The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Rhea la Potente

 

Rhea la Potente
 

Rhea era figlia di Urano e Gea, e pertanto titanessa moglie di Crono e madre della stirpe olimpica. L'etimologia del suo nome rimane oscura. Tuttavia, secondo Adrian Room, autore del Room's Classical Dictionary: The Origins of the Names of Characters in Classical Mythology, se ne suggerisce la radice dal greco al verbo ῥέω, "scorrere"; oppure, dato che si tratta di una divinità della terra, potrebbe essere associato con quello di Era e derivare da ἔρα, "terra", ipotesi che appare, comunque, indimostrabile. Secondo Carnoy (DEMGR) il nome potrebbe essere un epiteto della terra, dall'indoeuropeo *ueru, greco εὐρύς, "largo", quindi significherebbe "estesa".
Rhea era una dea della maternità, della fertilità e legata alla terra e alle creature selvagge. In qualche modo raccolse l'eredità della stessa Gea. Sposata con il dio del tempo, ne incarnava pertanto gli aspetti ciclici. Se lui era l'eternità priva di inizio e di fine, l'esterno ed eterno scorrere, lei ne rappresentava l'effetto naturale. Questo stesso evolvere si ritrova anche nell'ipotesi dell'etimologia del suo stesso nome, derivante da ῥέω. In questo contesto possiamo ritrovare tutta una serie di concetti legati all'acqua. La tendenza umana, infatti, soprattutto da un punto di vista neopagano, dato che tendiamo a lavorare più facilmente con corrispondenze legate ai quattro elementi, è quella di considerare la terra come fertile, quando invece l'essenza pura della terra è sterile, pertanto legata alla morte. È solo grazie alla fusione con l'acqua che trova l'epifania e la realizzazione nella vita e nella generazione, come vedremo in seguito anche nel mito sincretico che tratteremo.
Secondo quando ci racconta Esiodo nella Teogonia, dopo l'evirazione di Urano da parte di Crono, quest'ultimo, una volta ottenuto il potere assoluto, bandì Ciclopi e Ecatonchiri nel Tartaro, esattamente come fece il padre. A quel punto Crono prese in moglie Rhea. Tuttavia, proprio come avvenne anche con chi lo aveva preceduto al regno dell'Elide, la stessa Gea profetizzò per lui la detronizzazione da parte di uno dei suoi discendenti. Pertanto, in un disperato tentativo di scongiurare il triste fato che gli era stato predetto, per cinque dei sei figli, tre femmine e due maschi, che questi ebbe dalla moglie fu riservato un infausto destino. Non appena Rhea li ebbe partoriti, fu costretta a portarglieli affinché Crono li inghiottisse. Ma proprio come la madre Gea, anche Rhea non era una dea sottomessa. Il suo aspetto di Mater Megale, ossia Grande Madre, la rendeva disperata per il destino toccato alla sua progenie, ma non per questo intenzionata a piegarvisi senza combattere; pertanto, per l'ultimo (e secondo alcuni miti anche per il penultimo) dei figli, la dea organizzò uno stratagemma affinché gli fosse salvata la vita. A notte fonda, mentre si trovava in Arcadia sul monte Liceo (che diede poi il termine lupo al neonato), Rhea partorì il suo figlio più piccolo: Zeus. Si dice che il dolore per il travaglio fu così grande che infilò profondamente le dita nel terreno e che dai buchi emersero dieci creature che furono chiamate Dattili e che l'aiutarono a partorire.
Secondo quanto ci racconta Pausania, là, in quel luogo dove i corpi non proiettano ombra, la Grande Madre bagnò il piccolo nel fiume Neda e poi lo affidò a Gea che, di nascosto, lo portò a Creta e lo eclissò agli occhi del mondo nella grotta Dittea sulla colline Egea. Come abbiamo comunque già visto nell'articolo riguardante Zeus, a guardia dei pianti del figlio mise i Cureti, i quali, picchiando con forza contro gli scudi in una danza marziale, impedivano a chiunque di avvicinarsi. Come vedremo, questi attendenti erano, secondo alcuni, i figli o i sacerdoti della stessa dea.
Nel contempo Rhea, invece di portare il piccolo in fasce a Crono, che sul monte Taumasio in Arcadia attendeva di poterlo imprigionare come gli altri nel suo stomaco, gli porse invece una pietra avvolta in fasce che egli, senza curarsi troppo di controllare, inghiottì, convinto così di scongiurare definitivamente la sua caduta.
Quando, in seguito, Zeus crebbe, si rivolse alla dea della saggezza Meti, la quale gli suggerì di chiedere alla madre per capire come spodestare il padre e prendere il posto che gli spettava. Rhea, pronta a ribellarsi al marito, lo fece coppiere reale in modo che potesse avere accesso diretto al vino di Crono, e, su suggerimento di Meti, Zeus miscelò al vino del padre un emetico, che lo costrinse a vomitare prima la pietra che egli aveva inghiottito e poi i fratelli e le sorelle imprigionati nel suo stomaco.
Secondo un mito però non fu il solo Zeus a rimanere indenne dalle fauci del padre. Rhea usò uno stratagemma simile anche per Poseidone; diede da mangiare un puledro al marito e nascose il figlio in un branco di cavalli. In un'altra versione Rhea affidò il piccolo Poseidone alle Telchine, creature dalla testa di cane e dalle mani a forma di pinne, figlie del mare. Queste forgiarono per lui il tridente così come avevano donato a Crono il falcetto con il quale aveva evirato Urano.
Ad ogni modo, una volta che furono liberati i fratelli e le sorelle imprigionati, questi chiesero a Zeus di condurli in battaglia contro i titani e tra gli dei scoppiò quindi la Titanomachia, al termine della quale tutti i Titani che non si schierarono con Zeus furono banditi nel Tartaro. Su intercessione della stessa Rhea però le titanesse furono risparmiate, come ci raccontano svariati autori tra cui Diodoro Siculo, Apollodoro, Igino, Callimaco, Esiodo, Pausania, Plutarco ed Eratostene.
