anubi era rappresentato, guarda caso, con in mano il Caduceo, esattamente come Ermes. Il suo nome, significa "colui che possiede la testa di cane selvaggio". Originariamente era un dio della morte e sarebbe figlio di Set e Nefti, ma la paternità era dubbia. Aveva forma di sciacallo in quanto era un animale che si nutriva di cadaveri e, con la crescita del culto di Osiride, il suo ruolo divenne quello di guardiano dei defunti oltre che di guida. Un ruolo che nel pantheon greco prima pareva spettasse ad Ade che in seguito lo cedette ad Ermes. Anubi doveva stare a guardia anche della bilancia su cui veniva pesato il cuore del defunto che si sottoponeva al giudizio di Osiride. Era associato anche ad un dio noto come Upuat, ossia "colui che apre la via". Infatti era il dio imbalsamatore, colui che preparò il corpo di Osiride per la sepoltura e la conseguente rinascita. Sua moglie era Anput, il cui nome per molti anni è stato ritenuto solo un altro modo di chiamare la stessa divinità, in quanto entrambi venivano rappresentati con la testa di sciacallo.

Dopo l’invasione alessandrina nel 332 a.C. venne creato un sincretismo tra il culto di Anubi e quello di Ermes, favorendo quindi la nascita di una nuova divinità: Ermanubi, che fondeva gli aspetti di entrambi gli dei. Ed è infatti qui che possiamo trovare Anubi con in mano il Caduceo. Nelle Metamorfosi Apuleio fa un riferimento a questa divinità, facendoci intendere come il culto fosse giunto fino alla Roma del secondo secolo: "Non tardarono, quindi, ad apparire gli dèi, che si degnavano d'incedere valendosi dei piedi degli uomini. Ecco il terribile messaggero che fa la spola tra gli dèi del cielo e dell'Inferno avanzare con il capo eretto e il volto mezzo nero e mezzo giallo come l'oro, drizzando alteramente il suo collo di cane: Anubi, che con la mano sinistra recava il caduceo e con l'altra scuoteva un ramo di palma".