Non appena Zeus fu re, la madre, comprendendo come la sua lussuria sarebbe divenuta motivo di dissidi, gli negò la possibilità di prendere moglie. Il padre del cielo, infuriato per questa costrizione, minacciò di prenderla con la forza; Rhea si trasformò quindi in un serpente, ma Zeus fece lo stesso e si con accoppiò lei sotto quella forma. La spiegazione di questo mito sarebbe da far risalire ad un momento storico determinante: dopo l'invasione ellenica, i sacerdoti devoti a Zeus che predicavano la monogamia, fino ad allora sconosciuta, si arrogarono il diritto di patrocinare le funzioni religiose legate alla Grande Madre. In questo modo le donne, che precedentemente erano libere di avere quanti amanti desiderassero, furono costrette a rimanere fedeli ad un uomo, pertanto al patriarcato. In questo contesto, quindi, Zeus violenta Rhea assumendo le sue stesse forme.
A Rhea era sacra la quercia, esattamente come in seguito divenne sacra a suo figlio, il padre degli dei. Robert Graves, nel suo I Miti Greci, afferma che Rea, che si accoppiò a Crono come Titanessa del settimo giorno, corrisponde a Dione o Diana, la triplice dea della colomba e della quercia. La roncola o falcetto di Saturno, il doppione latino di Crono, era a forma di becco di corvo e a quanto pare veniva usata nel settimo mese dell'anno sacro di tredici mesi per evirare la quercia recidendo il vischio, così come la falce rituale veniva usata per mietere il primo covone di grano. Con questa cerimonia si dava inizio al sacrificio del re sacro identificato con Zeus; e ad Atene Crono, cui era dedicato un tempio assieme a Rea, era oggetto di un culto sotto il nome del dio orzo: Sabazio, e veniva ogni anno mietuto nei campi e pianto come Osiride o Litierse o Manero. Ma all'epoca cui si riferiscono questi miti, i re sacri potevano prolungare il loro regno fino al termine del Grande Anno di cento lunazioni, sacrificando ogni anno un fanciullo come sostituto. Ecco perché si narra che Crono divorasse i suoi figli per evitare di essere detronizzato. Porfirio dice che i Cureti cretesi usavano sacrificare fanciulli a Crono nei tempi antichi.. Questo mito fu ripreso anche da Dante nella sua Commedia, e lui stesso li ricalcò dal poeta Virgilio, dal terzo canto dell'Eneide, e da Ovidio e Lucrezio.
Al contrario quindi di Crono, che aveva sacra la falce a rappresentazione del "tempo di mietitura", e che poi finì nelle mani iconografie della morte, a Rhea, sua moglie, era sacra l'ascia bipenne, o labrys, che negli anni settanta divenne il simbolo dell'omosessualità femminile e della liberazione o della riappropriazione del potere femmineo. Quest'arma, che divenne la folgore di Zeus, secondo la legge micenea e minoica, era di uso esclusivo delle donne e a nessun uomo era concesso anche solo sfiorarla. La sua forma, soprattutto dovuto ai ritrovamenti legati all'età del bronzo, fa pensare che si trattasse di un'arma di tipo sacrificale, dato che le lame erano affilatissime e capaci, pertanto, grazie anche alla pesantezza, di decapitare con un singolo colpo anche animali di grossa stazza, come cavalli e tori. Propria, quindi, dell'arte minoica, questa arma ricollega Rhea alla dea del labirinto cretese.
Plutarco trovò una relazione tra il termine greco labrys e quello lidio che significa "ascia", e fu l'emerito professore tedesco di Liguistica Indoeuropea Comparata, Robert S. P. Beekes a suggerire che il termine stesso "labirinto", che a Creta era noto per essere la dimora e prigione del mostruoso semidio figlio di Poseidone e Pasifae: il Minotauro, trovasse la sua radice etimologica in labrys. Pare quindi che la dea che portava il labrys fosse anche colei che presiedeva ai palazzi cretesi, in particolare quello di Cnosso. Sulla tavoletta ΚΝ Gg 702, scritta in Lineare B (la scrittura micenea), appare appunto un'iscrizione che viene interpretata in "da-pu-ri-to-jo-po-ti-ni-ja", ossia labyrinthoio potnia, Signora del Labirinto.
A questo punto siamo giunti ad un nodo determinante che lega e tiene unito il significato del mito greco. Zeus nasce e viene allevato a Creta, là dove nasce anche Dioniso e dove, è evidente, viene onorata la madre Rhea e dove aveva anche dimora, ossia sul monte Ida. Gli stessi cureti, sacerdoti e figli della dea, non svolgevano solo il ruolo di guardiani del piccolo Zeus, ma erano attendenti all'uso dei suoi sacri tamburi, di forma circolare e fatti in pelle di capra. Le sacre danze e ritmi che suonavano, avevano quindi lo scopo di portare ad uno stato alterato di coscienza. Le danze tribali che svolgevano si tenevano con armi e scudi di bronzo che, picchiati l'uno contro l'altro, avevano lo stesso suono dei cimbali.
Ora troviamo la presenza di questa dea, mentre suona i suoi sacri tamburi, anche in un mito di creazione antichissimo, di origine orfica, che troviamo in alcuni Frammenti Orfici. Secondo questo mito la Notte, accoppiatasi con il Vento, depose un uovo d'argento da cui nacque una creatura ermafrodita e dalle ali dorate con quattro teste: una di leone, una di toro, una di ariete e una di serpente. Questa creatura venne chiamata da Notte Eros, e assieme vissero in una grotta. Lo scopo di Eros era quello di far sì che l'universo cominciasse il suo moto perpetuo. Al di fuori di questa grotta stava Rhea, detta l'inesorabile, che seduta batteva le mani su un tamburo di bronzo per costringere gli uomini a prestare attenzione ai suoi oracoli. Secondo Robert Graves nel suo I Miti Greci: Il mito orfico ci presenta un'altra versione dello stesso mito pelasgico, in cui si avverte però l'influenza della più tarda dottrina mistica dell'amore (Eros) e delle teorie sorte a proposito dei rapporti tra i sessi. L'uovo argenteo della Notte simboleggia la luna, poiché l'argento era il metallo lunare. Come Ericepeo («colui che si nutre d'erica»), il dio-amore Fanete («rivelatore») è una ronzante ape celeste, nata dalla Grande Dea. L'alveare infatti fu preso a modello della repubblica ideale e convalidò il mito dell'Età dell'Oro, quando il miele stillava dagli alberi. Il bronzeo tamburo di Rea echeggiava per impedire alle api di sciamare disordinatamente e per tenere lontani gli spiriti maligni; con lo stesso scopo, nelle cerimonie misteriche, si facevano roteare i rombi. Come Fetonte Protogeno («lucente primogenito»), Fanete è il Sole, che per gli Orfici era simbolo di luce spirituale, e le sue quattro teste corrispondono ai quattro animali delle stagioni. Secondo Macrobio, l'oracolo di Colofone identificò codesto Fanete con il trascendente dio Iao: Zeus (l'ariete) era la primavera; Elio (il leone) era l'estate; Ade (il serpente) era l'inverno e Dioniso (il toro) l'anno nuovo.
Con l'avvento del patriarcato, lo scettro della Notte passò nelle mani di Urano.
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Rhea appare nell'arte greca solamente nel quarto secolo a.C, quando la sua iconografia si sovrappose talmente tanto a quella della frigia Cibele che gli stessi greci giunsero ad affermare che in realtà fosse la stessa dea che aveva abbandonato il monte Ida per sfuggire a Crono e che aveva trovato dimora nelle foreste dell'Asia Minore. La sovrapposizione delle due divinità però impiegò del tempo per essere completa. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, risalenti al terzo secolo a.C., troviamo come Giasone, a capo degli Argonauti, attraversa l'Ellesponto e il Propontide giungendo sull'isola di Cizico. Il re, per via di una profezia che gli suggerisce di non infastidire i navigatori che giungono all'isola, li accoglie con tutti gli onori e offre loro un lauto banchetto. Tuttavia, prima che questi possano ripartire, dalle montagne giungono dei mostri a sei braccia che attaccano l'Argo e cercano di impedire ai marinai di riprendere il largo, gettando grandi rocce all'imbocco del porto. Gli Argonauti uccidono i mostri ma venti contrari impediscono loro di allontanarsi dall'isola di Cizico, pertanto ritornano al porto. Il re, scambiandoli per pirati, li attacca come invasori e finisce ucciso nel combattimento, realizzando quindi la profezia. Giasone si ferma dodici giorni sull'isola celebrando le esequie del re quando Mopso, un veggente, vede un martin pescatore svolazzare nei pressi della nave, rimanendo per alcuni momenti immobile sulla testa dell'eroe per poi posarsi a prua: "Subito dopo si levarono aspre tempeste per dodici giorni e dodici notti, ed impedirono loro di mettersi in mare. Nella notte seguente, tutti dormivano già da tempo, vinti dal sonno nell'ultima ora, ma sul loro sonno profondovegliavano Acasto e Mopso, figlio di Ampico; sopra la bionda testa del figlio di Esone volò l'alcione vaticinando con voce acuta la pace dei venti; l'indovino comprese il presagio propizio che dava l'uccello dei lidi.
Poi un dio lo mandò lontano, e si levò in volo,e andò a posarsi sopra l'aplustre, e Giasone, sdraiato su morbide pelli di pecora, fu subito scosso e svegliato da Mopso, che gli parlò in questo modo: "Figlio di Esone, devi salire al santuario del Dindimo impervio e placare la dea dal bel trono, la madre di tutti i beati: solo così cesseranno le tremende tempeste: questa è la voce che ho udito dall'uccello marino che, mentre dormivi, volava sopra il tuo capo, vaticinando ogni cosa.
Da lei dipendono i venti, il mare, la terra profonda, la sede nevosa d'Olimpo; e quando dai monti ascende al cielo, lo stesso figlio di Crono, lo stesso Zeus le cede il posto, e così gli altri immortali rendono onore alla terribile dea".
Così disse, ed egli si rallegrò a udire questo discorso. Si alzò dal giaciglio lieto e svegliò in fretta tutti i compagni, e quando furono in piedi, riferì loro il vaticinio del figlio di Ampico. Subito i giovani condussero i buoi dalle stalle e si arrampicarono fino all'erta cima del monte: altri sciolsero dalla pietra sacra le gomene, e remarono fino al porto Tracio; poi salirono anch'essi lasciando presso la nave soltanto pochi compagni. Davanti ad essi apparivano, quasi fossero in loro mano, le vette Macriadi, e tutta la terra di fronte alla Tracia; nella nebbia appariva la bocca del Bosforo, e le colline di Misia, dall'altro lato le acque del fiume Esepo, e la città, e la pianura Nepea di Adrastea.
Era nella selva un robusto tronco di vite, secco, invecchiato: gli eroi lo tagliarono per farne un simulacro della dea protettrice dei monti, e Argo lo incise con arte: lo collocarono in cima ad un colle dirupato, coperto da altissime querce, che più in alto di tutte affondano le loro radici.
Costruirono poi un altare di pietra: e celebrarono, coronati di foglie di quercia, il sacrificio invocando la madre santa del Dindimo, la protettrice di Frigia, e insieme Tizia e Cilleno, i soli che hanno il nome di ministri, e reggenti dei fati, tra i Dattili Idei di Creta, a cui diede vita un tempo la ninfa Anchiale nell'antro Ditteo stringendo con ambo le mani la terra di Oasso.
Con molte preghiere, e libando sopra le vittime ardenti, il figlio di Esone chiese alla dea di allontanare da loro le tempeste, e nel frattempo i più giovani, seguendo il comando di Orfeo, danzavano in armi un girotondo ritmato e percuotevano con le spade gli scudi, perché si sperdesse nell'aria il funesto lamento che ancora il popolo tutto piangeva per il suo re. Da allora e per sempre i Frigi onorano Rea con le trottole e con i tamburi.
La dea prestò attenzione benevola ai pii sacrifici, e ne apparvero limpidi segni: gli alberi davano frutti infiniti, la terra da sé, sotto i loro piedi, generava dall'erba tenera i fiori; le belve, abbandonate le loro tane nella foresta, venivano incontro scodinzolando. E ancora un altro prodigio: nessuna acqua bagnava il Monte Dindimo prima, ma allora, per essi, sgorgò dall'arida vetta inesauribile: in seguito, le genti vicine la chiamarono "fonte di Giasone".
Fecero un banchetto per la dea sul Monte degli Orsi, e cantarono Rea veneranda; poi, quando sorse il mattino, caddero i venti, e lasciarono l'isola a remi."
Rhea, così come Cibele, era sempre rappresentata come seduta su un trono e affianca da due leoni, i quali spesso trainavano il carro su cui appariva. A volte veniva rappresentata mentre cavalcava un leone. Questi due animali secondo il mito sarebbero Atalanta e Melanione, puniti da Zeus e costretti a trainare il carro della dea per aver profanato il suo tempio. Tuttavia, questo suo legame con le creature selvagge si ritrova anche nelle rappresentazioni di Artemide alata, in cui la si vede tenere per la collottola due leoni come se fossero gattini. Rhea infatti era la divinità delle creature selvagge e considerata la Potnia Theron. Nella sua iconografia ha sempre un atteggiamento regale. Nella versione di Cibele, specialmente dopo la sua integrazione politica nel culto romano come Magna Mater, sul capo indossa una corona turrita o coronas muralis, simbolo repubblicano e imperiale del valore militare. Lo stesso tipo di corona si trova sullo stemma di ogni città italiana.
A Rhea, il cui mito è intersecato con quello di Cibele, era sacra una pietra nera di origine meteorica precipitata nei pressi della città di Pessinunte, in Frigia, in particolare su una scogliera chiamata Agdos dove, si dice, questa pietra cadde. Pessinunte era la patria di Re Mida, colui che, dopo che due contadini ebbero trovato il Satiro Sileno, tutore di Dioniso, che si era perduto ubriaco nei boschi, per averlo trattato in modo affabile e per averlo riportato sano e salvo dal dio del vino, chiese di poter trasformare qualsiasi cosa toccasse in puro oro, scoprendo però ben presto di non potersi più nemmeno sfamare. Lo stesso Mida era figlio adottivo di Cibele e fu colui che fece costruire il tempio anatolico di cui sono stati ritrovati i resti sepolti durante uno scavo archeologico nel 1967.
La parte centrale del mito di Cibele, che qui si interseca con quello di Rhea, narra di come Zeus, impazzito di desiderio per la madre, cercò di sedurla. Quando lei rifiutò tassativamente, il dio cercò di prenderla con la forza senza però riuscirvi. Secondo un'altra versione del mito il Padre degli dei ebbe una polluzione notturna mentre la sognava. Ad ogni modo il seme di Zeus schizzò sulla pietra di Agdos, dando così vita ad una creatura bisessuale e malvagia che prese nome Agdistis (dal nome della pietra da cui nacque). Costei, nata urlando, era un essere malvagio, selvaggio ed indomabile. Le sue abitudini erano di rubare, distruggere e uccidere tutto ciò che le aggradava, senza onorare gli dei. Ella era decisamente malvoluta da chiunque sull'Olimpo per il suo carattere crudele, tanto che un giorno Dioniso fu incaricato dagli altri dei di darle una lezione. Agdistis, dopo le caccie a cui prendeva parte, soleva abbeverarsi dell'acqua del fiume Sangarios, l'attuale Sakarya che attraversa la Turchia per finire nel Mar Nero, pertanto il dio tramutò le sue acque in vino facendola ubriacare al punto da svenire, dopodiché la mise a dormire su un ramo di melograno (secondo alcuni un mandorlo - entrambi comunque simboli femminili), sospesa da terra, legando il suo fallo all'albero stesso. A quel punto prese a scuotere violentemente la pianta e facendola così cadere la evirò e il sangue di Agdistis macchiò il tronco. Secondo un'altra versione, narrata da Pausania, Dioniso legò il fallo di Agdistis ad un albero con una corda di capelli intrecciati e lei, alzandosi in piedi con un balzo, si evirò. La terra assorbì il sangue che sgorgò a fiotti dalla ferita e da esso spuntò un albero che diede un singolo frutto di incredibile bellezza: un melograno o un mandorlo. La ninfa fluviale Nana (il cui nome, non a caso, era un appellativo della dea Ishtar), nota come Sangaride perché era figlia del dio del fiume che ne portava il nome, colpita dalla bellezza del frutto di quell'albero, ne mangiò e rimase gravida, o, secondo un'altra versione, lo nascose nel ventre, dove venne assorbito lasciandola incinta. Il padre, non comprendendo come potesse aver avuto un figlio in questo modo e credendola bugiarda, sentendosi disonorato la condannò a morire di stenti in prigione. Tuttavia Rhea le salvò la vita nutrendola con frutti della terra finché non partorì. Quando ciò avvenne Sangarios ordinò che il bambino venisse lasciato esposto agli elementi così che morisse, ma un caprone lo nutrì con il suo latte. Qui notiamo come i ruoli maschili e femminili di tutta la storia siano continuamente invertiti, esattamente come Agdistis, che era sia donna che uomo. Al piccolo venne dato il nome di Attis perché in lingua lidica attagos è il termine che si usava per riferirsi ai caproni.
Attis crebbe come un fanciullo di incredibile bellezza. Qui la storia si divide in due versioni contrapposte. Nella prima vediamo come Agdistis, ormai solamente donna in quanto evirato, si innamorò follemente di lui; in sua compagnia cacciava e passava tutto il suo tempo. Tuttavia re Mida di Pessinunte, deciso a separare i due, gli diede in sposa sua figlia Atta. Durante le nozze, proprio quando veniva cantato l'inno d'Imeneo, canto sacro al dio figlio di Dioniso e Afrodite che tutelava il matrimonio, Agdistis apparve con in mano una syrinx, uno strumento musicale noto anche come "flauto di Pan", e composto da canne legate assieme tra loro. Suonando instillò la follia in tutti gli invitati. Lo stesso Attis, preso un coltello cerimoniale, si evirò sotto un pino al grido di "Per te, Agdistis!", seguito anche dallo stesso Re Mida. La sposa si tagliò invece i seni. Dal sangue versato crebbero delle viole mammole.
Dopo aver visto ciò che accadde, Agdistis si pentì amaramente e implorò Zeus di far sì che il suo amato potesse tornare a vivere. Tuttavia non era nei poteri di suo padre intromettersi nelle decisioni delle Moire, pertanto poté solo acconsentire a che il suo corpo non venisse mai toccato dalla corruzione.
La seconda versione, di tipo pelasgico, vedeva invece come a perdere la testa per Attis fosse proprio Cibele, che lo rese il suo paredro, pertanto gli era sia amante che madre. La dea lo teneva legato a sé con continui amplessi e viziandolo con dolci frutti e con musiche soavi che suonava solo per lui grazie alla sua sacra lira. Tuttavia Attis decise un giorno di allontanarsi dal talamo di Cibele, desideroso di vedere il mondo e di conoscere un'altra donna. La dea però, estremamente gelosa e possessiva, lo seguì sul suo cocchio trainato da leoni per controllarlo e lo colse mentre, all'ombra di un pino, convinto di poter sfuggire al suo sguardo onnisciente, si dava ad una mortale. Accortosi di essere stato colto sul fatto, Attis si evirò sotto lo stesso albero. Tuttavia a volte si narra che fosse stata proprio Cibele a far impazzire il dio il giorno del suo matrimonio. Ad ogni modo Ovidio, nei Fasti, canta a tal proposito: “Il pino dall’ispido capo e dalle succinte chiome, caro alla madre degli dei, se è vero che il cibeleo Attis per lei si spogliò della sua figura d’uomo indurendo in quel tronco”. La scelta di questi tre alberi: pino, mandorlo e melograno non è del tutto a caso, dal momento che sono simboli maschili e femminili. Inoltre il pino è, egli stesso, un albero ermafrodito.
Robert Graves ci fa notare come: Afrodite Urania («regina delle montagne») o Ericina («regina dell’erica») era la dea-ninfa della mezza estate. Essa uccideva il divino paredro, che si era accoppiato a lei sulla vetta della montagna, così come l'ape regina uccide il maschio, cioè strappandogli i genitali. Ecco il perché del manto rosso come l’erica delle api ronzanti che diedero un particolare carattere all'idillio di Afrodite con Anchise. Per la medesima ragione Cibele, l'Afrodite frigia del monte Ida, era adorata come ape regina, e i suoi sacerdoti si autocastravano nel corso di un'estasi mistica in memoria di Attis, amante della dea.
Rhea rappresenta nei fatti la Grande dea Anatolica, la stessa che, come ci narra Nonno di Panopoli, guarì Dioniso dalla sua follia e lo iniziò ai misteri. Era ritenuta la dea delle fiere e, come abbiamo visto, questa associazione la avvicina ad Artemide e in particolare alla sua rappresentazione con molte mammelle. Secondo il mito orfico fu proprio lei che riportò Zagreo in vita dopo che questi fu fatto a pezzi dai Titani istigati da Era. In questo contesto spesso la troviamo in un ruolo di intercessione, come quando, su richiesta di Zeus, riuscì a convincere Demetra ad accettare che la figlia Kore rimanesse per sei mesi all'anno negli inferi con Ade e per sei in superficie.
La forte comparazione tra Rhea e Artemide ha comunque un punto intermedio, che è Hera, il cui stesso nome è l'anagramma di quello della madre e, retroattivamente, anche la stessa Gea. È infatti Esiodo il primo che fa una netta distinzione tra quest'ultima e Rhea, dato che ovunque era considerata una dea della terra. Suoi figli, oltre agli Olimpi, erano i Dattili, che, come abbiamo visto, nacquero dai fori che la dea praticò con le mani quando cercò di resistere alle doglie per il parto di Zeus. Questi stessi Dattili vennero in seguito detti Cureti o Coribanti, gli stessi "Figli di Rhea" che, battendo le armi sugli scudi o sui tamburi di bronzo sacri alla dea, cercavano, rumoreggiando, di impedire a Crono di scoprire l'ubicazione del piccolo Zeus. Questo richiamo mitologico rende Rhea la patrona dei fabbri, ossia dell'arte di lavorare i metalli estratti dalla terra. Come ci fa notare Robert Graves nel suo I Miti Greci: La dea aveva ammesso soltanto la lavorazione dell'oro, dell'argento, del rame, del piombo e dello stagno, benché i frammenti di ferro contenuti nelle meteoriti avessero un valore inestimabile per via della loro origine miracolosa, e può darsi che una meteorite fosse caduta sul monte Berecinzio. Un blocco di ferro non lavorato fu rinvenuto in un deposito neolitico presso Pesto accanto a una statuetta d'argilla rappresentante la dea accovacciata, unitamente a conchiglie e a tazze per le offerte..
Quando Cibele venne completamente inglobata nel mito romano, divenne la Magna Mater Deorum Idaea. Il suo culto misterico venne importato a Roma in seguito ad una profezia contenuta nei Libri Sibillini. Tito Livio, negli Ab Urbe Condita, ci narra come durante la seconda guerra punica, secondo l'interpretazione estrapolata da questi testi profetici, l'unico modo per vincere il nemico pareva fosse quello importare il culto della Grande Madre alla capitale. Pare inoltre che ci fu una pioggia meteorica in quel periodo e questo collegò inevitabilmente a Cibele. La pietra nera del culto della Magna Mater fu portata dalla scogliera di Agdo, in Frigia, al Palatino e vennero istituiti i misteri primaverili, i ludi megalenses. Al culmine della loro iniziazione gli stessi sacerdoti di Cibele si eviravano in ricordo del sacrificio del figlio durante i misteri in un rito che si teneva proprio dove ora sorge la Basilica di S. Pietro.
Come abbiamo potuto vedere finora, Rhea è una figura divina che, nella Grecia classica funge, da un punto di vista evolutivo, come "passaggio" tra Gea ed Artemide. L'enorme numero di sovrapposizioni che è possibile trovare nei miti fa decisamente pensare che la geneaologia vicina di queste dee sia in realtà solo una visione più tarda, quindi esiodea. Rhea incarna, quindi, l'aspetto della natura selvaggia e lei è la Signora delle Selve e delle Fiere, accompagnata da leoni montani come fossero micetti. Là dove la figlia Hera rappresentava il potere matriarcale trasformato in specchio e riflesso del patriarcato, Rhea ancora incarnava un forte aspetto generativo spontaneo e indipendente, a ricordarci i tempi in cui, come abbiamo visto, la monogamia non era una prerogativa delle donne; una differenza che invece Hera rappresentava e difendeva, essendo lei stessa la dea del matrimonio, seconda solo a Zeus. È quindi interessante notare come il collegamento diretto tra Gea, Rhea e Artemide salti a pie pari Hera che appare spogliata di tutti i suoi poteri femminili originari a parte, in piccola misura, della profezia.
In quanto Grande Dea Anatolica, Rhea incarna tutti gli aspetti delle dee madri: la fertilità, l'aspetto orgiastico, lo stretto legame con la terra, il rapporto con la maternità che la porta ad essere tutelatrice dei figli e dei bambini in genere, nonché delle donne in gravidanza. È pertanto facile come impossibile trovare un corretto corrispettivo di questa dea in altri pantheon, per il semplice fatto che rappresenta l'archetipo della Grande Dea Madre: patrona di innumerevoli figli, signora delle creature selvagge e dei luoghi selvatici. Nel Ṛgveda Saṃhitā, una raccolta di inni sacri vedici, troviamo un canto a lei dedicato che dice:
Io sono la Regina che governa, colei che accumula tesori,
piena di saggezza, la prima di coloro che sono degni di adorazione.
In diversi luoghi le energie divine mi hanno posta.
Io entro in molte case e assumo numerose forme.
L'uomo che vede, che respira, che sente parole pronunciate,
ottiene il proprio nutrimento solo attraverso me.
Pur non riconoscendomi, egli dimora in me.
Ascolta, tu che conosci! Ciò che io dico è degno di fede.

L'incredibile aura di santità, di mistero e di potere che traspare tra queste parole lo si annusa anche in altri inni dedicati a Rhea e Cibele, come nell'Inno e Lode romano, che recita:
Ave, Grande Madre dell'Ida, Madre degli Dei!
Ave, O più antica Sacra Dea!
Io ti offro preghiere devote, O Cibele,
Berecinziana Madre di Dindymus!
Accoglici sotto la Tua protezione
Che Tu possa difenderci!
A Te offro questa supplica
Per garantire pace, sicurezza,
E salute alla nostra famiglia.
Possa tu essere benevolente e a noi propizia
e non abbandonare mai la Tua progenie.
se si presenta un'offerta di vino:
Per queste cose sii Tu onorata da questa libagione.
Sii Tu benevola e a noi propizia!

Un interessante corrispettivo di Rhea lo troviamo nella mesopotamica Ninhursag. Ella rappresentava il concetto supremo della terra e, durante il mito creazionistico sumero vediamo come sia Enlil ad intervenire affinché dividesse la terra dal cielo attraendola verso di sé mentre, in moto opposto, la volta celeste venne attratta verso l'alto.
Ninhursag era ritenuta anche colei che plasmò gli esseri umani dall'argilla; le venne attribuito anche un ruolo nel concetto della maternità legata al parto, rendendola la genitrice suprema.
Il suo nome, dal sumero Nin, Signora, e Ḫar.sag, "montagna sacra", significa "Signora delle Montagne". Questo termine, secondo gli studiosi, sarebbe da ricondurre al luogo del suo tempio a Eridu: E-Kur, che significa "Dimora delle montagne profonde". Ninhursag era una delle sette divinità più importanti del pantheon sumero ed era ritenuta la Vera e Grande Signora dei Cieli. Si riteneva che i re fossero nutriti dal suo sacro latte fin dai primi giorni, inducendo quindi un chiaro richiamo ad un forte aspetto di fecondità ed abbondanza divina. Il suo simbolo sacro era uno shen, un oggetto del tutto simile all'omega greca, che si ritrova a volte nella forma dei suoi capelli e che, a sua volta, è un tipo di caratteristica che è possibile individuare anche tra le mani delle rappresentazioni di Ishtar, che soppiantò il prestigio del suo culto con la sua ascesa.
Ninhursag era ritenuta la madre di Marduk, l'impavido eroe che uccise la mostruosa dea-drago Tiamat e, inoltre, è ricordata anche per aver plasmato Enkidu, il compagno che accompagnò Gilgamesh nella famosa Epopea che lo riguarda. Esattamente come Rhea, anche Ninhursag era rappresentata con leoni al suo fianco, spesso sotto forma di cuccioli che teneva al guinzaglio, e mentre indossava una gonna a balze, come quella che troviamo addosso alla Potnia dei Serpenti Minoica. Era altresì possibile vederla armata con una mazza e talvolta con una faretra.
Come molte altre divinità aveva molti nomi ed epiteti, come Ninmah, che significa "Grande Regina", o Nintu, che significa "Signora delle Nascite", ma anche, guarda caso, Mamma o Mami, due termini che riconducono, curiosamente, anche al termine che nella nostra stessa lingua significa "Madre". Tuttavia molti di questi nomi pare fossero in principio legati a divinità differenti che hanno creato con questa dea un forte sincretismo, fondendosi tra loro, come del resto accadeva molto spesso.
Ninhursag era ritenuta moglie di Enki e, in quanto tale, quindi, acquisì dentro di sé un aspetto celeste, nonostante conservasse il suo stretto legame con la terra che la vedeva come manifestazione del ventre materno e madre degli dei e degli uomini. Il mito che la interessa è narrato in special modo in un poema epico risalente probabilmente alla prima metà del secondo millennio a.C. Questo poema, rinvenuto negli scavi dell'antica Nippur, sulle rive dei Tigri a circa 160 km dall'attuale Baghdad, capitale iraqena, intorno alla fine dell'ottocento e scritto in alfabeto cuneiforme inciso su tavolette d'argilla cotte, è conservato ora al museo dell'Università della Pennsylvania. Nella traduzione dall'accadico di cui sono riuscito ad entrare in possesso, per gentile concessione della Facoltà di Studi Orientali dell'Università di Oxford, purtroppo non completa e frammentaria, soprattutto verso la fine, si narra quindi la storia in due parti diverse. La prima racconta di come fosse il mondo in cui Ninhursag fosse moglie divina di Enki e di come lui portò l'acqua sulla terra su richiesta della figlia. Infatti, anche se si parla di un mondo del tutto simile alla famigerata Età dell'Oro, in una terra chiamata Dilmun che il poema definisce chiaramente, il regno era desertico e brullo: "Pure sono le città, e voi siete coloro ai quali esse sono state destinate. Pura è la terra di Dilmun. Puro è il Sumer e voi siete coloro ai quali è destinato. Pura è la terra di Dilmun. Pura è la terra di Dilmum. Vergine è la terra di Dilmun. Vergine è la terra di Dilmun. Immacolata è la terra di Dilmun". In questa terra così pura, Enki giacque con Ninsikila, copulando con lei: "La fece adagiare tutta sola a Dilmun, e il luogo dove Enki giacque con la sua sposa, quel luogo era ancora vergine, quel luogo era ancora immacolato. La fece adagiare tutta sola a Dilmun, e il luogo dove Enki giacque con Ninsikila, quel luogo era vergine, quel luogo era immacolato." Vediamo ora come questo luogo, vergine e immacolato, rispecchi il richiamo all'età precedente all'istituzione della proprietà privata, prima del servo e del padrone. "A Dilmun il corvo ancora non gracchiava, la pernice non starnazzava. Il leone non aveva ancora ucciso, il lupo non aveva ancora rapito gli agnelli, il cane non aveva ancora imparato a far rannicchiare i bambini, il maiale non aveva ancora imparato che il grano poteva essere mangiato".
Il poema è molto confuso, anche perché frammentario, ma parla di come nella terra di Enki non sgorgasse l'acqua e lui promise a Ninsikila, sua figlia, che gli chiese cosa potesse avere dalla città che lui aveva costruito, che quando Utu (il sole) camminerà nel cielo sgorgheranno le acque dal sottosuolo che eromperanno riempiendo i bacini, dando così modo alle genti di Dilmun di poter bere in abbondanza.In sostanza garantisce alla figlia che le acque sgorgheranno entro la fine della giornata.
A quel punto Enki, come ci fa notare Samuel Noah nel suo History Begins at Sumer: Thirty-Nine Firsts in Recorded History, è il Signore delle Acque e fa sgorgare l'acqua rendendo, quindi, fertile la terra, ossia la sua stessa consorte Ninhurag. Ma Ninhursag si allontanò da lui, che viveva nella palude e nei pressi dei fiumi, e quando sua figlia Ninnisig si avvicinò al suo regno e alla riva lui la scambiò per una fanciulla qualsiasi (o anche per la stessa consorte) e desiderò giacere con lei, pertanto la sedusse e la fecondò. Ma anche quest'ultima si allontanò dando alla luce Ninkura e quando la fanciulla si avvicinò al fiume, ancora una volta Enki cercò di sedurla e la fecondò. Stessa sorte toccò a Ninimma che diede la luce a Uttu. A quel punto, ancora una volta, Enki cercò di giacere con la sua discendente. Tuttavia Ninhursag l'aveva messa in guardia nei suoi riguardi, chiedendole di prestare attenzione al suo avvertimento di stare lontana dalla riva, perché nella palude esisteva un uomo che era in grado di vedere fin sopra le montagne. Ma Enki fece di nuovo esondare i fiumi inondando la terra e fertilizzandola e scoprì come sedurre Uttu portandole cetrioli, mele e uva (ossia i frutti del raccolto che, grazie all'acqua, era cresciuto sulla terra). A quel punto si presentò alla sua porta e chiese di entrare portandole i doni, poi giacque con lei e la fecondò. Ma Ninhursag prese il seme di Enki dal ventre della giovane e lo piantò per terra facendo così crescere otto piante differenti. Enki, vedendo queste piante che non conosceva chiese alla sua serva Isimud di cosa si trattasse e questa le tagliò ad una ad una e le diede al suo re, ed egli le mangiò. Le piante però erano cresciute dal suo stesso seme e mangiandole il dio si ammalò, rimanendo gravido in diversi punti del corpo. Non potendo però partorire, dato che era un uomo, Enki stava morendo per queste enormi escrescenze.
A quel punto la volpe, saggia, si presentò ad Enlil, il re degli dei, e gli chiese cosa avrebbe avuto in ricompensa se avesse portato Ninhursag al suo cospetto e questi gli rispose che avrebbe fatto crescere due alberi di betulla nella sua città e l'avrebbe resa rinomata. La volpe (non ci è pervenuto il come) riuscì a convincere la dea della terra a presentarsi da Enki e cominciò con lui un processo di guarigione, chiedendogli dove aveva dolore ed estraendo dai suoi gonfiori delle divinità. Dalla sommità del capo mise al mondo Ab-u, Ninsikila dalle ciocche dei capelli, Ningiriutud dal naso, Ninkasi dalla bocca, Nazi dalla gola, Azimua dal braccio, Ninti dalle costole e dai fianchi Ensag.
Questo mito espone simbolicamente l'aspetto fondamentale della funzione che l'acqua e la terra hanno ai fini stessi della vita, sia nei termini di fecondità, sia in quelli legati alla maturazione stessa dei frutti della terra. Ma tende ad esprimere anche il concetto di pieno equilibrio che esiste tra queste due funzioni, come abbiamo visto all'inizio dell'articolo. La sola terra non può dare frutti senza l'acqua che la rende fertile e la sola acqua non può dare cibo se non ha una terra da fertilizzare.
Secondo Samuel Noah, inoltre, la nascita di Ninti dalle costole avrebbe una chiara analogia con la nascita della stessa Eva, plasmata da una costola prelevata dal petto di Adamo. Inoltre con Ninti Eva avrebbe in comune anche lo stesso epiteto di "madre di tutti gli esseri viventi". Come ci è infatti possibile leggere nel libro della Genesi, il corpo dell'uomo viene plasmato dalla polvere della terra, e la vita gli viene insufflata mediante il soffio dell'alito divino. Il termine terra, in effetti, in ebraico è adamah, e lo si usa sia per riferirsi al concetto di terra come elemento (alchemico se vogliamo), sia come materialità e come termine di umanità, di appartenenza ad uno status terreno. Dopo che Adamo fu addormentato e privato di una costola e venne così creata la donna, questa prese il nome di "Khavvah", che, come ci giunge dalla Genesi stessa "essa fu madre di tutti i viventi". Non è poi così sorprendente trovare un mito sumero rivisitato in un mito ebraico. In parte per la vicinanza geografica tra le popolazioni, ma anche per la struttura stessa del tessuto del mito che, già in altre occasioni, si è costruita tassello per tassello partendo da basi comuni.
Questo stesso aspetto ierogamico di fusione tra terra e acqua (vista come esondazione), o terra e cielo (inteso come pioggia fecondatrice), rimane alla base di molti culti legati alla terra, ai raccolti e a tutto il ciclo di vita, morte e rinascita degli aspetti vegetali della natura. Rhea e Ninhursag condividono la capacità di essere genitrici degli dei, nonché di essere divinità della terra e dei suoi cicli. Come, spesso erroneamente, si tende a percepire, soprattutto nel mondo neopagano, la terra in quanto emanazione elementale pura e semplice non è fertile, bensì sterile. Diventa feconda solo quando incontra l'acqua, come ben sapevano tutte le civiltà più antiche che crearono insediamenti e culti nei pressi dei bacini e dei fiumi: egizi nella Valle del Nilo, sumeri, babilonesi, elamiti, hurriti, accadi e assiri in Mesopotamia, tra il Tigri e l'Eufrate, gli Indiani nella Valle dell'Indo, i Cinesi nella pianura del Fiume Giallo e del Fiume Azzurro etc. Esattamente come una donna non è in grado di mettere al mondo un figlio senza essere fecondata da un uomo, la terra non può essere resa fertile senza l'ausilio dell'acqua.
Ciò nonostante, è possibile notare come nel mito di Rhea esista una dipendenza dal marito che Ninhursag non ha, a testimoniare che il mito, stratificato, ha subito varie mutazioni. La dea greca era costretta a subire le violenze di Crono, a vedere i suoi figli divorati vivi e ad escogitare stratagemmi e sotterfugi per salvar loro la vita, mentre la dea sumera semplicemente si alzava dal luogo dove aveva giaciuto con Enki e si ritirava sulle montagne, lasciando il dio da solo e partorendo in solitudine, al punto che appare simbolico che il padre non riuscisse a distinguere la stessa figlia in quanto non l'aveva mai vista e si trovasse a sedurla per la somiglianza che aveva con la madre. Non appaiono momenti, nel poema epico di Enki e Ninhursag, in cui traspare una vera e propria violenza da parte del maschile, ciò nonostante la dea si prende la sua vendetta inducendo il dio a nutrirsi del suo stesso seme trasformato e portandolo quindi sul filo della morte in quanto non in grado di partorire.
A differenza del mito greco, quello sumero nasce per spiegare il ciclo naturale di vita, morte e rinascita legato al mondo vegetale. Rhea invece era una Grande Madre più estesa, inglobando il suo concetto in tutto il mondo vivente, ivi comprese le creature selvagge, come si evince anche da Apollonio Rodio nelle Argonautiche, che parla di fiere che escono dalle caverne scodinzolando.
Definire questa divinità la "Potente" è un modo per giustificare la sua natura suprema. Ella non è solo la terra su cui noi camminiamo, il suolo che coltiviamo, e ciò che ci dà il nutrimento con cui ci sostentiamo, ma rappresenta più che altro il ciclo che permette lo scorrere dell'energia che permea la vita stessa. Mi sono sempre chiesto quale sia lo stimolo che permette ad una passiflora o una ninfea di capire quando è giunta l'ora di aprirsi o di chiudersi a seconda dello scorrere del giorno. Mi sono sempre chiesto cosa inducesse un fiore a rilasciare il polline, un frutto a maturare. A livello biologico e scientifico le risposte sono congrue, competenti, frutto di un'osservazione precisa e dettagliata; tuttavia non sono una risposta reale. Per riconoscere in ogni moto e ciclo vivente un reale significato è talvolta necessario cercare una spiegazione di stampo più teosofico. In questo contesto la Grande Madre è colei che favorisce la vita sopra ogni altra cosa, è colei che fa sì che anche il luogo più brullo pulluli di esseri viventi, che piante come la Rosa di Jericho possano trovare la loro oasi dove spalancarsi e rinverdire.